I vescovi di Francia contro eutanasia e suicidio assistito

Tutti dobbiamo poter riflettere più serenamente possibile sul fine vita. Apportando i loro lumi il 22 marzo, i 118 vescovi di Francia firmano una Dichiarazione – Fine vita: sì all’urgenza della fraternità –. Essi vi esprimono la loro compassione verso i fratelli e le sorelle in fine vita, e salutano gli operatori sanitari che procurano loro una reale qualità di vita con un fine vita il più calmo possibile. Essi deplorano le disparità nell’accesso alle cure palliative sul territorio nazionale, così come l’insufficienza dei momenti formativi proposti al personale sanitario, perché questo genera sofferenze tragiche. Sono queste a dare occasione alle domande di legalizzazione dell’assistenza al suicidio e dell’eutanasia.

Con tali constatazioni, i vescovi di Francia avanzano sei ragioni etiche capitali per opporsi a tale legalizzazione che, di nuovo, sconvolgerebbe nel profondo la nostra società. Essi fanno appello ai loro concittadini e ai loro parlamentari per un soprassalto di coscienza, al fine che si edifichi una società fraterna in cui ci prendiamo cura gli uni degli altri, individualmente e collettivamente.
Ho voluto tradurre in italiano questo testo per indicare uno stile ecclesiastico positivo, razionale, genuinamente pastorale e (quindi) dogmatico: ho molto apprezzato come i Pastori di Francia si adoperino per riappropriarsi della parola culminante della “devise de la République” – fraternità –, ignorando la quale gli eredi della Révolution hanno dato vita, alternatamente, a una destra senza cuore e a una sinistra senza cervello.
Forse il presente documento sarà in Francia il canto del cigno della Chiesa, su questa materia: la macchina mortifera è già in moto, e l’esperienza insegna che i Vescovi si appellano invano alla responsabilità e alla coscienza dei politici, se nel lungo corso hanno rinunciato a formare la prima e la seconda, nonché a promuovere una classe politica convintamente ancorata a un’etica condivisa. Tuttavia è pur sempre bello (e forse anche utile) vedere che il seme del Vangelo resta vivo e vitale anche sotto le nevi di certi rigidi inverni.
Quali che siano le nostre convinzioni, il fine vita è una tempo che vivremo tutti e un’inquietudine che condividiamo. Ciascuno deve quindi potervi riflettere il più serenamente possibile, schivando gli scogli delle passioni e delle pressioni.
Vogliamo anzitutto esprimere la nostra piena compassione verso i nostri fratelli e sorelle in “fine vita”, come la Chiesa ha sempre cercato di fare. Essi si presentano nella loro debolezza, talvolta estrema. La loro esistenza è un appello: di quale umanità, di quale attenzione, di quale sollecitudine daremo prova verso loro, che vivono in mezzo a noi?
Salutiamo i professionisti della sanità che procurano una qualità di vita più distesa possibile, nel fine vita, grazie alla loro competenza tecnica e alla loro umanità – tanto nel quotidiano quanto nelle situazioni di urgenza. Alcuni tra loro sono impegnati, talvolta con forti convinzioni personali, nelle cure palliative. Grazie a loro e allo sforzo nell’impiego di tali cure, molti nostri concittadini vivono in modo tranquillo il loro fine vita.
Ciononostante, tali cure non sono sufficientemente sviluppate e le possibilità di sollievo della sofferenza, sotto tutte le sue forme, non sono abbastanza conosciute. È urgente combattere questa ignoranza, fonte di paure che non sono mai buone consigliere e di cui si nutrono i sondaggi.
Radicati come siamo nella totalità del territorio, deploriamo le disparità di accesso alle cure palliative, così come pure l’insufficienza di momenti formativi proposti al personale medico e paramedico – cosa che genera sofferenze talvolta tragiche. Ecco perché l’urgenza consiste nel proseguire lo sviluppo delle cure palliative perché ogni persona che ne abbia bisogno possa, secondo la legge del 9 giugno 1999, avervi accesso – quale che sia il luogo in cui vive, comprese le case di riposo (medicalizzate o meno che siano).
In ragione di tali carenze e della mediatizzazione di alcuni casi, in molti reclamano un cambiamento della legge nel senso di una legalizzazione dell’assistenza medica al suicidio e dell’eutanasia. A fronte di tale richiesta, affermiamo la nostra opposizione etica per almeno sei ragioni:
Non confondiamoci sulle urgenze!
1. L’ultima legge è stata votata recentemente, il 2 febbraio 2016. Facendo seguito a quella del 22 aprile 2005 – la cui risonanza fu intenzionale – essa prosegue nello sforzo di una presa in carico responsabile e collegiale da parte del personale per garantire un fine vita tranquillo. La sua applicazione è ancora largamente in cantiere e richiede una formazione appropriata. Valutare caso per caso come accompagnare al meglio ogni persona in stato di forte vulnerabilità domanda tempo, discernimento e delicatezza. Cambiare la legge manifesterebbe una mancanza di rispetto non solamente per il lavoro legislativo già compiuto, ma anche per il paziente e progressivo impiego del personale. La cui urgenza è che gli si lasci del tempo.
2. Forte della fraternità che proclama, come potrebbe lo Stato, senza contraddirsi, promuovere l’aiuto al suicidio o l’eutanasia – per quanto regolamentati – mentre sviluppa dei piani di lotta contro il suicidio? Significherebbe iscrivere nel cuore delle nostre società la trasgressione dell’imperativo civilizzatore: «Non ucciderai». Il segnale inviato sarebbe drammatico per tutti, e in particolare per le persone in situazione di grande fragilità, spesso strattonate da questa domanda: «Non sarò un peso per i miei cari e per la società?». Quali che siano le sottigliezze giuridiche ricercate per soffocare i problemi di coscienza, il gesto fratricida s’innalzerebbe nella nostra coscienza collettiva come una questione repressa e inevasa: «Cos’hai fatto di tuo fratello?».
3. Se lo Stato affidasse alla medicina l’incarico di eseguire queste domande di suicidio o di eutanasia, parte del personale medico sarebbe coinvolto – suo malgrado – a pensare che una vita non sarebbe più degna di essere vissuta, ciò che è contrario al Codice di deontologia medica: «Il medico, al servizio dell’individuo e della sanità pubblica, esercita la sua missione nel rispetto della vita umana, della persona e della sua dignità». Secondo Paul Ricœur e nella scia della tradizione ippocratica, la relazione di cura è per sua natura un “patto fiduciale” che unisce pazienti e curanti e che proibisce a questi ultimi, in nome di tale dignità, di fare volontariamente del male all’altro e tantomeno di farlo morire. Uccidere, anche pretendendo di invocare la compassione, non è in alcun caso una cura. È urgente salvaguardare la vocazione della medicina.
4. Anche se una clausola venisse a proteggere il personale medico e paramedico nella loro obiezione di coscienza, che cosa ne sarebbe delle persone vulnerabili? Nella loro autonomia, esse hanno bisogno di fiducia e d’ascolto per confidare i loro desiderî, spesso ambivalenti. Quale sarebbe la coerenza dell’impegno medico se, in alcuni luoghi, il personale medico o paramedico fosse facilmente disposto a dare seguito ai loro desiderî di una morte provocata chimicamente… mentre altrove il personale accompagnasse i pazienti verso una morte naturale e confortevole, mediante un ascolto paziente e il sollievo delle diverse sofferenze? La vulnerabilità delle persone – giovani e meno giovani – in situazione di dipendenza e di fine vita invoca non un gesto di morte ma un accompagnamento solidale. La tristezza di quanti domandano talvolta che si metta fine alla loro vita, se non è stata prevenuta1, dev’essere ascoltata. Essa obbliga a un accompagnamento più attento, non a un abbandono prematuro al silenzio della morte. Ne va di un’autentica fraternità, che è urgente rinforzare: essa è il legame vitale della nostra società.
5. I promotori dell’aiuto al suicidio e dell’eutanasia invocano «l’autodeterminazione del malato, il suo desiderio di essere padrone del proprio destino». Essi pretendono che «l’esercizio di questo diritto non tolga nulla a nessuno. È anzi il tipo stesso della libertà personale, che non esonda mai sulla libertà altrui». Ma che cos’è una libertà che, in nome di un’illusoria autodeterminazione, rinchiuderebbe la persona vulnerabile nella solitudine della sua decisione? L’esperienza attesta che la libertà è sempre una libertà in relazione, grazie alla quale il dialogo s’intesse affinché chi cura apporti un bene effettivo. Le nostre scelte personali, che lo si voglia o no, hanno una dimensione collettiva. Le ferite del corpo individuale sono delle ferite del corpo sociale. Se alcuni fanno la scelta disperata del suicidio, la società ha il dovere, anzitutto, di prevenire questo gesto traumatizzante. Tale scelta non deve entrare nella vita sociale per mezzo di una cooperazione legale al gesto suicida.
6. Reclamare sotto una qualsivoglia forma che si tratti di un “aiuto medico a morire” significa immaginare, come è il caso in alcuni Paesi vicini, delle istituzioni specializzate nella morte. Ma allora quali istituzioni? E con quali finanziamenti? Orbene, questo significa condurre il nostro sistema di Sanità a imporre al nostro personale medico e paramedico, nonché ai nostri concittadini, un angosciante senso di colpa, dal momento che ciascuno potrebbe essere condotto a interrogarsi: «Non dovrei considerare, prima o poi, di mettere fine alla mia vita?». Questa domanda sarà fonte di inevitabili tensioni per i pazienti, per i loro cari e per il personale. Peserebbe gravemente sulla relazione medica.
A fronte dei turbamenti e dei dubbi della nostra società, come raccomanda Jürgen Habermas, offriamo il racconto del “buon Samaritano”, che si fa carico dell’“uomo mezzo morto”, lo porta in un “ostello” ospedaliero ed esercita la solidarietà malgrado le “spese” che le sue “cure” richiedono. Alla luce di questo racconto, facciamo appello ai nostri concittadini e ai nostri parlamentari per un sussulto di coscienza: si edifichi sempre più in Francia una società fraterna, in cui tutti ci prendiamo cura – individualmente e collettivamente – gli uni degli altri. Questa fraternità ispirò l’ambizione del nostro sistema sanitario solidale all’indomani della Seconda guerra mondiale. Che faremo di siffatta ambizione? La fraternità riguarda una decisione e un’urgenza politiche che noi invochiamo con tutto il cuore.

Giovanni Marcotullio
(http://www.lacrocequotidiano.it/articolo/2018/03/23/chiesa/i-vescovi-di-francia-contro-eutanasia-e-suicidio-assistito)