OPINIONI – Il bacio di Violaine al lebbroso e la felicità nel tempo del coronavirus

By 16 Marzo 2020Coronavirus

La paura ci spinge a farci un male ancora più grande di quello che può provocare il coronavirus: mettere a tacere la voce del cuore. Ma la letizia è sempre possibile per i cristiani.

«Perdonatemi perché son troppo felice! Perché quegli ch’io amo, mi ama, e di lui son certa […] E perché Dio mi ha creata per essere felice e non per il male e non per la pena». Con queste parole Violaine, la giovane che vive con passione la vita, lieta di aderire al Mistero così come Esso si rivela in ogni circostanza, incontrando Pietro di Craon – l’uomo che aveva tentato di violarla ed ora è lebbroso – lo abbraccia e lo bacia.

La forza di questa espressione e del gesto inusitato che Claudel affida alla protagonista del suo dramma L’annuncio a Maria sta tutta nel violento contrasto tra il male l’ha minacciata e il desiderio incensurabile di cui è fatto il suo cuore: la felicità. Un desiderio che si fa domanda urgente anche di fronte alla malattia mortale incarnata in quell’uomo, una ferita che sembra negare questo anelito dell’anima. O, almeno, imporre una tregua al cuore, perché smetta di bramare ciò che il tempo presente non consente a buon prezzo. Anzi, appare allontanare da noi e dissolvere in una delusione.

In questi giorni, segnati dalla minaccia di un microscopico agente che attenta al cuore dell’uomo prima che alla sua salute, tutto cospira in noi e attorno a noi (diabolicamente, diremmo nello stile del Berlicche di C. S. Lewis) a mettere una maschera al grido con cui siamo venuti al mondo e che non ci lascia un solo istante: la voglia di vivere felici. E se (r)esisto con questo sguardo irriducibilmente positivo sulla realtà fino a scorgere tra le sue pieghe il germe della letizia, devo chiedere perdono a chi mi sta accanto e alla società «perché son troppo felice»?

Ci sentiamo paralizzati nel respiro del cuore, che è il desiderio della vita, ancor prima di divenire insufficienti nella ventilazione polmonare che ossigena il sangue. È come se ciò che abbiamo desiderato e sperimentato fino ad oggi non reggesse l’incalzare della paura che tutto questo ci venga strappato di dosso da un virus. Un virus che si impadronisce della nostra vita e ce ne ruba il gusto, il sapore delle briciole di felicità che abbiamo assaggiato (quelle che cadono sulla terra dalla tavola Dio, secondo l’immagine del Vangelo di Matteo, al capitolo quindicesimo).

Per questa celata paura mettiamo a tacere la voce del cuore ancor prima che il male che ci minaccia tenti di soffocarla con una dispnea spirituale. Così, il male che ci facciamo è più grande del male che il coronavirus può provocarci: «Che cosa l’uomo potrà dare in cambio del proprio cuore?» (Mt 16,26).

La felicità non è quello che io immagino per me e per chi mi sta accanto in questo momento, né in altro tempo della vita la felicità consiste nella proiezione al di fuori di me (un “pro-getto”, secondo l’etimo della parola) di un’idea astratta, cioè strappata dalla realtà. Non una “voglia da morire” – secondo la popolare espressione – di qualcosa che ci sta in mente, ma «dare in letizia quel che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna!», come dice un altro personaggio del dramma claudeliano, l’anziano contadino Anna Vercors.

Per questo la letizia è sempre possibile, in ogni circostanza, anche la più drammatica che è la morte, come ci hanno insegnato piccoli e grandi uomini e donne nell’ora dell’ultimo respiro. La sfida della nostra libertà è la gioia di una grazia che è nel presente come l’alba di un giorno senza tramonto. Ora i nostri occhi vedono solo i primi raggi di una luce che non proviene da noi, che non siamo noi a darci. Ma che illumina le piccole cose di ogni giorno, dentro casa. Senza questa fiammella ci sarebbero ugualmente “in sé stesse”, ma non le vedremmo: non sarebbero “per noi” e non potrebbero renderci felici.

Da duemila anni – e quanti di questi sono stati segnati da tragedie di terremoti, pestilenze, carestie e guerre nei secoli passati e al presente (in questi giorni, rileggere alcune pagine della storia fa bene) – il cristianesimo riconosce questa luce nella presenza di Cristo nel mondo: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). I “grandi” non se ne sono accorti, i “piccoli” sì. Il segreto di adesso come in questi lunghi anni che stanno dietro le nostre spalle (ma sulle loro spalle noi siamo seduti) è quello di tornare come bambini (cf. Mt 18,3). La canzone di Maria Chiara, “Se non ritornerete come bambini”, ci appare oggi ancor più vera: perché non si chiuda dinnanzi a noi la porta della speranza bisogna vivere con “ingenuità” (secondo il significato originario del termine: con capacità di generare vita nuova).

La speranza è irriducibile certezza. Non si può farla fuori: è lei che fa fuori, spezza l’ombra che schiaccia la vita, la parvenza di morte che è dietro l’angolo. Alle parole di Violaine, fanno eco quelle di Péguy: possiamo essere lieti perché speriamo mentre ridiamo e mentre piangiamo. Come fanno i bambini, che ridono e piangono al medesimo tempo.

«La Speranza è una bambina da nulla. Che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso. Che gioca ancora con babbo Gennaio. Eppure è questa bambina che traverserà i mondi. Questa bambina da nulla. […] È lei, quella piccina, che trascina tutto. Perché la Fede non vede che quello che è. E lei vede quello che sarà. La Carità non ama che quello che è. E lei, lei ama quello che sarà. Dio ci ha fatto speranza» (Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù).

Nel tempo del coronavirus abbiamo bisogno di questa bambina. Noi e i nostri figli. Tutti ne hanno bisogno per non tradire la domanda del cuore.

Roberto Colombo

16 marzo 2020

Il bacio di Violaine al lebbroso e la felicità nel tempo del coronavirus