EDITORIALE – Sofferenza: un evento che prima o poi si presenterà alla nostra esistenza.

By 8 Febbraio 2019Attualità

Lunedì 11 febbraio, la Chiesa Cattolica celebrerà la “XXVII Giornata Mondiale del Malato”; per questo voglio offrire alla vostra attenzione alcune riflessioni sulla sofferenza, sul dolore e sulla malattia.

 Il difficile tema della sofferenza

Un proverbio arabo afferma: “Non c’è nulla di più scontato dell’aria ma guai a non respirarla”. Lo stesso possiamo asserire per la sofferenza essendo un evento che senz’altro, prima o poi, si presenterà nella nostra esistenza. Pur comprendendo il timore che questo tema suscita e le ragioni psicologiche che ci inducono ad allontanarlo dalla quotidianità, isolandolo in angoli remoti, ritengo come affermava lo psichiatra viennese V. Frank che “vivere è sofferenza, sopravvivere è trovare il valore a queste sofferenze; cioè il senso della vita deve anche comprendere la sofferenza e la morte” (Un significato per l’esistenza. Psicoterapia e umanismo, Città Nuova, pg. 89). Dunque, chi anela a vivere pienamente e totalmente la propria esistenza, non può sfuggire alla riflessione su questo limite.

Inoltre, la storia, avanza attraversata dalla sofferenza che non tende a spegnersi, anzi è in continuo ampliamento come possiamo verificare tutti i giorni. Quindi, il dolore, è inseparabile dalla vita e partecipa al mistero stesso dell’uomo. Pertanto “eliminarlo completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità semplicemente perché nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male, della colpa che – lo vediamo – è continuamente fonte di tribolazioni” (Benedetto XVI, Spe salvi, n. 36).

Per di più, a volte, siamo di fronte a “croci senza crocefissi”, cioè sofferenze fisiche, psicologiche e sociali apparentemente prive di significato, procurate accidentalmente dalle circostanze della vita, o dalla pessima gestione di eventi personali, o anche determinate da particolari normative. A complicare l’argomento s’inserisce la “sofferenza innocente”, quella della domanda rivolta a Dio da Ivan, un personaggio di F. Dostoewskij: “Se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l’armonia eterna, che c’entrano i bambini? Rispondimi, per favore. E’ del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocchi pure a loro comprare l’armonia con la sofferenza” (F. Dostoewskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, pg. 338).

Infine, la sofferenza, smentisce il disegno della creazione nel quale “tutto era molto buono” (Gen. 2,31), e nel pensiero originale di Dio non erano previsti il dolore e il male, ma la vita dell’uomo si sarebbe sviluppata seguendo un progetto eccellente nella libertà e nell’equilibrio dei valori e delle forze, e l’umanità sarebbe vissuta attendendo di essere trasfusa nella visione beatificata.

Anche se tanti con la loro sofferenza, hanno ritrovato “l’autenticità dell’esistenza”, questa è una roccia contro la quale è facile “sfracellarsi”, anche nei confronti dell’Assoluto, poiché il dolore depone sempre contro Dio e la fiducia che dovremmo a Lui. Ad esempio, lo scrittore tedesco G. Buchner nel testo “La morte di Danton” (1835) si chiedeva: “Perché soffro?”. E concludeva: “Questa è la roccia dell’ateismo” (La mort de Danton, Léonce et Lena, Woyzeck, Lenz, pg. 13).

 La risposta cristiana

Tra i molti punti di riferimento di fronte al dramma del dolore umano, esaminiamo quello presentato dal cristianesimo, essendo stato un fascio di luce per i drammi di milioni di uomini nel corso di duemila anni di storia.

Ognuno di fronte alle sofferenze cerca delle risposte. Il credente spesso ritiene Dio erroneamente il responsabile della sua sofferenza: “Perché Dio mi ha punito?”. L’ateo sfrutta la sofferenza come prova per dimostrare la non esistenza di un Assoluto. Altri riducono la sofferenza a puro fenomeno clinico o di ordine tecnico che investe unicamente il corpo.

A mio parere, le radici della disperazione di molti, le possiamo identificare, prevalentemente nell’immagine errata di Dio, difforme da quella presentata dalla Rivelazione e nello scorretto rapporto tra dolore e punizione divina, sofferenza e colpa. L’errata interpretazione della sofferenza come azione di Dio per i peccati personali o sociali è chiaramente affermata dal Signore Gesù commentando l’episodio dell’improvviso crollo della torre di Siloe in costruzione lungo le mura di Gerusalemme che provocò la morte sotto le macerie di diciotto operai (cfr. Lc. 13,2-4). Lo stesso concetto lo ritroviamo anche nell’episodio della guarigione del cieco nato (cfr. Gv. 9, 1-41). Ma, se Dio fosse il “regista della sofferenza” rinnegherebbe la sua identità di Padre buono e misericordioso e, quindi, non meriterebbe la nostra adorazione e fiducia.

Da questi episodi possiamo dedurre che tanti si sono costruiti un’immagine di Dio secondo i propri desideri: un Dio che guarisca, che esaudisca, che premi il bene, il giusto e il vero.

Con certe storture, anche inconsciamente, abbiamo “sfruttato Dio” ritenendolo uno strumento nelle nostre mani, necessitandoci un Assoluto che risolva i nostri problemi.  Invece, non è così, nella dottrina cristiana: Dio è onnipotente, ma nella misericordia e nel perdono; la grandezza dell’ Padre celeste sta nell’umiltà e non nella potenza, poichè la sua autentica forza è l’amore. Unicamente in questa visione dell’Assoluto, il dolore acquista un significato. Dunque, nel cristianesimo, Dio è l’onnipotente nell’amore e nell’umiltà, non colui che esaudisce e che risponde a tutte le nostre richieste. E’ dalla parte di chi soffre ed invita ciascuno a comprendere, condividere e vivere il dolore umano.

Perciò, il Signore Gesù è riconosciuto nella storia come un grande guaritore, ed è venerato con il titolo di “medico”, non solo delle anime ma anche dei corpi.

Come affrontare la sofferenza?

Un importante riferimento è la Lettera Apostolica “Salvici doloris” di san Giovanni Paolo II dell’11 febbraio 1984 sul senso cristiano della sofferenza.

E’ il primo documento di un Pontefice che affronta in modo organico il problema del dolore umano partendo dal libro di Giobbe di cui riassumiamo brevemente la storia.

Giobbe, uomo giusto che viveva nella prosperità, improvvisamente è ferito nel corpo, negli affetti e nei beni materiali. Non trovando il senso di quello che gli sta accadendo pone un interrogativo: “Perché”, “Che male ho fatto perché Dio mi punisca?” (cfr. Gb. 3). Tre “pseudo” amici lo accostano e cercano di convincerlo della gravità delle sue colpe, perché, secondo loro, la sofferenza colpisce sempre l’uomo come pena per peccati e trasgressioni. E’, sempre secondo loro, la sofferenza è voluta da Dio, che è assolutamente giusto, per conservare un ordine di giustizia nel cosmo (cfr. Gb. 22). Da una parte Giobbe si ritiene vittima senza colpa di un ingiusto dolore; dall’altra, da credente, continua a sperare nell’amore di Dio (cfr. Gb. 42,2-4). E questa fiducia alla fine gli dà ragione (cfr. Gb. 42,12-16). Il Libro di Giobbe mostra che un individuo può soffrire, e soffrire molto, senza che debba essere ritenuto in qualche modo colpevole e da Dio punito.

Tornando alla “Salvifici doloris”, san Giovanni Paolo II, non fornisce delle risposte ai “perché”, ma evidenzia dei significati:

-la sofferenza, particolarmente la malattia, come momento di riflessione e di riscoperta degli autentici valori della vita;

-l’importanza che il sofferente può assumere per la società e per il mondo;

-l’aspetto religioso e spirituale come aiuto e supporto nel trovare un significato alla propria vita anche nel momento della sofferenza, superando il sempre presente senso di inutilità.

Ho tentato di offrire qualche spunto di riflessione memore dell’ammonimento di Carlo Bo: “non c’è una letteratura della sofferenza, ci sono solo dei gridi”. E i gridi non si spiegano ma solo si ascoltano.

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