Dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini

By 17 Luglio 2018Cultura

La stagione dei roghi dei libri fiorì in Germania da marzo a ottobre del 1933, ottantacinque anni fa, dopo la conquista del potere da parte di Adolf Hitler.

tratto dall’Osservatore Romano – La stagione dei roghi dei libri fiorì in Germania da marzo a ottobre del 1933, ottantacinque anni fa, dopo la conquista del potere da parte di Adolf Hitler. Si era iniziata a Dresda dietro la spinta degli universitari nazisti, si concluse in molte altre città con novantatré falò nei quali furono arsi oltre centomila volumi di centinaia di autori dichiarati “non tedeschi”, anche se la maggior parte di essi lo erano, insieme con decine di stranieri.

Naturalmente erano definiti la “feccia” gli esponenti della libera espressione del pensiero e della grande arte letteraria, dai fratelli Mann, Thomas e Heinrich, a Eric Maria Remarque (odiatissimo per il celebre romanzo antimilitarista Niente di nuovo sul fronte occidentale), ad Arthur Doeblin (autore dell’altrettanto celebre Berlin Alexanderplatz), a Lion Feuchtwanger, Franz Werfel, Sigmund Freud, a innumerevoli altri. Con loro furono “bruciati” gli italiani Pietro Nenni, Francesco Saverio Nitti, Ignazio Silone (Fontamara era stato da poco pubblicato in tedesco) e, forse soltanto per il cognome ebreo, Vicky Baum, inconsapevole vittima del fanatismo.

Gli incendi più spettacolari furono quelli di Berlino, in maggio, e di Monaco di Baviera, in giugno. Cominciò in questo modo il paradosso di una letteratura tedesca che in patria perse ogni significato culturale, mentre quella dell’esilio produceva indimenticabili capolavori. Se ne comprende la ragione quando si pensi che in quegli anni lasciarono il Paese più di centomila fra scrittori, docenti universitari, scienziati, ricercatori, poeti, saggisti, filosofi, giornalisti, pittori, architetti, cineasti, attori, il fior fiore dell’intellighenzia germanica.

La grande tradizione culturale tedesca si trasferì all’estero. Così fra gli altri Thomas Mann comporrà la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli (1933-1943), Carlotta a Weimar (1939) e l’appello antinazista del 1938 Attenzione, Europa!, Bertolt Brecht Vita di Galileo (1938) e Madre Coraggio e i suoi figli (1939), Erich Maria Remarque Tre camerati (1937) e Ama il prossimo tuo (1941), Alfred Döblin Senza quartiere (1935), Anna Seghers La settima croce (1942). Quasi contemporaneamente nacquero le opere di Carl Zuckmayer, Lion Feuchtwanger, Franz Werfel, Konrad Heiden, Ernst Lothar, Ernst Gombrich, Robert Musil, insieme con quelle di un’altra schiera di autori che ancor oggi onorano gli scaffali delle biblioteche.

Furono poche le figure di spicco che il regime riuscì ad arruolare: il commediografo Gerhard Hauptmann, premio Nobel per la letteratura (già anziano, alcuni anni più tardi si presterà a essere strumentalizzato dalla Germania comunista), Martin Heidegger, filosofo dell’esistenzialismo e convinto antisemita, Carlo Schmitt, giurista di risonanza mondiale; fra i letterati, le ambigue personalità di Ernst Juenger e Gottfried Benn (che saranno ben presto messi a tacere), accanto a scrittori di secondo rango, come Hans Carossa, Agnes Miegel e Hanns Johst, l’ultrahitleriano presidente della Camera degli scrittori passato alla storia unicamente per una battuta pronunciata dal protagonista di un suo dramma: «Quando sento la parola cultura, tolgo la sicura alla mia Browning». Restò una coraggiosa “emigrazione interna” vessata e costretta al silenzio.

Accanto a intellettuali laici come Hans Fallada, Eric Kaestner, Karl Jaspers, Richarda Huch e a un autore di grande intensità spirituale come Ernst Wiechert, spicca la schiera dei cattolici che in patria resistette sino all’estremo respiro. Fra loro il teologo Romano Guardini, animatore e guida di una associazione di studenti cattolici, Quickborn, che alla fine fu chiusa. Anche se relegato al confino non desistette dal mantenere i contatti con un altro grande pensatore protestante, Karl Bart, cacciato dall’università di Bonn e docente a Basilea; insieme, approfondirono la teoria paolina della giustificazione, in un percorso che si rivelerà fecondo per l’ecumenismo.

E ancora Theodor Haecker, teologo e filosofo, ispiratore dei giovani della Rosa Bianca, espulso dall’insegnamento, e Reinhold Schneider, forse il maggior poeta cattolico tedesco del secolo scorso (purtroppo poco noto e poco tradotto in Italia), costretto al silenzio dopo la pubblicazione, nel 1938, di Las Casas davanti a Carlo v, un’opera nella quale lo sterminio degli indios era una chiara allusione a quello degli ebrei. Con loro Werner Bergengruen, drammaturgo e romanziere di ispirazione cristiana, autore nel 1935 di Il gran tiranno e il tribunale, che lo fece mettere al bando dall’associazione degli scrittori.

Fra le donne Gertrud von Le Fort, autrice di romanzi a forte contenuto religioso, attiva nel movimento Unam Sanctam insieme con il fondatore, Max Joseph Metzger, processato e ucciso per il suo pacifismo (per lui è aperto il processo di canonizzazione), e la poetessa Elisabeth Langgaesser, ridotta al silenzio dopo la pubblicazione nel 1935 di Le poesie dello zodiaco, pervase da una vena di intenso misticismo.

Oggi nella Bebelplatz di Berlino, dove fu acceso il rogo, sotto una lastra di vetro incastrata nel pavimento è illuminato un vano che ospita una libreria dagli scaffali vuoti, un suggestivo monumento, inaugurato nel 1998, opera dell’architetto israelita Micha Ullmann, a ricordo di quelle opere mandate in fumo. Accanto, una targa sulla quale è impressa una frase del grande poeta Heinrich Heine, tragicamente profetica: «Dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini».

Angelo Paoluzi