Sociologia. Lo straniero? È l’altra parte di noi stessi

Fin dai primi del ’900 grazie, a Georg Simmel, il pensiero sociologico europeo si è chiesto quanto si possa integrare chi viene da fuori, tra organicità, atto volontaristico, empatia.

Della parola straniero, migrante, emigrato, immigrato, rifugiato, profugo e quant’altro le tribune dell’informazione e non solo oggi straripano. Proprio per questo occorre fare chiarezza e cominciare a riflettere per sottrarsi alla passionalità imposta dalle tragedie dell’oggi. Ecco perché la parola straniero merita attenzione. E di rado la necessità di capire è stata urgente come oggi per evitare di essere soffocati dall’immediatezza del presente. Per dare maggiore profondità al significato di straniero vale la pena attingere al ricco patrimonio della riflessione sociologica delle origini.

Infatti il tema dell’estraneo non è un tema solo dei nostri giorni. Ai primi decenni del Novecento la società subisce così tante sollecitazioni a seguito di rivoluzioni industriali, globalizzazione dei mercati e politicizzazione delle masse da indurre numerosi studiosi a consolidare le basi di una nuova disciplina per poterle studiare, la sociologia. Le trasformazioni indotte dalla inedita organizzazione dei commerci generano fenomeni migratori e portano all’attenzione dei padri della sociologia una nuova figura, lo straniero. Sarà un protagonista anche marginale per lo spazio che occupa nelle riflessioni dei sociologi ma non è marginale per l’importanza che ricopre nell’architettura dei loro pensieri.

Se nel 1921, quando le frontiere statunitensi chiudono all’immigrazione proveniente dall’Europa, il sociologo William Thomas offre il primo lavoro monografico sull’argomento, analizzando l’insediamento degli immigrati nella società americana, siamo solo all’inizio. Una manciata di anni dopo continua la ricerca a fianco di Florian Znaniecki studiando i contadini polacchi emigrati. Non si tratta però di casi isolati. Werner Sombart, Alfred Schütz, Norbert Elias, Robert Park, Robert Merton, prima e dopo di loro, non mancano di annotare le loro considerazioni sul tema anche se davvero pionieristico è il lavoro di uno dei padri fondatori della sociologia.

Nel 1908 Georg Simmel include l’Excursus sullo straniero nella sua immensa Sociologia da poco ripubblicata da Meltemi (pagine 920, euro 40,00). Per lo studioso tedesco ogni relazione è un’interazione che assume una forma particolare in virtù del rapporto che intrattiene con il senso di vicinanza e lontananza. Pertanto «la distanza nel rapporto – scrive – significa che il soggetto vicino è lontano, mentre l’essere straniero significa che il soggetto lontano è vicino». La questione diventa più cogente quanto «gli uomini si muovano da luogo a luogo», ammonisce Simmel, e questa tendenza diventa tanto più evidente nella società moderna.

Lo straniero per Simmel non è un estraneo, un corpo separato. «È un elemento del gruppo stesso – continua il fondatore della sociologia –, non diversamente dai poveri e dai molteplici “nemici interni”, un elemento la cui posizione immanente e di membro implica contemporaneamente un essere al di fuori e di fronte». Lo straniero si trova così in una situazione difficilmente collocabile. Egli «è abbastanza mobile per non fare completamente parte della comunità e abbastanza stabile perché quest’ultima si ponga il problema di definirne la posizione».

Ecco allora che lo straniero malgrado «la sua organizzazione inorganica – conclude Simmel l’Excursus – è un membro organico del gruppo, la cui vita unitaria implica il condizionamento particolare di questo elemento, soltanto che noi non sappiamo designare la caratteristica unità di questa posizione». In parole semplici, per Simmel lo straniero costringe la società a reinventarsi incessantemente ponendosi continuamente il problema della propria forma.

Diversa invece ma complementare è la questione per Roberto Michels che concepisce l’idea di comunità in termini volontaristici. Michels, tedesco naturalizzato italiano, insieme a Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto è considerato uno dei fondatori della scienza della politica. Noto per aver definito “la legge ferrea dell’oligarchia” che regola l’organizzazione dei partiti politici, Michels è però dimenticato per altri campi di studio. Da buon allievo di Max Weber si è occupato di economia, storia delle idee e, nei suoi Prolegomena sul patriottismo del 1933, di Sociologia dello straniero, che ora Aragno pubblica in maniera autonoma (pagine 136, euro 15,00).

Seppur cedendo a alcune mode dell’epoca, il sociologo italo-tedesco traccia una ampia fenomenologia dello straniero mettendo in luce come le dinamiche di accoglienza e di rifiuto a cui è sottoposto dipendano sia da lui sia dal tipo di società di arrivo. Michels non esita a riconoscere come «lo straniero sia il rappresentante dell’ignoto, e l’ignoto significa assenza di associazione. Indi suscita una specie d’ansia che può andare fino all’antipatia» ma quando «l’ambiente stesso non lo sente più come forestiero» diventa possibile l’inclusione nella nuova realtà.

La chiave di questo avvicinamento per Michels è l’Einfühlung che noi traduciamo con empatia, «l’addentrarsi imitativamente nell’elemento straniero» e diventa possibile purché scattino reciproci movimenti di comprensione dettati dalla volontà. Michels non è ingenuo. Sa bene che non è facile ma sa anche che i nuovi arrivati possono esse cittadini ottimi, «forse superiori alla media degli stessi connazionali, i quali per appartenere alla medesima comunità nazionale non hanno avuto altro merito che quello di nascervi».

Lo studioso tedesco lo vedeva “organico” al gruppo che lo accoglie, ma un altro italo-tedesco, Michels, sosteneva che l’estraneo può essere un ottimo cittadino, anche meglio dei nativi, però dipende dalla sua voglia di inserirsi Georg Simmel Roberto Michels.

Simone Paliaga

Avvenire.it,  22 luglio 2018