L’importante è restare umani

By 16 Aprile 2019Attualità

Giunge un invito ricorrente da parte di una certa pubblicistica. È l’esortazione a diventare duri, infrangibili, a trasformarsi in belve. Non di rado questa esaltazione della durezza si presenta come cifra di un supercattolicesimo hard, intransigente e bellicoso, geneticamente di destra, che non fa sconti a nessuno. Tanto è vero che non esita a innalzarsi a maestro di ortodossia per impartire lezioni pure ai pastori della Chiesa.

Nell’epoca del leghismo trionfante s’avanza una sorta di celodurismo cattolico (anzi kattoliko, con la kappa a sottolinearne l’indole antagonista) che con la scusa di voler promuovere una mentalità politicamente scorretta arriva a sdoganare il grado zero dell’empatia. Come se fossero virtù cristiane la mancanza di compassione, l’assenza di solidarietà, l’egoismo, la chiusura, la rigidità.

C’è da chiederselo seriamente: è davvero evangelica tutta questa ostentazione della durezza? Per quel che vale il mio pensiero, ne dubito fortemente. La durezza di cuore non è una virtù cristiana. È aliena allo spirito evangelico. Proviene da altri universi morali.

Niente lo mostra di più di un altro elemento problematico (o, per meglio dire, sintomatico) del neointransigentismo cattolico: la sua torva ostilità verso la misericordia, liquidata immancabilmente come imbelle “buonismo”. Qui cadiamo in un curioso paradosso. Il celodurismo kattoliko non perde occasione per vantare il proprio carattere antimoderno. Ma il suo malcelato fastidio per la misericordia rivela sorprendentemente il contrario, perché non c’è ideologia novecentesca – dunque moderna – che non abbia disprezzato la misericordia e esaltato la durezza.

Chi più del comunismo fece dell’odio una virtù? La «vittoria sarà preceduta», scriveva la Pravda nel 1934, «da un odio di classe universale nei confronti del capitale. Ecco perché l’amore cristiano, indirizzandolo a tutti, anche al nemico, è il peggiore avversario del comunismo».

Nell’ottica comunista non ci si poteva permettere il lusso della misericordia. Si rischiava di diminuire l’efficienza combattiva del proletariato. Anche Che Guevara era in piena coerenza con questa mistica della spietatezza quando annunciava «l’odio come fattore di lotta, l’odio intransigente per il nemico, che spinge l’essere umano oltre i limiti naturali e lo trasforma in un’efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere».

Ma i comunisti non furono certo i soli impegnati a nobilitare la più inumana durezza.

Il fascismo, dal canto suo, ricorse al termine “pietismo” per beffarsi di coloro che manifestavano sentimenti “filosemiti”, cioè di solidarietà con gli ebrei. Un tempo con pietismo si indicava soltanto quella corrente mistica nata in ambito protestante tra il XVII e il XVIII secolo che predicava il primato della vita interiore su ogni altra manifestazione della pietà religiosa. Ma già nella seconda metà dell’Ottocento “pietismo” cominciò a diventare sinonimo di pietà artificiosa, insincera.

Nell’autunno del 1938 il fascismo di riappropriò di questo termine associandolo, come epiteto infamante, a “ebreo onorario”. La propaganda fascista si prefiggeva di bollare in senso spregiativo coloro che manifestavano sentimenti “filosemiti”, cioè di solidarietà con gli ebrei.

Come rammenta Renzo De Felice nella sua “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo”, la gran parte dell’opinione pubblica non aveva accolto con favore la politica antisemita del fascismo (diventata ufficiale dopo le leggi razziali approvate quello stesso anno). Per ovviare a tanta sordità agli appelli del regime il PNF e la stampa avviarono allora una violentissima campagna contro “pietisti” e “ebrei onorari”, ossia contro coloro che non appoggiavano l’antisemitismo di stato e commiseravano e aiutavano gli ebrei.

Sulla stessa falsariga, il fascismo predicò anche il virilismo, una specie di esasperazione ideologica della mascolinità. La mascolinità caricaturale del virilismo era un mito politico, un ideale utile al regime che se ne servì per discilplinare la masse rafforzando i princìpi geneticamente connaturati al virilismo (il rispetto delle gerarchie sociali, dell’ordine e dell’autorità, l’unità della nazione, l’imperialismo aggressivo).

Gli echi di quella vecchia polemica sembrano risuonare oggi nella ossessiva campagna condotta da destra contro il termine “buonismo”. Altri sono i capri espiatori (immigrati, zingari, senzatetto) ma il senso rimane il medesimo: esaltare la durezza di cuore, la mancanza di compassione e solidarietà, celebrare l’egoismo e la chiusura. Imbruttirsi, diventare duri, infrangibili, autosufficienti; sono queste le nuove parole d’ordine.

Le ideologie del Novecento aspiravano a superare l’individualismo borghese attraverso la creazione di una sorta di “uomo collettivo” – la razza, la nazione, la classe, la società comunista – considerato come la sola entità meritevole di diritti. La persona umana non poteva che abdicare a profitto del nuovo idolo societario, rassegnandosi a essere trasformata in un mero ingranaggio della grande macchina sociale.

Questa gigantesca opera di fusione non sarebbe potuta avvenire se non spezzando i legami col mondo esterno, invariabilmente presentato dalla propaganda come una realtà popolata da nemici esistenziali. La durezza di cuore non era altro che la manifestazione più eclatante dell’egoismo collettivo. Un colossale narcisismo di gruppo. Da qui l’imperativo di bastare a se stessi, il menefreghismo come regola di vita, l’autarchia come forma mentis.

Nessuno spazio doveva dunque rimanere per la carità e la misericordia, che avevano il deprecabile torto di voler unire l’uomo a Dio e ai suoi fratelli in umanità. Cosa insopportabile per gli idoli del tempo.

Anche Nietzsche, ben prima del fascismo, è stato uno dei grandi spregiatori della misericordia. Nel suo capolavoro “Così parlò Zarathistra” predica una sorta di antivangelo della durezza: «Sia lodato ciò che rende duri». La «tenera mitezza deve diventare la durezza più dura», scrive.

La misericordia è una disgrazia per la stessa divinità: «Dio è morto: la sua compassione per gli uomini fu la sua morte». Con la morte di Dio c’è spazio per l’ascesa del suo superuomo (Übermensch) e la sua volontà di potenza. In antitesi al discorso della montagna Nietzsche arriva a dire: «In verità non amo i compassionevoli». «Tutti i creatori sono duri».

In lui troviamo dunque la durezza di Dioniso opposta alla mitezza del Cristo crocifisso.

Com’è noto, Nietzsche contrappone il pensiero razionale, da lui denominato apollineo, al sentimento dionisiaco: l’ebbrezza creativa, vitalistica, che travolge ogni forma. Nella concezione dionisiaca della vita non c’è posto per la misericordia. La compassione, da questo punto di vista, non fa altro che moltiplicare la sofferenza. Pertanto la misericordia per Nietzsche è soltanto una raffinata, subdola forma di autocompiaciuto egoismo, da guardare con sospetto.

Il misericordioso che fa bella mostra di altruismo non aspira se non a esibire ai poveri – con aria condiscendente – la propria superiorità morale. Esiste una «soccorevolezza pericolosa» leggiamo in “Umano troppo umano”. «Ci sono persone che vogliono rendere pesante la vita agli uomini, per nessun altro motivo se non quello di offrir loro in seguito le proprie ricette per l’alleviamento della vita, per esempio il proprio cristianesimo». O ancora: «Il Cristianesimo sorse per alleviare il cuore; ma adesso deve prima opprimerlo, per poterlo poi alleviare».

Certo sarebbe sbrigativo – anzi francamente ingiusto – addossare alle parole di Nietzsche le responsabilità di quanto accaduto in Germania nei dodici anni del regime nazionalsocialista. Non è tanto questo il punto quanto l’aria che si respirava nelle scuole delle élites naziste dove imperavano il tripudio della spietatezza, la morale della razza padrona, il culto della ferocia.

Era il clima di un’epoca segnata dal mito della durezza redentrice. Uno stato d’animo (état d’esprit, dicono i francesi) che rimandava inevitabilmente a Dioniso.

Dioniso è quello che potremmo chiamare un archetipo, simbolo e modello di un mondo in cui la natura umana e quella non umana sono ancora mescolate. È una vita in cui il “logos” (da cui la parola e l’intelligenza tipiche della specie umana) ancora zoppica. Sì, perché il cosmo dionisiaco non celebra il “logos” ma “zoé”: la “nuda vita”, la vita come semplice fenomeno naturale che accomuna uomini, bestie, insetti.

È in questo senso che i sofisti dell’Antichità invitavano gli uomini a imitare il corso della natura rendendosi simili alle fiere. Ma si tratta di un’accezione di natura completamente diversa da quella familiare a una coscienza cristiana. Agire secondo natura per sofisti come Callicle significava affermare la brutale necessità della forza, così simile allo scatenarsi dei fenomeni naturali, senza curarsi di tutto ciò che conosciamo come espressione della dignità umana.

In altri termini, il mito dionisiaco circoscrive un campo dominato dalla necessita naturale, e che nulla ha a che vedere con quella che chiamiamo moralità.

Dove regna la forza dei fatti (il factum brutum) non si può nemmeno parlare di morale. Si agisce in maniera strumentale usando gli altri come mezzi per i propri fini. Ovunque si impone il diritto meccanico del più forte. Ritornano a esercitarsi nel mondo forze ferine: crudeltà, violenza, aggressività, ferocia, istinti predatori. L’uomo retrocede a belva. Ecco a quali abissi conduce l’esaltazione della durezza.

La cultura greca prima, quella occidentale e cristiana poi, rappresentano il tentativo di affrontare e arginare questa idea di natura matrigna e crudele, di circoscrivere e umanizzarne il potere maligno.

Per questo la morale non è un ozioso passatempo accademico ma la condizione vitale per la nascita del concetto di persona. Lo ha intuito con acume il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre, per il quale «la differenza tra una relazione umana non ispirata alla morale e una ispirata ad essa coincide esattamente con la differenza fra una relazione in cui ciascuno tratta gli altri in primo luogo come mezzi per i propri fini, e una in cui ciascuno tratta gli altri come fini in se stessi».

In conclusione, l’errore del celodurismo cattolico consiste nella confusione tra naturale e selvatico. Quando la Chiesa parla di “legge naturale” si riferisce a ciò che è proprio della natura umana. Indica la dignità umana. Non invita a inselvatichirsi o a bestializzarsi.

Tutto al contrario.

Come scrive il grande Fabrice Hadjadj, «la grazia è sia elevans, perché eleva la natura umana fino a renderla partecipe della natura divina, sia sanans, perché guarisce la natura umana stessa, ferita dopo la caduta, rendendo l’uomo ancora più umano».

L’uomo non è semplicemente un essere di lotta e di istinto che combatte per la propria sopravvivenza. È anche questo naturalmente, ma non solo. L’essere umano aggiunge infatti a queste dimensioni l’affettività (dunque il calore umano, la tenerezza) e la sua natura di essere autocosciente, capace di fare scelte libere e consapevoli, in grado di entrare in relazione con altri soggetti. È sì istinto e aggressività, ma è anche affetto e intersoggettività. In sintesi, è persona in relazione con altri fratelli in umanità.

C’è una sola crudeltà concessa al cristiano, ci dice sempre Hadjadj. È la crudeltà solo apparente con cui, agli occhi del mondo, si presenta la carità. Oggi infatti, nel tempo in cui si legittima l’assassinio in nome del moralismo compassionevole, la vera carità appare sotto un aspetto di crudeltà. Nell’era del transumano la tecnologia ci promette la liberazione dalla nostra fragile carne (fragilis da frangere, rompere). Il dolore, ci viene detto, deriva dal nostro ostinato e irrazionale attaccamento a un corpo deperibile.

La carne non è abbastanza dura. Ma si può ovviare alla sua fragilità con dure leghe metalliche, come vagheggiano coloro che aspirano a trasformarsi in cyborg, in ibridi uomo-macchina.

Alcuni transumanisti sognano così di congelare i bambini handicappati nella speranza di poterli “riparare” in futuro. Sospesi nel limbo, in attesa della provvidenza tecnoscientifica, al limite si potrà applicare loro la tecnologia del mind-uploading (l’elemento centrale per i transumanisti è il cervello, la sede della mente, l’organo della razionalità). Si tratta di copiare la mente su un substrato non biologico (anche su una chiavetta usb, perché no?) per poi scaricarla in un corpo artificiale.

Altri invece, più pragmaticamente, suggeriscono di disporre la morte immediata dei disabili per non prolungare l’inutile sofferenza di una vita indegna di essere vissuta.

Per i transumanisti l’uomo è una macchina raziocinante che vale solo nella misura in cui si mantiene come un sistema efficiente e funzionante. Se la macchina umana si rompe diventa un meccanismo inutile a sé e agli altri. E se la tecnologia non è in grado di riparare la macchina, allora tanto vale rottamarla.

Per il transumanismo tutto si riduce a un problema che può avere una soluzione tecnica. Anche la condizione umana, anche la morte. Ma in definitiva per i transumanisti, come per gli gnostici, il problema è quel trabiccolo obsoleto che è la persona umana col suo impasto di spirito e materia.

La carità cristiana appare crudele, davanti a questa religione che promette una salvezza per via tecnologica, quando ricorda che nessuna vita è inutile, anche quella menomata del bambino handicappato che è persona infinitamente preziosa, amata da Dio e dunque amabile. I difensori della fragilità sembrano così gli amici della morte e della sofferenza. Ecco perché li si accusa di crudeltà.

È importante essere consapevoli che in simili circostanze i cristiani possono esercitare la carità solo a patto di restare umani. Non devono cadere nell’errore di irrigidirsi, perché così facendo emulerebbero gli avversari finendo per giocare sul loro stesso terreno.

È forse questo il motivo per cui papa Bergoglio, incompreso dai più, esorta a diffidare di una certa rigidità che è anche durezza di cuore?

La durezza di cuore infatti è l’elemento che accomuna il bestialismo e il transumanismo sotto lo stesso segno di Dioniso. Se il bestialismo vuole riportarci al di qua della nostra biologia, facendoci regredire al sub-umano, il transumanismo vuole trasportarci al di là della nostra biologia, facendoci progredire verso il post-umano. Se il bestialismo divinizza la pancia, il transumanismo divinizza la mente. Il bestialismo preme per l’uomo viscerale, il transumanismo parteggia per l’uomo cerebrale.

Ma al di sotto di queste opposizioni di superficie, in profondità concorrono entrambi per l’abolizione della persona umana, nella quale, come faceva osservare C.S. Lewis, la testa governa le viscere per mezzo del petto.

Petto, cioè magnanimità, sentimento. In una parola, il cuore.

Il cuore è l’indispensabile ufficiale di collegamento tra la pancia e il cervello. «Si può anche dire», scrive Lewis in “The Abolition of Man”, «che è grazie a tale elemento intermedio che l’uomo è uomo: poiché per il suo intelletto è puro spirito e per i suoi appetiti puro animale».

Macchina o belva, cervello o pancia che sia, senza il cuore è l’odio e non l’amore a muovere il mondo dell’uomo. Non si combattono i robot trasformandosi in belve, ma restando umani.

Emiliano Fumaneri

27 marzo 2019

http://www.lacrocequotidiano.it/articolo/2019/03/27/societa/limportante-e-restare-umani