Far comune il futuro. Nodi italiani, questioni europee

By 31 Gennaio 2018Attualità

Il rapporto con l’Europa è senz’altro la questione centrale e più importante per il nostro futuro, anche perché riassuntiva di tante altre, su cui si gioca la campagna elettorale. L’abolizione del Fiscal Compact con nuove regole più semplici sul deficit e sul debito, l’attuazione del pilastro sociale, il rilancio del piano Juncker di investimenti pubblici, le regole sulle banche (trattamento delle sofferenze, dei derivati e dei titoli di stato), sono i dossier cruciali su cui l’Italia dovrà discutere sedendo al tavolo con i Paesi membri nei prossimi mesi.

L’Italia può e deve arrivare a questo appuntamento nel modo migliore possibile, con forza contrattuale e con le migliori idee per massimizzare i benefici per i nostri cittadini e per la costruzione di uno spazio europeo orientato al bene comune.
Il consenso sull’abbandono del Fiscal Compact sta crescendo: i suoi fondamenti teorici non esistono – come ripetuto più volte da studiosi – e ha fallito nell’obiettivo di ridurre la crescita del debito dei Paesi membri. Per mantenere la reputazione di nazione affidabile sui mercati internazionali bastano regole molto più semplici orientate a un trend di leggera riduzione del rapporto debito/Pil. La strategia su questo punto non deve però essere solo difensiva.
Facendo proprio l’imperativo del discorso di Mario Draghi a Jackson Hole, l’Italia deve riqualificare la spesa valorizzando tutte quelle scelte che si sono rivelate ad alto moltiplicatore. Ciò significa deve dare spazio prioritario alla “spesa pubblica che riduce il debito” perché mette in moto un processo di crescita e un prelievo fiscale in grado di più che compensare le uscite iniziali. Così è stato per il bonus sulle ristrutturazioni edilizie che, grazie alle robuste detrazioni spalmate nel tempo, ha fatto emergere il nero. Così per il superammortamento che ha rimesso in moto gli investimenti privati delle imprese italiane dopo la crisi. A queste due voci si potrebbe aggiungere quella ipotizzata del voucher universale per i servizi alla famiglia e alla persona (proposta di legge già presentata ma poi bloccata in Parlamento) che ripropone il modello del bonus per le ristrutturazioni edilizie sul terreno cruciale per la generazione sandwich. Ovvero per quella maggioranza di famiglie schiacciate da oneri e costi nella cura delle generazioni anziane e di quelle nascenti.
In Francia questo meccanismo mette a disposizione fino a 600 euro di detrazioni fiscali al mese a famiglia e ha attivato in pochissimo tempo più di mezzo milione di posti di lavoro. Un quarto fronte da curare è quello promettente e nascente dei Social impact bond, ovvero di quegli strumenti di finanziamento innovativi nei quali lo Stato affida al privato non profit più qualificato la gestione di un servizio pubblico aumentando qualità, riducendo spesa pubblica e generando profitti per gli investitori privati che concorrono a finanziare l’iniziativa. Applicati a temi come il contrasto alla recidiva carceraria, all’abbandono scolastico, budget di salute e molti altri ancora, i Social impact bond sono espressione concreta della sussidiarietà circolare e hanno la potenzialità di essere “spesa pubblica” ad altissimo moltiplicatore e possono realizzare l’obiettivo win-win di ridurre la spesa stessa aumentando la qualità dei servizi.
Partita chiave è quella delle politiche fiscali per la sostenibilità ambientale e sociale, e non solo per le “anime belle” innamorate dell’ecologia umana e integrale. Nella competizione internazionale l’Europa eccelle in qualità ambientale e tutela del lavoro. Questi pregi non possono essere trasformati in handicap di cui liberarsi per via del dumping socioambientale dei concorrenti internazionali. È urgente che la riforma dell’Iva prossima ventura differenzi le aliquote premiando le filiere ambientalmente e socialmente sostenibili sulla base di regole semplici e condivisibili (economia circolare, convenzioni Ilo, ecc.).
Se non agiremo da questo lato e in quella sede ogni lodevole tentativo di aumentare qualità di lavoro e ambiente solo da noi finirebbe per produrre paradossalmente l’effetto opposto rendendo le nostre imprese meno competitive e spingendole a scegliere il nero nella corsa al ribasso della riduzione dei costi. Sarà inoltre cruciale in Europa la battaglia per la biodiversità bancaria. L’Italia (in questo non molto diversamente da tanti altri Paesi membri) ha una spina dorsale fatta di piccole e medie imprese che faticano ad accedere al credito. Negli ultimi decenni le banche cooperative ed etiche hanno svolto un ruolo chiave prestando di più ai piccoli in rapporto al loro attivo e con meno sofferenze delle grandi banche sistemiche.
Le regole di assorbimento patrimoniale europee non possono essere a senso unico, chiudendo un occhio sugli enormi rischi legati ai derivati ed essendo esageratamente severe verso il credito alle piccole e medie imprese. Un ultimo fondamentale punto riguarda contemporaneamente sostanza e percezione dell’Europa. Che deve arrivare direttamente a curare le ferite di interi ceti sociali colpiti dalla crisi e affascinati dalle sirene populiste. Il pilastro sociale deve voler dire un’Europa che contribuisce direttamente (con riassicurazione, fondi di garanzia o altri approcci) alle reti di protezione universali (i redditi d’inclusione) esistenti nei diversi Paesi e alle nuove forme di sanità e previdenza integrativa ormai parte dei contratti di lavoro e di welfare aziendale. È attraverso questo impegno programmatico e queste linee di azione che nei Paesi membri le forze europeiste possono sconfiggere le sirene del ‘no Europa’ e del ‘boh Europa’ che attraggono pericolosamente tanti elettori.

Leonardo Becchetti
Avvenire.it, 31 gennaio 2018