La responsabilità di chi ha vinto

By 6 Marzo 2018Attualità

Nessun partito o coalizione ha i voti per governare in solitudine. Le rivendicazioni dell’incarico sono legittime ma devono misurarsi con la realtà di un Parlamento al momento senza maggioranza.

Domenica 4 marzo è finito il mondo della politica italiana che abbiamo conosciuto negli ultimi venticinque anni. Le divisioni tra destra e sinistra quasi non esistono più nelle urne. Il centrosinistra precipita in un abisso inimmaginabile fino a qualche mese fa. Berlusconi, il capo indiscusso dei conservatori, l’uomo che con la sua discesa in campo e il rapporto diretto con gli elettori aveva dominato sempre la scena, viene sconfitto nella competizione interna da Matteo Salvini, il leader che ha cambiato pelle alla Lega. I Cinque Stelle, affidati dal comico fondatore Beppe Grillo a Luigi Di Maio, ottengono un grande successo proprio quando decidono di uscire dal recinto della semplice protesta.
Niente sarà più come prima. Cambiano i protagonisti, cambia la geografia elettorale del Paese, cambiano le motivazioni del consenso. La sconfitta del Pd ci restituisce un’Italia quasi bipolarista. Il centrodestra è fortissimo al Nord ma altrettanto rilevante con la Lega in aree del Centro e del Sud del Paese: in nome dei temi della rivolta fiscale, dell’immigrazione e della sicurezza (si veda il caso di Macerata con il partito di Salvini passato da 153 a 4.808 voti).
I Cinque Stelle sfondano nel Mezzogiorno cavalcando la rivolta contro le vecchie classi dirigenti e offrendo il reddito di cittadinanza come soluzione alla disoccupazione di massa, soprattutto giovanile. Una divisione politica e territoriale netta ha spazzato via nomi e candidature forti sulla carta; il voto d’appartenenza, dato solo al partito e alle sue parole d’ordine, ha reso invisibili le alternative legate alla competenza e alla notorietà. Il prezzo più alto lo ha pagato il centrosinistra (e il suo capo Matteo Renzi), in una replica ancora più dura della sconfitta del referendum costituzionale del 2016. Non sappiamo ancora se le dimissioni, annunciate ieri, rappresentino l’uscita di scena definitiva di un leader che aveva suscitato speranze e qualche illusione. Anzi aver congelato la convocazione della fase congressuale, aver rinviato tutto al termine delle consultazioni per il governo sembra dimostrare che vuole controllare possibili deviazioni dalla linea annunciata ieri: opposizione e mai accordi con M5S e centrodestra. Nel Pd si aprirà una battaglia politica e di ambizioni personali il cui approdo non è per niente scontato, vista la fuga di parte dei suoi elettori verso il Movimento Cinque Stelle.
Una fase tremenda in cui il Pd sarà dilaniato dal dilemma su come spendere il proprio capitale, anche se ridimensionato, di eletti in Parlamento. Luigi Di Maio ha aperto ieri al dialogo per la formazione di un governo, imperniato su se stesso e sul M5S, che nelle sue intenzioni potrebbe coinvolgere principalmente il centrosinistra. Anche Matteo Salvini si è detto pronto ad assumere l’incarico in rappresentanza di una coalizione di centrodestra molto lontana dal vecchio schieramento dominato da Silvio Berlusconi. Le lodi sperticate al capo leghista arrivate da importanti dirigenti di Forza Italia sono il sintomo più chiaro della corsa al vincitore e del suo tentativo di conquista definitiva della guida dei conservatori italiani. Un progetto che punta alla costruzione di un’ampia formazione nazionalista molto diversa dal vagheggiato schieramento liberale del Cavaliere.
Naturalmente siamo solo all’inizio di una fase politica in cui alcuni elementi sono però chiari: nessun partito e nessuna coalizione ha i voti per governare in solitudine. Le rivendicazioni dell’incarico da parte dei vincitori sono legittime ma sembrano prove muscolari che devono misurarsi con la realtà di un Parlamento al momento senza maggioranza. Il fatto che M5S e Lega non abbiano accantonato le pulsioni antieuropee rende gli accordi ancora più complicati.
La partita passa nelle mani del presidente della Repubblica che, crediamo, non abbia alcuna intenzione di farsi trascinare in tentativi dimostrativi di formare il governo, fatti solo per riaffermare il proprio ruolo. Il capo dello Stato ha il compito di assicurare stabilità all’Italia con un esecutivo sostenuto da numeri sufficienti. È un cammino stretto e difficile ma l’unico percorribile. Quantomeno per assicurare quei provvedimenti e quelle riforme che permettano di giocare la prossima gara in una maniera meno frantumata ed efficace. Nella speranza che l’eterna transizione italiana finalmente si chiuda.

Luciano Fontana
Corriere.it, 5 marzo 2018