Così il deficit di infermieri fa salire il numero di morti

By 9 Aprile 2018Salute

Con più di 6 pazienti a carico aumentano i rischi.

Papa Francesco non si è limitato a definirli «esperti di umanità» e a parlare di quel «contatto con i pazienti che porta un riverbero della vicinanza di Dio Padre». Ai 6.500 operatori sanitari della Fnopi che ha incontrato in udienza privata il 10 gennaio, il Pontefice ha parlato anche della «carenza di personale, che non può giovare a migliorare i servizi offerti e che un’ amministrazione saggia non può intendere in alcun modo come una fonte di risparmio». Un discorso tutt’ altro che formale, insomma. Lo ha riconosciuto la presidente dell’ Ipasvi, Barbara Mangiacavalli, tenendo a battesimo, qualche settimana dopo, la Federazione nazionale delle professioni infermieristiche, nata dalle ceneri dell’ Ipasvi in applicazione della legge Lorenzin (3/2018): dopo anni di tagli, ha sottolineato, la sanità italiana deve ripensare il ruolo e le risorse del personale infermieristico che è ormai «il ‘cuscinetto’ tra i bisogni dei pazienti e le esigenze di un’ economia che, non per colpa nostra, spesso non li vede e non li affronta per quel che sono». O ggi, la Fnopi rappresenta più di 440mila infermieri. Sono i ‘superstiti’ di una stagione che ha ridotto questa categoria del Servizio sanitario nazionale pubblico del 4,3%; come nessun altro, nel servizio pubblico. Dal 2009, anno dell’ ultimo contratto e dell’ inizio dei piani di rientro, sono state perse infatti 12.031 unità di personale contro 7.731 medici. Si è aperto un buco di oltre 20mila infermieri nelle strutture del Servizio sanitario nazionale – senza i quali è impossibile coprire i turni secondo le regole sull’ orario di lavoro dettate dall’ Ue – e di 30mila sul territorio, dove questi operatori dovrebbero rispondere ai bisogni di oltre 16 milioni di italiani con patologie croniche o non autosufficienza. Un deficit che, in base al turn over, arriverà in cinque anni a quota 70mila. Con pesantissimi riflessi sulla qualità del servizio: il ‘British Medical Journal’ avverte che il tasso di mortalità è inferiore del 20% se ogni infermiere ha in carico un numero di pazienti pari a 6 o meno e in Italia si superano i 12. In Campania sono 18. I l servizio territoriale costituisce un buco nel buco: secondo la Fnopi, per applicare realmente i nuovi Lea servirebbe un infermiere ogni 500 assistiti, in termini di assistenza continua. Non manca la risorsa umana: 42 atenei formano ogni anno 12.000 professionisti. Il problema sono i conti pubblici e le politiche di risparmio, mai terminate. La legge Lorenzin ha avviato il riordino della professione (appesantendo le sanzioni per gli abusivi) ma non ha fermato l’ emorragia: secondo la Ragioneria dello Stato, nel 2016 si sono persi altri 1.723 infermieri rispetto al 2015, quando se ne erano persi 2.788: cioè 4.500 professionisti in meno in due anni, particolarmente nelle Regioni in cui ci sono i piani rientro. Sono aumentati i precari, +1.951 a tempo determinato e +513 con lavoro interinale (pur sempre meno di altre professioni, il 6,1 per cento contro il 15,9 per cento), ed è salita l’ età media, da 47,47 anni del 2015 ai 48,02 del 2016. Numeri che hanno convinto la Fnopi e i sindacati a insistere, durante le trattative per il rinnovo contrattuale, più che sugli aumenti salariali sulla parte normativa, con l’ obiettivo di premiare la meritocrazia e incentivare le nuove professionalità. Si punta cioè a garantire agli infermieri italiani una progressione di carriera non solo organizzativa, ma anche professionale – oggi un infermiere viene assunto come tale e come tale finisce la carriera – e a mettere un freno all’ uso degli straordinari, finora utilizzati ampiamente per coprire le falle degli organici. M ettere la professione al passo dei tempi – è stato ripetuto durante le trattative con le Regioni significa anche non disperdere un patrimonio di esperienza, come è avvenuto invece negli ultimi anni, quando i tagli hanno indotto migliaia di infermieri ad emigrare: la méta preferita, almeno fino alla Brexit, è stato il Regno Unito, perché là un infermiere guadagna il triplo rispetto all’ Italia. Naturalmente, vale anche il contrario: gli stranieri che lavorano da noi oggi sono 30 mila e sono attratti da un differenziale retributivo ancora ampio rispetto ai Paesi in via di sviluppo, anche se la busta paga italiana continua ad assottigliarsi. Tra il 2015 e il 2016 essa ha perso altri 50 euro nonostante il calo di personale e l’ aumento di lavoro per chi resta in servizio. Nel 2015 un infermiere italiano guadagnava in media 37.632 euro e gli aumenti di cui si parla nell’ ipotesi contrattuale siglata da una parte del sindacato ma contestata dagli autonomi sarebbero «un aumento non aumento» a fronte dei quasi 700 euro persi negli anni con la svalutazione e la perdita di potere di acquisto. Q uesto, ovviamente, è un aspetto che il cittadino avverte marginalmente. Lui, diciamolo chiaramente, vorrebbe avere la possibilità di poter scegliere un infermiere di famiglia o di comunità come si fa col medico, magari trovare un infermiere in farmacia, o avere la possibilità di consultarne uno per il trattamento di una ferita, piuttosto che averlo disponibile nella scuola del figlio Vorrebbe ma non può, perché non c’ è. Il Piano nazionale della cronicità ha riconosciuto questa figura professionale, ricorda una di loro, Paola Obbia, «verificando il fabbisogno territoriale di infermieri di famiglia e di comunità ma si registrano ancora fortissime differenze di offerta assistenziale da regione a regione e se la tua Asl non prevede questo servizio non si può certo ovviare con la mobilità sanitaria». Vero. Il paziente non può spostarsi nelle poche Regioni che si sono già attrezzate con infermieri di prossimità, ma può mettere mano al portafoglio, ed è esattamente ciò che fa: si spendono di tasca propria oltre sei miliardi all’ anno per avere un’ assistenza professionale, una spesa concentrata in alcune regioni – in media, 744 euro in Lombardia e 316 in Campania – che riflette il differente reddito pro capite ma che, complessivamente, inchioda il Sistema sanitario a una prospettiva di inefficacia ed iniquità. C iò malgrado, certifica un sondaggio Cittadinanzattiva, la popolazione continua a considerare gli infermieri dei lavoratori disponibili ed empatici. L’ 84,7% dichiara di fidarsi di loro. Dice lo stesso – nell’ 81% dei casi – chi ha fatto ricorso ad infermieri privati. Insomma, siamo dinanzi a un capitale reputazionale enorme, che viene speso all’ estero dove la professionalità dei nostri infermieri è apprezzata, e che si traduce in Pil: esiste infatti un enorme mercato privato delle prestazioni infermieristiche. Sono 12,6 milioni gli italiani che si rivolgono a un infermiere pagando di tasca propria: 7,8 milioni per una prestazione una tantum, 2,3 milioni per avere assistenza prolungata nel tempo, 2,5 milioni per avere sia assistenza prolungata nel tempo sia prestazioni una tantum. Un mercato destinato a crescere; sia lo Stato che la Fnopi scommettono sull’ assistenza domiciliare, che tuttavia non copre tutto. Come spiega Francesco Scerbo, infermiere che ha scelto la libera professione «accreditare prestazioni Infermieristiche che sono le più richieste a domicilio (medicazioni chirurgiche, prelievi ematici, lesioni da pressione, terapia endovenosa ecc.) per pazienti che sono esenti dal pagare ticket per reddito o patologia credo sia atto di giustizia sociale. La gente deve curarsi, tanti sono indigenti e non hanno i denari per poterlo fare, soprattutto a domicilio». Il valore complessivo delle prestazioni infermieristiche erogate in un anno da infermieri privati professionali è pari a 6,2 miliardi e il mercato infermieristico è uno degli ambiti in cui si registra un sommerso rilevante: 6,3 milioni di italiani acquistano prestazioni infermieristiche senza fattura. Si inabissano così 1,4 miliardi di euro.

di Paolo Viana
Avvenire.it, 28 marzo 2018