Testimonianza. «Vi racconto la Sla. Non mi rassegno e vivo col sorriso»

By 8 Agosto 2018Testimoni

Luigi Picheca, paralizzato, parla attraverso gli occhi. Il suo male gli ha ridato fede. E sua moglie. L’importanza di un’assistenza adeguata.

Ma che avrà sempre da sorridere? E perché dal suo letto mi fissa arguto, quasi ironico? Quando vai a conoscere una persona che è malata di Sla da 13 anni, immobile nel corpo con la sola eccezione delle palpebre, tutto ti aspetti tranne che di essere tu quello a disagio sotto lo sguardo enigmatico che sembra metterti alla prova. Ma presto ti accorgi che Luigi Picheca sereno lo è davvero e se ha gli occhi così vivi è perché sono il solo varco attraverso il quale riversa il suo ricco mondo interiore. Il silenzio della stanza è rotto solo dall’affanno cadenzato della macchina che respira per lui nella tracheotomia, eppure nulla appare triste, persino le piantane ai lati del letto grondano flebo e tubicini, ma anche sciarpe della Juve e gadget di amici tifosi. Nella cornice dorata sulla parete la foto del Papa: «Sua Santità Francesco imparte di cuore la Benedizione apostolica a Luigi Picheca in occasione del 60° compleanno…».

Qui il tempo sembra scorrere in modo diverso, forse a causa di quel tonfo ansante che ogni tot secondi spinge l’aria nei polmoni e così scandisce giorni e notte, sempre uguale da anni, come un metronomo. Ma è di nuovo Luigi a rompere il ghiaccio: «Benvenuta, collega». In realtà le sue parole le pronuncia il figlio Valerio, che le legge seguendo le sue pupille su una tavoletta in plexiglass con su scritte le lettere… «Ci esercitiamo da dieci anni», spiega il padre, che ha già notato lo stupore. «Ormai anche gli infermieri e la badante sono velocissimi a leggere il mio sguardo», aggiunge ancora, con la voce di Valerio.

Colleghi, già: perché dal 2014, in occasione dei Mondiali di calcio in Brasile, ha iniziato a scrivere per il quotidiano online Il Dialogo di Monza, sottotitolo La provocazione del bene, testata dedicata alle buone notizie, e l’Ordine dei giornalisti gli ha consegnato la tessera di pubblicista. Ma nella vita precedente Luigi Picheca, 63 anni, lavorava come chimico in un’industria, un sogno realizzato.

«Nel 2004 ho festeggiato i 50 anni senza immaginare che quello sarebbe stato l’ultimo anno di vita normale – racconta –. Mi sentivo un leone, praticavo gli sport che mi piacevano, facevo ciò che volevo e non mi rendevo conto di essere fortunato… Poi un braccio che non risponde più, la visita neurologica, i sospetti, la diagnosi: ero condannato alla Sla, malattia a me sconosciuta fino ad allora, e la mia vita prendeva una direzione spaventosa. Più che disperazione era angoscia, paura di fronte all’imprevisto e a un futuro breve e terribile», che man mano gli rubava uno per uno tutti i movimenti volontari.

Facile e comprensibilissima la rinuncia. «Se non che prima delle risposte delle cliniche svizzere è arrivata la risposta dal Cielo», ovvero un pneumologo che in pochi minuti gli ha cambiato alcuni parametri errati e Luigi ha ricominciato a respirare bene. «Questo dice quanto è importante la cura, nelle nostre condizioni. So cosa si pensa, che è meglio morire piuttosto che vivere come me, invece adesso dico che la vita non si deve scartare così facilmente, la ricchezza di emozioni che ci regala va vissuta fino all’ultimo istante». La svolta è stata l’approdo alla Rsd (Residenza sanitaria disabili) “San Pietro” di Monza dieci anni fa, «esattamente il 3 luglio 2008». È l’unica struttura in Italia del tutto dedicata ai malati di Sla e in stato vegetativo, con il personale interamente specializzato nel trattamento di questi pazienti. «Qui non ero più arrabbiato con il mondo, ho cominciato ad accettare la mia nuova esperienza di vita e ho constatato che il corpo umano è in grado di adeguarsi alle nuove condizioni, facendoci scoprire risorse inimmaginabili in noi stessi».

Una certezza che Luigi vuole mettere a disposizione di chi si trova di fronte alla sua stessa agghiacciante paura: «Già prima ero volontario nella Protezione Civile, ora per gli altri posso fare molto di più, posso indicare la speranza a chi è sul baratro e rischia di perderla». Lui ha le carte in regola per farlo, ha visto morire attorno a sé le persone che non potevano accettare di vivere attaccate a un ventilatore e nutrirsi con il tubicino della Peg direttamente nello stomaco: «È stata durissima anche per me, arrivato qui pesavo 48 chili ed ero sfinito, ma poi pensavo ai tanti bambini che nascono già malati, io in fondo per 50 anni ero stato fortunato, non potevo comportarmi da vigliacco».

Proprio da questi pensieri si è aperta un varco la fede dimenticata da anni, «oggi la mia grande forza», e la passione di scrivere, «di far conoscere il nostro mondo ricco di idee e dignità, ma troppo sconosciuto». Il peggior fraintendimento è la compassione, «io sono felice e non ho un attimo di noia, qui alla “San Pietro” sono risorto con nuova linfa, perché vivere una malattia con l’aiuto di persone competenti e positive ti fare stare bene e tu veramente puoi amare la vita. Questa oggi è casa mia».

È qui nella cappella della Rsd che è venuta a sposarsi sua figlia Federica. E in fondo è grazie alla Sla che Luigi ha anche risposato sua moglie: «Eravamo separati da 11 anni, ma la malattia ci ha fatti ritrovare. Anzi trovare per davvero». Oggi è lei la più veloce con la tavoletta trasparente e la prima a cogliere i suoi desideri. «Papà talvolta ha nostalgia dei sapori – interviene il figlio, e questa volta parla per sé – così mia madre gli diluisce qualche goccia di caffè sulla lingua, o attraverso la Peg gli dà i centrifugati fatti in casa… un po’ di aroma arriva».

In un libro di riflessioni, Orizzonti imprevisti. Scritti con SLAncio Luigi va anche oltre: «Oggi mi sento più appagato di quando ero sano, e sono anche migliore, perché adesso so capire quanto valgono le persone che si muovono intorno a me e mi donano un amore che pochi sanno apprezzare pienamente».

Alla fine ci affida un appello ai “sani”, «di pensare più alla loro vita e non correre dietro alle banalità. La nostra società rincorre i falsi miti della ricchezza, della efficienza, della bellezza, e non ha più tempo per interessarsi a chi è “emarginato”, lo leggo negli occhi di molti che, quando guardano uno di noi, guardano la carrozzina e le nostre infermità, non le persone che si celano in noi…». Anche se, ci scrive in una email il giorno dopo, «del resto purtroppo ero così anch’io prima di vivere questa tragica esperienza… Che però ha il pregio di farci conoscere il bello che c’è in noi».

Lucia Bellaspiga

Avvenire.it, 21 luglio 2018