E io che non volevo diventare papà

By 3 Giugno 2018Testimoni

Storia di Andrea ed Emanuela. Tre figli che per loro sono autentici «miracoli». E altri tre «nati al cielo» dopo il calvario di un morbo sconosciuto. «Che strana forma di predilezione».

Lui ateo anticlericale, lei cresciuta a pane e oratorio. Lui allergico a matrimonio e prole, lei aspirante mamma fin da piccina. Lui ragioniere a scuola e nella vita, lei musicista refrattaria all’ordine. Lui pantofolaio incallito, lei attivista irrefrenabile. «Il matrimonio è così, due mondi opposti che si scontrano come due sassi. Che sfregandosi si plasmano fino a diventare una carne sola».

Andrea Torquato Giovanoli, geometra, orafo e scrittore, ha raccontato la storia della sua famiglia in tre libri Nella carne, col sangue, Nel nome del padre, Non più due. «Volevo descrivere il modo misterioso con cui Dio ha sigillato l’amore fra me e mia moglie», dice a Tempi. Scrivendo del suo matrimonio il 42enne milanese prova a svelare «la croce della diversità e il sacrificio dell’essere padre e madre che ti portano alla pienezza». Che quelle di Andrea non siano frasi fatte lo dimostra tutta la sua vita. Il percorso di un uomo che da giovane voleva farsi sterilizzare, convinto che l’esistenza fosse «un inganno senza senso», e invece oggi è padre di sei figli, di cui tre già «nati al cielo dopo il calvario di una malattia ancora sconosciuta».

L’incontro e la conversione

«Quando incontrai la mia futura moglie Emanuela – ricorda lui stesso – dopo qualche mese mi decisi a lasciarla per la troppa diversità. Ma andai nel panico perché senza di lei non riuscivo più a vivere. Capii allora che dovevo provare a conoscere il suo Dio». È per lui la scoperta di un Cristo completamente diverso da quello che ha immaginato, «la risposta al bisogno irrisolto di senso che mi aveva portato a sopportare la vita come una trappola». E una volta scoperto il Signore, Andrea, avverso per carattere alle sfumature, decide di sacrificargli tutto, «che non significa non fare errori. Infatti, mi sposai che Emanuela era già incinta di Matteo».

Marito e moglie sono grati della gravidanza, poco dopo la nascita però scoprono che il figlio ha una malattia genetica di cui non esiste traccia su alcun manuale scientifico: «Non provai ribellione contro Dio: ci aveva comunque donato un figlio che amavamo così com’era». Piuttosto, a infastidirlo è la gente intorno che lo sprona a passare da uno specialista all’altro per indagare sulla genesi del male. «La sera di Natale mi rifiutai di portarlo in pronto soccorso per l’ennesima volta. Purtroppo la mattina seguente Matteo, a 16 mesi di vita, morì». E questa volta la ribellione gli monta dentro, tanto inconfessabile quanto implacabile: «Non mi arrabbiai con Dio, ma mi chiusi, e il mio matrimonio rischiò di naufragare».

Andrea ed Emanuela cominciano a vivere come due single: «Piano piano, rifiutando la vita, lasciai crescere fra noi una distanza che si allargò fino a farsi voragine, non ci sopportavamo più». Ancora una volta Andrea deve scegliere: «O Dio o il divorzio». E di nuovo l’impossibilità di stare senza Emanuela lo mette letteralmente in ginocchio: «Cominciai a pregare Dio di incidere il mio cuore diventato pietra». Finché un giorno una coppia di amici invita i coniugi al santuario di Czestochowa. Andrea partecipa al pellegrinaggio «come in gita», ricorda. E invece «la Madonna intervenne. Mi fece capire che dovevo rompere le catene che mi impedivano di rispondere alla mia vocazione di felicità. Ma per farlo dovevo morire a me stesso».

«Scelti per un compito»

Letizia e morte da quel momento diventano il filo conduttore del matrimonio di Andrea ed Emanuela: «Mi donai senza misure – spiega lui – scegliendo di obbedire a qualsiasi richiesta di mia moglie. Inclusa la possibilità di concepire un altro figlio». Poco tempo dopo infatti Emanuela gli annuncia di essere in attesa di Tobia. Anche questa volta, però, qualcosa non va. Al terzo mese gravidanza la donna rischia di abortire. «Pregammo moltissimo, pregarono i nostri amici. E il piccolo si salvò», ricorda Andrea. Ma passato il quinto mese, la moglie è di nuovo in ospedale. «Stava per partorire». Tobia nasce e viene subito intubato con poche probabilità di farcela. «Pregavamo giorno e notte. E ci riempì una gratitudine immensa per quel bambino, il dono con cui Dio aveva sigillato di nuovo l’amore fra me e mia moglie».

Contro ogni pronostico, Tobia sopravvive, e pochi mesi dopo Emanuela rimane incinta per la terza volta. Ben presto però anche Tobia manifesta i sintomi del male che si è portato via il fratello maggiore. Per Emanuela e Andrea «fu la prova che eravamo portatori sani di una malattia genetica sconosciuta. Che strana forma di predilezione: noi, così diversi, voluti insieme fin dall’inizio, scelti per un compito». Ancora una volta Andrea si sente «chiamato ad accogliere il Suo disegno».

I medici però non la pensano allo stesso modo e propongono a Emanuela di interrompere la gravidanza. Andrea cerca di opporsi ma viene estromesso dalla discussione. Lei tace e lui, terrorizzato da quel silenzio, corre nella cappella dell’ospedale a pregare. Quando torna dalla moglie, le promette: «Se abortisci digiuno per tutta la vita», ma Emanuela gli confessa di non aver pensato nemmeno per un istante a quella possibilità. «Da quel momento – racconta Andrea – cominciai ad accostarmi all’eucarestia quotidiana con una partecipazione di cui ho nostalgia. Mio figlio stava male e per me era come stare di fronte alla sofferenza di Cristo». Quel piccolo agli occhi di suo padre «stava contribuendo a salvare il mondo».
Al funerale di Tobia, un anno e quattro mesi dopo la sua nascita, «piangevano tutti mentre io ero contento. La gente stava fraintendendo: mio figlio era nato al cielo, e io avevo potuto adempiere ancora una volta alla mia missione di padre, quella di aiutare un figlio ad andare in paradiso».

«Un assaggio della resurrezione»

Tre mesi più tardi, fra il quinto e il sesto mese di gravidanza, nello stesso giorno dell’anno in cui era nato Tobia, a Emanuela si rompono le acque: «Scoprimmo allora che soffriva di un problema di ritenzione cervicale». Davanti alla prospettiva di una nascita prematura e di un possibile calvario anche per il terzogenito, i due coniugi sono travolti dall’apprensione e supplicano Dio di dar loro la forza per «accogliere un’altra prova». Grazie all’intervento di cerchiaggio dell’utero, il piccolo nasce al settimo mese. Emanuela e Andrea lo chiamano «il primo assaggio della resurrezione». Per la prima volta, marito e moglie assistono alla crescita normale di un figlio. Dice lui: «Ogni passo, ogni oggetto stretto fra le mani da Jonathan, ogni movimento, per noi era come assistere a un miracolo». La gioia è tale che Emanuela resta nuovamente incinta. E come le altre volte, al terzo mese di gravidanza scatta l’emergenza. La donna viene ricoverata per effettuare il cerchiaggio, «ma dopo l’intervento ci dissero che nostro figlio era morto». La notizia è uno schiaffo. Il più duro per Andrea, perché Mattia «è il figlio che mi manca di più. Mi manca non averlo visto né abbracciato».

Emanuela e Andrea non sapranno mai se il loro quarto figlio sia morto prima o a causa di quell’operazione di emergenza. «Preferimmo non indagare». Parole che oggi suonano come un accesso di follia. Non per un uomo e una donna che hanno toccato con mano come «la vita e la salute non sono diritti ma doni di Dio». È la consapevolezza che spinge i due coniugi a decidere di accogliere un quinto figlio.

Per la quinta volta la gravidanza arriva subito e dopo il “solito” cerchiaggio Emanuela viene allettata. «Eravamo comunque gioiosi», dice il marito. Peccato che di lì a poco anche Jonathan manifesta i segni della malattia. Il bambino ha quattro anni e piano piano comincia a perdere l’uso delle gambe. Non passano neanche dodici mesi e la situazione è talmente grave che papà Andrea teme il peggio. Jonathan entra ed esce dagli ospedali, è sempre più debilitato. Contro il parere dei medici, Andrea e la moglie si oppongono all’ennesimo ricovero, anche se «tanti amici e parenti non capivano». I due vanno a Medjugorje e a Lourdes. «Io chiedevo la grazia della letizia, mia moglie il miracolo della guarigione», ricorda Andrea. «La Madonna ci ascoltò entrambi». Andrea infatti trova la pace, e poco dopo una dottoressa propone per Jonathan una terapia sperimentale. «Mio figlio ha recuperato benissimo: oggi ha 8 anni e cammina», spiega il padre. Nel frattempo è venuto al mondo anche Cristian, il quinto, che adesso «ha quasi 5 anni e cresce sano».

Gli amici che in questi anni si sono allontanati da Andrea ed Emanuela sono stati tanti. Qualcuno, dietro la loro disponibilità ad accogliere i figli “così come sono”, vede solo egoismo; i due invece sono «certi che questo è il disegno di Dio: se non voleva i figli che abbiamo cercato e accolto, non ce li avrebbe donati». Ma la domanda resta: perché mettere al mondo figli che potrebbero essere malati? «Innanzitutto perché potrebbero non esserlo», risponde Andrea. «E poi perché tutti presto o tardi dobbiamo morire, ma la vita resta un dono, breve o lunga che sia». Prima di sposarsi Andrea era convinto del contrario, ma ora «so che il mio compito è guidare i mie figli al Paradiso», dice.

La pazienza di Dio

E così è arrivata anche la sesta gravidanza. Questa volta, dopo il cerchiaggio, la situazione di Emanuela si è aggrava per via di un calcolo renale: i medici hanno deciso di farla partorire prima del termine. Andrea da principio, temendo che la piccola Nadia potesse soffrire, si è ribellato: è stata Emanuela a convincerlo che «forse il Signore ci chiedeva ubbidienza tramite i medici. Mi sono arreso». Al momento del parto, poi, papà e mamma di Nadia hanno scoperto che se la gravidanza fosse stata portata a termine la bambina avrebbe rischiato grosso a causa di un nodo al cordone ombelicale.

«Dio è grande», commenta Andrea. «Ha pazienza con me, mi insegue anche quando Lo rifiuto e si immiserisce, passando attraverso mia moglie per ammansire la mia testardaggine». Sì, perché per lui «Emanuela è la carne scelta dal Signore per plasmarmi: la diversità di mia moglie rispetto a me è uno scandalo, ma se la accolgo divento migliore. Da freddo che ero, sono diventato accogliente; da rigido, più docile. Lei, attraverso il sacramento è per me la nuova incarnazione di Dio, che non posso conoscere e servire altrimenti». E la verità sul matrimonio e sulla vita, secondo Andrea, è la stessa per tutti: «Il cristianesimo mi ha convinto perché corrisponde alla mia natura di uomo. Dio ha risposto alla mia domanda di senso dicendomi chi sono, e quello che Cristo mostra, insegna e vive è comprensibile a ogni essere umano. È un’evidenza, tutti siamo fatti per generare la vita e completarci attraverso la diversità in una relazione».

Benedetta Frigerio

Tempi.it, 4 aprile 2017