Il dramma dell’aborto vissuto da una femminista: «Ho ucciso il mio bambino»

«Mi stavo laureando in studi di genere all’università di Monash in Australia, all’epoca. Pensavo di sapere tutto sull’aborto. Uno dei miei migliori amici aveva fatto il servizio civile in un centro abortista. Avevo lavorato come consulente telefonico in una linea per donne in difficoltà. Molti dei miei amici avevano già fatto ricorso all’interruzione di gravidanza. L’ho considerato quasi come un rito di passaggio. […] Ma mentre stavo scivolando nel torpore dell’anestesia, improvvisamente, per la prima volta da quando ho saputo di essere incinta, la mia mente ha avuto una chiara intuizione. Ho pensato, “Sto uccidendo il mio bambino”». Sono le incredibili, cristalline parole con cui una femminista convinta, certa di essere a favore dell’aborto e della “libertà di scelta”, ha descritto la sua personale esperienza riguardo l’interruzione di gravidanza che si è evidentemente rivelata uno scontro dall’impatto terribile tra le proprie convinzioni, il proprio mondo delle idee e l’esperienza vissuta, reale, dolorosa, cruenta, indelebile.

Nel suo accorato racconto, affidato alle colonne del webmagazine Lifenewsracconta di non essere più riuscita a tornare alla vita di sempre dopo l’esperienza dell’aborto, di aver sviluppato delle vere e proprie fobie: «Avevo paura dell’altezza. Non potevo salire sulle montagne. Non potevo guidare con un passeggero in macchina accanto. Ero molto spaventata dai momenti di aggregazione sociale. Ho trascorso il compleanno di un amico chiusa a chiave nel bagno del ristorante. Mi sono tenuta fuori da tutto e tutti. Ho rinunciato al mio lavoro e al mio studio. Ho smesso di rispondere al telefono. Ho smesso persino di alzarmi dal letto».

Ma soprattutto ha lamentato di aver ricevuto un’informazione solamente parziale sull’aborto che le era stato presentato in modo asettico, insistendo sul suo diritto di scelta essendo “un diritto conquistato a fatica” dai suoi predecessori e soprattutto insistendo sul fatto che quello di cui si sarebbe liberata era semplicemente un feto. Dopo cinque anni, racconta come ancora la tormenti il pensiero del bambino che non ha più. E si rivolge a tutte le donne perché non vengano a loro volta ingannate, con questo appello: «L’informazione e il linguaggio “imparziale”, presumibilmente femminista, non mi hanno fatta sentire più forte. Hanno piuttosto negato la verità della mia esperienza e hanno solamente liberato la società dall’inconveniente di un’altra madre single. Non posso dire alle altre donne se dovrebbero o meno tenere i loro bambini, ma le incoraggio fortemente a conoscere la realtà dell’aborto se stanno pensando di farlo. Vorrei averne saputo di più, prima che fosse stato troppo tardi. Io non sono una cristiana ma so per certo che quello che è stato ucciso è il mio bambino».

Manuela Antonacci

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