Cara Lalli, la verità, la prego, sull’aborto

I giorni scorsi mi sono imbattuta nell’articolo “Ho abortito e sto bene. Perché all’aborto si associano sempre sofferenza e colpa?”, di Chiara Lalli, filosofa, giornalista, saggista e docente di Bioetica e Storia della medicina all’Università La Sapienza di Roma, nonché autrice del libro “A. La verità, vi prego, sull’aborto”. Ho voluto rispondere agli argomenti espressi nell’articolo di Lalli perché rappresentano un tipico esempio di retorica pro-aborto disseminata di luoghi comuni, linguaggio scorretto e falsità.

Nell’articolo, uscito il 22 maggio 2018, in occasione dei quarant’anni della legge 194 sull’aborto, Lalli manifesta tutta la sua disapprovazione per il fatto che l’aborto debba essere considerato “una scelta sempre sofferta e dolorosa”, presentato come un evento sempre “doloroso e una condanna per tutte le donne”. “Non si può parlare di aborto se non con toni tetri e pentiti – ribadisce Lalli -, è comunque sempre un trauma, una ferita insanabile”. “I più temerari – continua Lalli – si spingono a sostenere la pericolosità fisica: sterilità, tumori e altri disastri. Dimenticando che è più pericoloso partorire che abortire… E non si può calcare sul rischio solo quando fa comodo, perché pensiamo sia uno strumento da usare: ‘x è pericoloso e allora deve essere immorale e illegale’, quando abbiamo già deciso che x è il male”.

Rimpianto e dolore non devono esserci per forza dopo un aborto, osserva Lalli, e infatti lei sostiene di non averli mai provati né prima né adesso: “Io ho abortito perché non volevo un figlio e sto bene, sono sempre stata bene e non ho mai rimpianto la mia scelta. Anzi” – rivela la filosofa –, “se dovessi scegliere una sola parola per descrivere il mio aborto, direi: sollievo”. Quindi riafferma: “Ho abortito e sto bene. Non solo in quel momento, ma tutte le volte che mi è capitato di ripensarci”. Riprendo e commento i concetti espressi da Lalli.

“I più temerari si spingono a sostenere la pericolosità fisica: sterilità, tumori e altri disastri”

Nella sua “apologia” dell’aborto, Lalli scrive che “i più temerari si spingono a sostenere la pericolosità fisica: sterilità, tumori e altri disastri”, ma basterebbe consultare la vastissima letteratura scientifica in merito, per accorgersi che le complicazioni fisiche dell’aborto indotto non sono argomenti campati in aria, ma una realtà; come ho documentato nel libretto “Per la salute delle donne” prodotto dall’associazione ProVita onlus, in cui ho riepilogato le complicazioni correlate all’aborto indotto, indicando per ciascuna di esse i dati rilevati in letteratura.

La letteratura scientifica evidenzia che all’aborto indotto sono associate sia complicazioni fisiche immediate (che si verificano in prossimità dell’intervento abortivo) come emorragie, infezioni, danno cervicale, perforazione e cicatrizzazione della parete uterina, danni agli organi interni, aborto mancato o incompleto, problemi legati all’anestesia, ecc.; sia complicazioni fisiche a lungo termine, come sterilità, infertilità, cancro al seno; sia complicazioni fisiche in successive gravidanze, come aborti spontanei ripetuti, parto prematuro, placenta previa, ecc. A queste si devono aggiungere le complicazioni di natura psichica (anch’esse riepilogate nel libretto di ProVita congiuntamente ai dati della letteratura scientifica) che includono: sofferenza emotiva, ansia, depressione, disturbo post-traumatico da stress, abuso di sostanze e comportamenti autolesionistici, problemi di salute mentale in successive gravidanze, ecc.

Lalli sembra non negare completamente l’esistenza di quest’ultimo gruppo di complicazioni, ma ne contesta in particolare l’assolutizzazione. Dice in sostanza (e giustamente) la filosofa: non tutte le donne hanno problemi psichici dopo l’aborto, vi sono anche donne, e io ne sono un chiaro esempio, che si sentono sollevate e stanno bene. Tuttavia, suggerire – come Lalli fa – che chi parla di complicazioni fisiche dell’aborto sia un temerario, vale a dire una persona che emette giudizi imprudenti e non fondati su validi motivi, è scorretto. Se è sbagliato ritenere – come osserva Lalli – che l’aborto sia un atto sempre traumatico per la donna (e infatti vi sono donne, come Lalli, che dopo l’aborto non hanno rimpianti e stanno bene), così è sbagliato ritenere che, poiché non si sono riportate complicazioni o poiché si ignora la letteratura in materia, la pericolosità fisica dell’aborto sia una cosa infondata.

“‘Se x è pericoloso, allora deve essere immorale e illegale’ quando abbiamo già deciso che x è il male”

Non si può calcare sul rischio solo quando fa comodo” – scrive Lalli – “perché pensiamo sia uno strumento da usare: ‘x è pericoloso e allora deve essere immorale e illegale’, quando abbiamo già deciso che x è il male”. Cosa fanno in sostanza i Prolife, secondo Lalli? Insistono sui rischi psicofisici provocati dall’aborto con l’intento di farlo apparire come una pratica immorale, motivo per cui andrebbe proibita, in realtà hanno già deciso in partenza che l’aborto è il male.

Che l’aborto sia un male in partenza – cara Lalli – non è una decisione dei prolife, ma un fatto oggettivo. E informare sui rischi psicofisici dell’aborto indotto non è una strategia per rendere l’aborto illegale, ma un’azione giusta e doverosa nei confronti della donna. Se il consenso deve essere informato, è giusto che la donna sia informata sulle complicazioni fisiche e psichiche a cui può andare incontro se si sottopone all’aborto indotto: è un suo sacrosanto diritto conoscere come stanno effettivamente le cose. E non metterla al corrente di tutti i possibili rischi è una grave negligenza. Tuttavia, non sono queste complicazioni a rendere immorale l’aborto e, quindi, a giustificarne il divieto, perché se anche tutte le donne avessero sentimenti positivi nei confronti dei propri aborti, e non ce ne fosse nemmeno una che dopo sta male, l’aborto sarebbe comunque una pratica immorale. Vi sono cose che sono sbagliate a prescindere, anche se non ci influenzano negativamente e l’aborto è una di esse.

Consideriamo l’esempio del titolare di una grande società che per svolgere la sua attività danneggi irrimediabilmente l’ambiente. Costui potrebbe non avere nessun senso di colpa per quello che fa e non subire alcun danno societario come, per esempio, una perdita dei profitti, ma resta il fatto che danneggiare l’ambiente come lui sta facendo rimane un atto immorale e, quindi, da condannare.

Oppure, consideriamo l’esempio di un marito felicemente sposato, ma che si ritrova con una suocera impossibile. La donna non lo ha mai accettato come genero, ritenendolo inferiore e inadeguato alla propria figlia e non perde occasione per criticarlo e screditarlo. Arrivato al limite della sopportazione l’uomo decide di ucciderla, ma facendo in modo che sembri una morte naturale: non dovrebbe essere difficile – pensa l’uomo -, visto che la suocera ha problemi cardiaci e diverse allergie. Alla fine riesce nel suo intento, la suocera muore dopo quello che sembra un plausibile attacco cardiaco, nessuno pensa a un omicidio e, con il funerale della donna, la vicenda si conclude. L’uomo ha riacquistato la serenità perduta, non prova alcun rimorso per quello che ha fatto e, se dovesse pensare a una sola parola per descrivere il suo gesto, direbbe: sollievo! Sollievo perché la suocera che lo squalificava non c’è più e perché non ha subito alcuna conseguenza negativa, come essere accusato di omicidio e finire in galera. “L’ho uccisa e sto bene”, pensa quindi l’uomo, non solo quel giorno, ma anche ogni volta che gli capita di ripensarci.

Quindi chiedo a Lalli: il fatto che quell’uomo non abbia sensi di colpa, si senta sollevato, non abbia subito conseguenze negative e stia bene, rende l’omicidio che ha compiuto un atto non più immorale né illegale? Evidentemente no, perché uccidere volontariamente una persona è sbagliato, è male. E poiché il bambino non nato è anch’egli una persona (come attestano evidenze genetiche, biologiche e filosofiche); è un essere umano (come mostrano le immagini a ultrasuoni e i resti degli aborti) e poiché l’aborto uccide questa persona, questo essere umano, allora l’aborto rimane un atto immorale anche nel caso in cui non ci sia nemmeno una donna che dopo aver abortito incorra in problemi psicofisici.

“Costringere una donna a portare avanti una gravidanza e a partorire”

Nel Lalli-pensiero non manca un po’ di tipica (e scorretta) retorica pro choice, come quando scrive: “Chi chiede di tornare al reato dimentica sempre – per distrazione o per un fine preciso – di nominare o di interrogarsi sull’alternativa: costringere una donna a portare avanti una gravidanza e a partorire. Ripeto: costringere una donna a portare avanti una gravidanza e a partorire”. Quindi – afferma Lalli – rendere l’aborto illegale e sanzionato vorrebbe dire costringere la donna ad avere un figlio, a diventare madre anche se non lo vuole.

Cosa vi è di scorretto in questa frase? Il verbo “costringere”. I favorevoli all’aborto lo usano di continuo: i prolife vogliono costringere le donne a portare avanti la gravidanza e partorire, vogliono costringere le donne ad avere bambini, costringerle a essere madri, ma sono tutte affermazioni false e scorrette. Sono scorrette perché il verbo “costringere” implica che vi sia intimidazione, aggressività, violenza, come se i prolife immobilizzassero le donne per farle inseminare contro la propria volontà così da renderle gravide.

Cosa fanno in realtà i prolife? I prolife affermano semplicemente che non si devono uccidere le persone e, poiché i bambini non nati sono persone, non si uccidono i bambini non nati. Dov’è la costrizione in tutto questo?

Consideriamo, per esempio, il caso di un nostro amico che perda inaspettatamente il lavoro e si ritrovi in una condizione di povertà tale da non riuscire più a soddisfare i suoi bisogni primari. Un giorno viene da noi e ci manifesta l’intenzione di rapinare la banca al fine di poter reperire il denaro per far fronte alle sue necessità. Noi gli rispondiamo che rapinare la banca è sbagliato, ma lui, alterato, ci risponde: “Ah, ma tu mi stai costringendo a essere povero!”. Chiaramente l’amico sta sbagliando, dire “rubare è sbagliato” non implica alcuna nostra costrizione nei suoi confronti.

La stessa cosa vale per la donna incinta che vuole abortire: dire che uccidere il figlio in grembo è sbagliato non vuol dire costringerla a diventare madre. La donna incinta è già madre, di un figlio che avrà la possibilità di vivere (se porta avanti la gravidanza e partorisce) o morirà (se ricorre all’aborto volontario o incorre in un aborto spontaneo). Quindi nessuno può costringere una donna incinta a essere ciò che già è, madre, ma la donna incinta che, per qualsiasi ragione, non voglia allevare il figlio, non è costretta a fare per forza il genitore, infatti la legge le consente di partorire in anonimato e di dare il bambino in adozione. Non vi è quindi alcuna costrizione – come fa intendere Lalli -, da parte di chi è contrario all’aborto, nei confronti della donna che ha concepito un figlio in maniera libera e consapevole del fatto che avere un rapporto sessuale implica la possibilità di rimanere incinta.

“Luoghi comuni, bugie e informazioni parziali e scorrette”

A un certo punto della sua disamina, Lalli scrive che “forse è tempo di innervosirsi quando qualcuno parla di aborto ricorrendo a luoghi comuni, bugie e informazioni parziali e scorrette”, ma, a ben vedere, di luoghi comuni, bugie e informazioni parziali e scorrette sull’aborto è in realtà costellato il suo articolo. Quali sono?

All’inizio dell’articolo Lalli dice di voler procedere al controllo dello “stato di salute della legge 194” evidenziandone una condizione di “febbre alta”. Perché – scrive Lalli –, la media nazionale di ginecologi obiettori è pari al 70,5% e allunga i tempi di attesa a chi vuole abortire. Un’altra criticità – secondo Lalli – è la scarsa applicazione dell’aborto farmacologico, il cui maggior ricorso avrebbe anche il vantaggio di far risparmiare soldi alla sanità pubblica.

Più avanti Lalli scrive che chi parla di pericolosità fisica dell’aborto dimentica che “è più pericoloso partorire che abortire” e rimanda al link di un suo altro articolo. In questo secondo articolo, Lalli specifica che “anche un aborto praticato in Italia nelle strutture sanitarie certificate porta con sé una minima dose di rischio, ma gli episodi sfavorevoli rappresentano una rarità e sono riconducibili a circostanze eccezionali (come l’assenza di medici non obiettori)” che “i numeri sono così bassi che non ci sono statistiche di riferimento” e che “ogni singolo caso di morte in seguito a un aborto entra nelle cronache dei giornali”. Vediamo punto per punto perché le affermazioni riportate da Lalli rientrano nella categoria “luoghi comuni, bugie e informazioni parziali e scorrette”.

È vero che l’alto numero di medici obiettori ostacola l’accesso all’aborto?

No, è falso. Dalla relazione del 2016 sull’applicazione della 194 risulta che ciascun ginecologo non obiettore effettua in media 1,6 aborti a settimana, in 44 settimane lavorative in un anno. Se poi si va a vedere cosa succede nelle singole Regioni, fino alle singole Asl, si può notare che anche nei pochi casi in cui il numero di aborti settimanali è di molto superiore alla media (3 Asl su 140, per la precisione, dove si va da 12 a 15 aborti a settimana circa), si tratta in ogni caso di un “carico di lavoro” che non occupa più di due mezze giornate lavorative a settimana, e quindi anche nelle situazioni più lontane dalla media nazionale, non è vero che le donne incontrano difficoltà nell’accedere all’aborto.

La relazione ci informa inoltre che, a livello nazionale, l’11% dei ginecologi non obiettori non è assegnato dalle proprie amministrazioni al servizio di IVG, in altre parole vuol dire che l’11% dei ginecologi che ha dato la propria disponibilità a fare aborti, è stato incaricato dalla propria amministrazione a occuparsi di altro. Ciò significa che in molte amministrazioni il personale non obiettore è considerato più che sufficiente per le richieste di aborti, tanto che una parte di quelli disponibili è assegnato ad altre attività.

Interessante, in proposito, è anche l’analisi dei dati storici dai quali risulta che nel corso degli anni si è effettivamente verificato un forte aumento dei ginecologi obiettori: erano il 58,7% nel 2005, il 69,2% nel 2006, il 70,5% nel 2007, il 71,5% nel 2008, il 70,7% nel 2009, il 69,3% nel 2010 e nel 2011… il 70,5 nel 2015, il 68,4% nel 2017. Tuttavia, questo indiscutibile aumento non si è di fatto tradotto in un aumento del carico di lavoro per i medici abortisti e, quindi, in una conseguente difficoltà per le donne ad accedere all’aborto: dal 1983 a oggi, il carico di lavoro dei medici abortisti è passato da 3,3 a 1,6 aborti a settimana; quindi non solo il loro carico di lavoro non è aumentato, ma si è addirittura dimezzato.

In conclusione, l’alto numero di medici obiettori non comporta alcun surplus di lavoro per i medici abortisti (che di fatto hanno dimezzato il carico di lavoro rispetto a trent’anni fa) tale da determinare tempi lunghi di attesa per le donne che vogliono abortire.

È vero che l’aborto farmacologico è scarsamente applicato?

I dati contenuti nelle relazioni sulla 194 del Ministero della salute ci dicono che, nel corso degli anni l’aborto effettuato con la pillola RU486 ha avuto un incremento crescente, passando da 132 procedure mediche nel 2005, a 857 nel 2009, 3.836 nel 2010, 7.432 nel 2011, 10.257 nel 2014, 13.255 nel 2016, 14.267 nel 2017. Quindi, in Italia, negli ultimi dodici anni, l’aborto praticato con la pillola abortiva è aumentato dell’11mila per cento! A Lalli sembra comunque scarsamente applicato rispetto al totale degli aborti? A me sembrano troppi anche i 132 casi del 2005, se consideriamo il fatto che l’aborto medico è molto più pericoloso del metodo chirurgico, come evidenzia la letteratura scientifica che ha confrontato le complicazioni tra i due metodi.

Uno studio finlandese – “Immediate complications after medical compared with surgical termination of pregnancy”, Obstetrics and Gynecology, 2009 – ha analizzato gli eventi avversi su 22.368 donne sottoposte ad aborto medico e 20.251 donne sottoposte ad aborto chirurgico, rilevando per l’aborto medico un rischio di complicanze complessivamente 4 volte più elevato rispetto all’aborto chirurgico (20% contro 5,6%). Entrando nello specifico delle singole voci, il rischio di emorragia è risultato 8 volte più alto nell’aborto medico rispetto all’aborto chirurgico (15,6% contro 2,1%); il rischio di aborto incompleto è risultato 5 volte più alto nell’aborto medico rispetto all’aborto chirurgico (6,7% contro 1,6%); così come il rischio di una nuova evacuazione chirurgica, che è risultato 3,5 volte più elevato dopo l’aborto medico rispetto all’aborto chirurgico (5,9% contro 1,8%).

Lo studio australiano “Mifepristone in South Australia”, pubblicato nel 2011 sull’Australian Family Physician, ha rilevato – per gli aborti condotti nel primo trimestre – che il 3,3% delle donne ad aver assunto la pillola abortiva aveva dovuto rivolgersi al pronto soccorso, contro il 2,2% di coloro che si erano sottoposte all’aborto chirurgico; che ben il 5,7% delle donne sottoposte ad aborto medico era stata riammessa in ospedale per un trattamento post-aborto, contro lo 0,4% delle donne ricorse all’aborto chirurgico; che il rischio di un’emorragia grave era di 1 su 3.000 nell’aborto chirurgico, contro 1 su 200 nell’aborto medico, e il tasso di ricovero in ospedale a causa di infezione (sepsi) era di 1 su 1.500 nell’aborto chirurgico contro 1 su 480 nell’aborto medico.

Vi è poi il dato che confronta la mortalità tra i due metodi: la letteratura riporta un rischio di mortalità di 1 su 100.000 per l’aborto medico e di 0,1 su 100.000 per l’aborto chirurgico. Questo vuol dire che il rischio di morte con l’aborto medico è ben 10 volte superiore a quello dell’aborto chirurgico. Quindi, entrambe le procedure hanno dei rischi, ma nell’aborto farmacologico sono molto più elevati.

Significativi, in proposito, sono anche i dati resi noti dall’Agenzia Americana del Farmaco (Fda). L’ultimo rapporto dell’Fda sugli aborti medici (Mifepristone) effettuati in America dal settembre 2000 (quando il farmaco è stato approvato) al 2018, riporta un totale di 4.195 eventi avversi. In particolare: 24 sono le donne ufficialmente decedute in America, dopo aver assunto l’RU486; i casi di infezione segnalati sono stati 412, dei quali 69 classificati come severi (sepsi), cioè potenzialmente letali; 1.042 sono le donne che dopo l’aborto medico hanno dovuto essere ricoverate in ospedale a causa di complicazioni; 599 sono le donne che hanno avuto bisogno di trasfusioni di sangue a causa delle emorragie riportate; e 97 sono le donne ad aver abortito con l’RU486 nonostante presentassero una gravidanza ectopica, mettendo così in pericolo la propria vita.

In conclusione, il fatto che nell’ultima decade in Italia, gli aborti medici siano oltremodo lievitati è un segnale che a livello sanitario si sta incentivando questo metodo, probabilmente anche grazie al fatto che – come osserva Lalli – il suo ricorso rappresenta un risparmio di denaro pubblico. Questo appare tutt’altro che positivo per le donne, visto che l’aborto medico è molto più pericoloso per la salute rispetto al metodo chirurgico. Quindi, chiedo a Lalli: trova giusto – come lei auspica – che si incentivi ulteriormente il metodo abortivo più pericoloso? E, trova giusto che il risparmio di denaro pubblico – che lei auspica – si realizzi sulla pelle delle donne?

È vero che è più pericoloso partorire che abortire?

Questo è un classico mito pro choice, gli abortisti lo ripetono continuamente, ma non solo. L’affermazione è anche riportata nella relazione sulla 194 del 2016, dove l’ex ministro della salute Beatrice Lorenzin scrive: “L’IVG effettuata in una struttura sanitaria da personale competente è una procedura sicura con un rischio di mortalità inferiore all’aborto spontaneo e al parto”. Ma è davvero così? No, non lo è, principalmente per due motivi.

Il primo motivo è che la mortalità correlata all’aborto indotto è uno dei parametri misurato in maniera peggiore, questo fa sì che le morti correlate all’aborto indotto risultino sempre sottostimate. Criticità varie, confusione nei dati e occultamenti (come ho spiegato qui[4]) fanno sì che la maggior parte delle morti correlate all’aborto indotto sfugga alle rilevazioni, portando a una considerevole sottostima dei decessi.

Il secondo motivo è che vengono prese in considerazione solo le morti provocate direttamente dalla procedura abortiva, cioè solo quelle morti che si verificano in concomitanza, o poco dopo l’aborto, a causa di complicazioni fisiche immediate. Tuttavia, come ho spiegato all’inizio, l’aborto non cessa nell’immediato i suoi effetti negativi, ma comporta complicazioni sulla salute fisica anche a lungo termine, in successive gravidanze e sulla salute psichica: si tratta di complicazioni che hanno un impatto negativo sulla salute della donna in generale e, pertanto, ne influenzano la mortalità.

Non è perciò vero – come sostiene Lalli – che “ogni singolo caso di morte in seguito a un aborto entra nelle cronache dei giornali”. Entrano nei giornali solo le morti provocate dalle complicazioni immediate dell’aborto, direttamente riconducibili alla procedura abortiva. A questo riguardo, in Italia sono morte due donne nel 2014 e una del 2016 a causa di complicazioni immediate come infezioni ed emorragie. Come riporta la relazione sulla 194 del 2014, una donna è deceduta dopo aver accusato una crisi cardio-respiratoria mentre era ricoverata in attesa di espellere l’embrione, dopo l’assunzione della prostaglandina nell’ambito di un aborto medico. Gli esami hanno rivelato la morte per shock settico a causa di una grave infezione. L’altro decesso del 2014 riguarda una donna ricorsa all’aborto chirurgico. Due giorni dopo l’intervento, è tornata in ospedale con forti dolori addominali e febbre alta. Dopo aver riscontrato un’emorragia interna, i medici hanno praticato un’isterectomia d’emergenza (asportazione dell’utero), ma non è stato sufficiente: la donna è andata incontro a due arresti cardiaci e non ce l’ha fatta. Nel 2016 è deceduta in ospedale una 19enne di Napoli, a causa di una grave emorragia interna verificatasi durante la procedura chirurgica. Questi sono gli unici decessi correlati all’aborto che sono finiti nelle cronache dei giornali e nella relazione del Ministero della Salute.

Ma, come osservano i ricercatori impegnati nel calcolo della mortalità materna, non è sufficiente prendere in considerazione solo le morti correlate alle complicazioni immediate (per motivi ginecologici) provocate dall’aborto indotto, dall’aborto spontaneo e dal parto, perché questi eventi producono conseguenze sulla salute anche in seguito. Per questo è necessario verificare se le donne hanno una maggiore probabilità di morire anche per qualsiasi altra causa dopo l’aborto indotto, l’aborto spontaneo e il parto, e non necessariamente per motivi ginecologici.

Lalli osserva che “i numeri [delle morti] sono così bassi che non ci sono statistiche di riferimento”. È vero, in Italia, non vi sono statistiche, tuttavia esistono in letteratura numerosi e autorevoli grandi studi (danesi, finlandesi, californiani) che hanno confrontato la mortalità materna per qualsiasi causa dopo l’aborto indotto, l’aborto spontaneo e il parto. L’autorevolezza di questi studi è data dal fatto che, oltre ad aver preso in considerazione campioni ampi e rappresentativi di donne, sono stati realizzati utilizzando la tecnica di record-linkage, ovvero prendendo in considerazione e confrontando tra loro più fonti di dati. Questa è l’unica tecnica, attualmente disponibile, che ci consente di avere un dato realistico sulla mortalità materna perché, a causa delle criticità di cui accennavo prima, se si prende in esame solo una fonte di dati (per es. i soli certificati di morte), si avrà automaticamente una sottostima delle morti.

Cosa hanno scoperto questi studi? Hanno scoperto che è l’aborto indotto a presentare i punteggi di mortalità materna più elevati, sia rispetto alle donne che incorrono in un aborto spontaneo che, soprattutto, rispetto alle donne che partoriscono, queste ultime sono quelle che presentano i tassi di mortalità più bassi, persino più bassi anche delle donne non incinte. Per quanto riguarda le altre cause di mortalità, gli studi hanno evidenziano per l’aborto indotto un maggior rischio di morte per suicidio, incidente (o morte accidentale), cause naturali e omicidio. Di questo argomento, con i relativi dati e riferimenti scientifici, ho parlato nel libretto di ProVita, qui di seguito riporto solo alcuni studi.

Lo studio del 2012 “Reproductive history patterns and long-term mortality rates: a Danish, population-based record linkage study”, pubblicato sull’European Journal of Public Health, condotto su 1.001.266 donne danesi, ha rilevato che l’aborto indotto era associato a tassi di mortalità notevolmente più elevati fino a dieci anni dopo l’aborto, rispetto alle donne che avevano partorito. Entro il primo anno, tale rischio era dell’80% più elevato dopo l’aborto indotto rispetto al parto.

Lo studio di record-linkage finlandese “Decreasing mortality during pregnancy and for a year after while mortality after termination of pregnancy remains high: a populationbased register study of pregnancyassociated deaths in Finland 2001–2012”, pubblicato nel 2016 sul BJOG DOI, ha scoperto che il tasso di mortalità per suicidio era molto più elevato per le donne che avevano abortito  (21,8/100.000) rispetto alle donne la cui gravidanza si era conclusa con la nascita (3,3/100.000), le quali hanno fatto registrare un tasso molto più basso anche nei confronti delle donne non incinte (10,2/100.000).

Un precedente studio di record linkage finlandese “Decreased suicide rate after induced abortion, after the Current Care Guidelines in Finland 1987 –2012”, pubblicato nel 2015 sullo Scandinavian Journal of Public Health, ha rilevato che, entro un anno dall’aborto indotto, il rischio di suicidio era pari a 34,7 per 100.000 aborti indotti. Tale rischio diminuiva in caso di aborto spontaneo (18,1 per 100.000 aborti spontanei) ed era in assoluto molto più basso dopo il parto (5,9 per 100.000 nascite), quest’ultimo è risultato molto più basso anche rispetto alle donne non incinte (11,3 per 100.000 persone in un anno). Gli autori concludono che le donne con un recente aborto indotto hanno un rischio doppio di suicidio e, tra costoro, risultano essere più a rischio coloro che hanno meno di 25 anni. Lo studio ha inoltre scoperto che, dopo l’aborto indotto, aumentava anche il rischio di morte accidentale e per omicidio.

In conclusione, questi e altri studi di record-linkage, che hanno preso in esame la mortalità materna per qualsiasi causa e che sono riusciti a intercettare anche le morti materne che solitamente sfuggono alle rilevazioni ufficiali, dimostrano che è la gravidanza portata a termine ad avere un effetto benefico e protettivo sulla salute della donna in generale e che è, al contrario, proprio l’aborto indotto ad avere l’impatto più negativo sulla salute in generale con i tassi di mortalità più elevati rispetto al parto. Insomma, esattamente il contrario di quanto affermano Lalli, Lorenzin e gli abortisti.

Per riuscire finalmente ad avere anche in Italia un quadro realistico della mortalità associata all’aborto indotto e al parto, potrebbe essere utile realizzare anche sul nostro territorio uno studio con la tecnica di record-linkage, che prenda in esame non solo le morti provocate dalle complicazioni immediate dell’aborto (le uniche delle quali allo stato attuale si è a conoscenza), ma la mortalità materna nella sua globalità.

Un altro parametro che si può prendere in considerazione per sfatare la bufala della maggior pericolosità del parto rispetto all’aborto indotto, è dato dal confronto dei tassi di mortalità materna tra Paesi in cui l’aborto è legale e Paesi in cui invece è vietato. Se la tesi di Lalli e Lorenzin fosse vera, ovvero che si muore più di parto che di aborto indotto, i Paesi nei quali l’aborto è legale dovrebbero avere tassi di mortalità materna più bassi rispetto a quelli in cui l’aborto è vietato o limitato, ma così non è. La pubblicazione del 2013 “Complications: Abortion’s Impact on Women”, realizzata dal The deVeber Institute for Bioethics and Social Research, osserva che da un’analisi a livello globale emerge che “i Paesi in cui l’aborto è limitato hanno, di fatto, tassi di mortalità materna (MMR: maternal mortality rates) più bassi rispetto ai paesi in cui l’aborto è legalizzato”. Gli autori della ricerca citano al riguardo i dati del Cile che “ha uno dei MMR più bassi del continente americano. Il suo MMR è diminuito del 70% dopo che l’aborto è stato vietato”. “Questa tendenza – aggiungono gli autori – è confermata da El Salvador e dal Nicaragua, che hanno entrambi registrato una diminuzione significativa del MMR dopo aver vietato l’aborto”. Gli autori continuano specificando che la stessa cosa si è verificata anche in Egitto e nel distretto ugandese di Soroti: dopo aver introdotto leggi restrittive sull’aborto, l’Egitto ha fatto registrare una diminuzione del tasso di mortalità materna del 52% e Soroti del 75%.

Il rapporto non cambia se ci spostiamo in Europa. Uno studio realizzato nel 2013 da ricercatori della West Virginia University-Charleston e della University of North Carolina, ha confrontato i tassi di mortalità materna tra Irlanda (quando l’aborto era ancora illegale) e Inghilterra (Paese in cui l’aborto è ampiamente liberalizzato). Analizzando i dati sanitari degli ultimi 40 anni, gli studiosi hanno rilevato per le donne inglesi una mortalità materna doppia rispetto alle irlandesi: 6 su 100.000 contro 3 su 100.000. Uno dei valori più bassi d’Europa, ovvero 3 su 100.000, è anche il tasso di mortalità materna della Polonia, un Paese dove l’aborto è fortemente limitato.

In conclusione, al pari degli studi di record linkage, anche questi dati confermano la bocciatura della tesi abortista sulla presunta maggiore pericolosità del parto rispetto all’aborto volontario.

È vero che i decessi sono attribuibili all’assenza di medici abortisti?

Lalli scrive che “anche un aborto praticato in Italia nelle strutture sanitarie certificate porta con sé una minima dose di rischio, ma gli episodi sfavorevoli rappresentano una rarità e sono riconducibili a circostanze eccezionali (come l’assenza di medici non obiettori)”. Quindi, secondo Lalli, i rari casi di decessi correlati all’aborto avvenuti in Italia, sarebbero attribuibili all’assenza di medici abortisti, ma quest’affermazione è confutata dai fatti. Infatti, Le tre donne morte in Italia – di cui ho parlato al punto precedente – sono decedute in ospedale dopo aborti legali praticati (ovviamente) da medici non obiettori. Evidentemente, nessuna delle tre ha incontrato problemi nel reperire un medico non obiettore che le praticasse l’aborto in cui ha trovato la morte.

Di aborto legale si può morire perché tale rischio è insito nella procedura abortiva in sé. Lo sanno i medici, lo sa il Ministero della Salute che ha previsto la voce “decesso” tra le complicazioni immediate del modello Istat D/12 (il modello che ogni ginecologo deve compilare ogni volta che esegue un aborto). Non lo sanno le donne che chiedono di abortire e non lo sa Lalli che continua a lanciare accuse campate in aria non trovando niente di meglio da fare che attribuire la colpa alla mancanza di medici abortisti.

Pubblicato 18 Giugno 2019 | Da Lorenza Perfori

Cara Lalli, la verità, la prego, sull’aborto