Chi si scandalizza per il caso Facebbok-Cambridge Analytica è scemo o mangia sassi

Alcune utili letture da fare (e domande da farsi) sul caso che sta trascinando nel fango il colosso social di Mark Zuckerberg.
Sul caso Cambridge Analytica, lo scandalo che in questi giorni sta mandando a picco le azioni di Facebook (e di conseguenza quelle di altri social network) e che sta producendo un bel danno di immagine a Mark Zuckerberg, ci sono alcune utili letture da fare.
Rapidamente la sostanza, per chi si fosse perso la notizia. Come ha scritto il Fatto quotidiano del 21 marzo:
«Facebook è accusato di aver permesso a una società esterna – che aveva sviluppato una app autorizzata dal social – di cedere illecitamente ad altri molti dati raccolti. Ma soprattutto, di averlo saputo da un paio di anni e di averlo taciuto».
La società esterna in questione è appunto Cambridge Analytica. E gli “altri” a cui secondo le accuse sarebbero stati ceduti illecitamente i dati di milioni di utenti di Facebook sono invece gli strateghi della campagna elettorale di Trump. Così da qualche giorno si leggono sulla stampa di tutto il mondo titoli scandalizzati sul fatto che nel 2015, l’anno dell’elezione, c’erano “i trumpiani negli stessi uffici con Cambridge A. e Facebook”.
Ma fin qui, per così dire, è mainstream. Tuttavia anche nel mainstream si possono trovare cose interessanti. Per esempio, qualche dettaglio della biografia di Christopher Wylie, l’ex genietto di Cambridge Analytica che, roso dalla sensazione di avere favorito Trump con le sue invenzioni tecnologiche, ha deciso che era giunta l’ora di mettere alla gogna il suo ex datore di lavoro e si è messo a raccontare pubblicamente tutto quello che accadeva e accade là dentro. E però, almeno finché non si è trovato al servizio di Steve Bannon attraverso la collaborazione con Cambridge Analytica, Wylie non ha mai dato mostra di provare rimorso per certe attività. Scriveva per esempio Cristina Marconi sul Messaggero del 20 marzo:
«Wylie è un irregolare. Ha lasciato la scuola a sedici anni senza neppure un diploma, ma la sua dimestichezza con l’informatica l’ha presto portato a lavorare con la politica: prima, a 17 anni, nell’ufficio del leader dell’opposizione canadese e poi, un anno dopo, a fare apprendistato dall’ex responsabile del “targeting” politico per la campagna di Barack Obama. Un’ascesa fulminante che l’ha convinto, a 20 anni, a riprendere gli studi e a decidere di andare a studiare legge alla London School of Economics, trasferendosi nel Regno Unito e iniziando lavorare con i LibDem: se si fossero fatti sedurre loro dalle sue idee la storia avrebbe preso un corso molto diverso.
Ma proprio l’osservazione di quell’elettorato fluido, innovatore, progressista, aperto a tutto gli ha dato la sua idea chiave, secondo quanto raccontato dall’Observer: «I tratti della personalità possono predire i comportamenti politici».
Altro elemento istruttivo è la “diversità di vedute” che emerge sui fatti di questa vicenda tra lo stesso Wylie e Alexander Nix, l’amministratore di Cambridge Analytica ora sospeso dall’incarico proprio a causa della tempesta mediatica. Sempre il Messaggero:
«Nix, in un’audizione sulle fake news di febbraio scorso, ha dichiarato davanti ad una commissione parlamentare che “non lavoriamo con i dati di Facebook, usiamo Facebook per fare pubblicità”, cosa che Wylie contesta dal profondo, spiegando che “nei tempi in cui ci lavoravo io era fondamentalmente non vero, poiché abbiamo speso un milione di dollari per raccogliere decine di milioni di profili Facebook” e anzi, “la compagnia stessa era fondata sull’uso dei dati Facebook”».
Come racconta il Corriere della Sera, secondo Wylie lo «stratega» di questa enorme raccolta di dati era Steve Bannon, il principe dei consiglieri di Trump durante la campagna elettorale (poi cacciato dalla Casa Bianca per divergenze con il presidente). E più o mento tutti i giornali tendono ad accreditare la tesi che si trattasse di una operazione illegale perché quei dati sono stati raccolti senza il consenso degli utenti. Questo consente a Facebook di provare a buttarla sulla tesi della falla nella sicurezza, tanto è vero che «il posto di Alex Stamos, responsabile per la sicurezza di Menlo Park, sembra sia prossimo a saltare» (il Fatto quotidiano). Tuttavia la sensazione è che il problema appare un attimo più ampio. Quante sono al mondo le società «fondate sull’uso dei dati Facebook»? Migliaia? E gli utenti interessati? Milioni? Miliardi? E i dati usati? Miliardi di miliardi di miliardi di miliardi? Saranno sempre e solo dati “consensati”, come dicono i “web marketing manager” quando chiacchierano tra loro dell’ultima app sviluppata dalla propria start-up per monetizzare tutto quel bendidio?
Disse il 21 marzo al Fatto quotidiano Evgeny Morozov, giornalista e sociologo bielorusso esperto di web, e tra l’altro commentatore per il britannico Guardian, uno dei giornali più scatenati sul caso Cambridge Analytica:
«La manipolazione mirata del processo politico c’è almeno dall’inizio della Guerra fredda. Ora che è venuta in superficie, molti abbandoneranno la loro visione teorica sul funzionamento della democrazia e capiranno che spesso passa da ditte oscure come la Cambridge Analytica, per quanto inefficaci. Solo pochi anni fa, il vostro primo ministro celebrava i consulenti politici americani come Jim Messina. La società madre di Cambridge Analytica, SCL Group, fa parte dello stesso universo».
È la stessa biografia della “gola profonda” Wylie a confermare indirettamente tutto ciò. Non ci interessa difendere Cambridge Analytica, ma è chiaro da anni ormai che c’è tutto un mondo che prospera lungo il confine molto mobile tra uso lecito e furto dei dati. Alzi la mano chi non ha mai avuto la sensazione di essere un tantino “profilato” (e chissà se legalmente o meno) vedendo comparire nel proprio browser la pubblicità dell’automobile di cui aveva appena scritto a un amico via email.
Interessante in questo senso la linea di difesa adottata da Aleksandr Kogan, il ricercatore accusato da Wylie di avere creato per Cambridge Analytica la app che serviva a carpire i dati degli utenti di Facebook. Si legge in un articolo pubblicato nel sito del Guardian: «Kogan ha detto al programma Today della BBC Radio 4 di essere stato ingiustamente incolpato per lo scandalo. Ha detto: “La mia idea è che sono stato usato come un capro espiatorio sia da Facebook che da Cambridge Analytica. Onestamente noi credevamo che quello che facevamo fosse perfettamente legale. Pensavamo di fare cose veramente normali”.
Kogan ha anche contestato la dichiarazione di Cambridge Analytica secondo la quale sarebbe stato lui ad avvicinare la società. La app per il test della personalità, ha detto, era una loro idea, non la sua. E ha sottolineato che [Cambridge Analytica] ha pagato fino a 800 mila dollari per ingaggiare persone che la usassero. Gli avevano detto, sostiene Kogan, che lo schema era legale, anche se ammette che avrebbe dovuto metterne in dubbio l’eticità».
Bisogna svegliarsi un attimo. O almeno smetterla di fingere di cadere dalle nuvole ogni volta. Il prezzo della “gratuità” di internet siamo noi, sono i nostri dati, lo sappiamo da anni. Possibile che il sistema diventi una minaccia per la democrazia solo adesso che si scopre che Trump è stato il più bravo di tutti a usarlo?
Scrisse il 21 marzo Daniele Bellasio nella pagina dei commenti di Repubblica:
«Cercare lavoro? Trovare casa? Andare a un concerto? Provarci oggi senza Big Data è impresa complicata. Sì, ma la politica è un’altra cosa, si dice. La politica è il limite? Parliamone. Per esempio, Barack Obama. Le campagne elettorali dell’ex presidente democratico so- no state universalmente elogiate anche perché hanno portato la rivoluzione digitale nella politica. Obama ha vinto le primarie e poi le presidenziali anche «misuran- do tutto», come diceva il suo stratega elettorale Jim Mes- sina. Incrociando i dati degli elettori (negli Stati Uniti ci si registra come “democratici”, “repubblicani” o “indi- pendenti”) e quelli raccolti in Rete e sui social network si potevano e si possono fare campagne elettorali mira- te fino al punto di far arrivare all’elettore credente il messaggio, la lettera o l’e-mail che sottolinea la probità religiosa del candidato X oppure recapitare all’elettore pensionato le proposte di riforma avanzate dalla candi- data Y per rafforzare il sistema previdenziale. Lo staff di Obama, con questo fine: «misurare tutto», faceva più di 100 analisi di dati con oltre 66.000 simulazioni al com- puter ogni giorno. E ha vinto anche grazie a questa mo- derna applicazione su scala più ampia e interconnessa di quella che era l’arte dei sondaggi e della statistica».
Molto frontale come sempre è stata sullo stesso argomento Maria Giovanna Maglie in un articolo apparso su Dagospia alcuni giorni fa: «La cosa più fastidiosa di tutto questo casino intorno a Cambridge Analytica e Facebook, abilmente tirata fuori dal sinistrissimo Guardian, ripresa avidamente dal New York Times, e ora cavalcata da tutti i giornaloni del mondo in missione contro il populismo per conto di Dio, è che non gliene frega proprio niente a nessuno di denunciare, casomai, che il Grande Fratello è arrivato, ha colpito e se n’è andato.
A nessuno importa che la popolazione mondiale basta che metta un ditino su internet ed è analizzata, spogliata, vivisezionata, sfruttata, schedata, e il peggio è che fa la vittima molto volentieri, porgendo il capo al boia, riempiendo profili, test della personalità, quiz, scambiandosi insulti con amici virtuali, insomma esponendosi senza paura.
A nessuno interessa che le famose tecniche raffinatissime di plagio del voto furono sperimentate la prima volta in Virginia per l’elezione di un governatore, e fallirono, non hanno funzionato neanche un po’ nonostante gli alti lai per Marine le Pen, e che si chiamavano Big Data per la campagna di Barack Obama, e furono invece accolte come un sofisticato strumento nuovo della democrazia».
Insomma dov’è lo scandalo?, verrebbe da domandare. Perché Obama sì e Trump no? È una domanda che bisogna porsi per forza, prima di mettersi a gridare che la democrazia è in pericolo. Altrimenti si rischia di infilarsi nell’angolo in cui si è intrappolato Antonello Soro, presidente dell’Autorità per la privacy, con l’intervista concessa il 20 marzo a Ada Pagliarulo di Radio Radicale. Eccone un passaggio emblematico:
Pagliarulo: «Sul sito web della Cambridge Analytica si legge che nel 2012 la Cambridge Analytica ha realizzato un progetto per un partito italiano che stava rinascendo e che aveva avuto successo per l’ultima volta negli anni Ottanta. (…) Cambridge Analytica ha utilizzato i dati dei passati membri di questo partito con i potenziali simpatizzanti, e quindi (…) ha suggerito, addirittura, pare, a questo partito riforme che hanno consentito di rinascere nelle urne e ottenere risultati molto superiori alle aspettative, in un momento di grandi turbolenze politiche in Italia. Così sul sito della Cambridge Analytica. Anche in questo caso è abbastanza delicata la questione…».
Soro: «Io non ho gli elementi per dire se questo è accaduto e chi sia il destinatario di questa campagna di riconquista degli elettori, di allargamento in qualche modo viziato del consenso. Però è possibile. Ed essendo possibile non possiamo sorprenderci se oltre che in Inghilterra, negli Stati Uniti o in altre parti del mondo si utilizzano questi canali per la ricerca del consenso. Se è possibile, ci sarà sempre qualcuno che è in grado di comprare questo servizio. Il problema infatti a quel punto non è tanto di identificare chi è stato l’ultimo (anche questo sarebbe utile, sarebbe interessante) ma quanto di impedire che questo possa verificarsi.»
Pagliarulo: «E se fosse verificato che effettivamente è accaduto, si rimetterebbe in questione la legittimità delle nostre consultazioni elettorali allora?».
Soro: «Ma non c’è mai un ritorno indietro. Il momento del voto in qualunque democrazia è un momento solenne che non è revocabile. Si può revocare il consenso nella volta successiva, ma non utilizzare queste informazioni per delegittimare chi è stato eletto. La vicenda Trump insegna che tra l’altro i cittadini non apprezzano tutte queste notizie che vengono fuori il giorno dopo».
Pagliarulo: «Quindi l’importante è prevenire che accada…».
Soro: «Certo, certo».
Pagliarulo: «Però non si può sanzionare, se per caso si verifica davvero che è avvenuto».
Soro: «Si può dare una sanzione reputazionale. Esattamente come è avvenuto con Fb ieri, se domani si scoprisse che un partito italiano ha utilizzato Cambridge Analytica per mandare messaggi in qualche modo selettivi e da profilazione personalizzata ai suoi elettori, raccontandolo a tutti gli elettori italiani credo che la reputazione di questi partiti perderebbe qualcosa».
Che cosa è più manipolatorio? Mandare «messaggi in qualche modo selettivi e da profilazione personalizzata» ai propri elettori, oppure spacciare quei messaggi oggi per grande rivoluzione e domani per un modo illegale di influenzare le elezioni, a seconda del mittente? Il problema è un po’ più ampio del tipo di consenso che abbiamo dato alle informazioni condivise su Facebook. Il problema, se mai, è che mezzo mondo sembra essersi convinto che ormai da Facebook si prendano anche i criteri per il voto.

Redazione Tempi.it, 21 marzo 2018