Altra lezione olandese: «In Italia troppi vecchi in terapia intensiva»

By 31 Marzo 2020Coronavirus

Come affrontano l’emergenza coronavirus nei Paesi Bassi? Invitando i medici a selezionare gli anziani in base alla loro potenziale “vulnerabilità.”

Con l’occasione dell’emergenza coronavirus la distanza tra Olanda e Italia non emerge solo nei tavoli dell’Unione Europea dove si discute (litigando) di bilanci e misure anticrisi. Anche in campo medico tra i due paesi sembra aprirsi un abisso. La settimana scorsa lo ha mostrato a tutti Frits Rosendaal, capo del reparto di epidemiologia clinica dell’ospedale universitario di Leida, insignito dall’Olanda con tutti i maggiori riconoscimenti scientifici.

Parlando delle differenze tra l’approccio dell’Italia all’emergenza sanitaria e quello del suo paese, il professor Rosendaal ha tenuto a sottolineare non solo che da noi il coronavirus è stato libero di circolare per molto più tempo prima che fossero adottate misure di contenimento, un ritardo che ha «facilitato il contagio». Soprattutto, ha aggiunto Rosendaal, a fare la differenza è la gestione dei posti disponibili nei reparti di terapia intensiva: in Italia, ha osservato il medico, «ricoverano persone che noi in Olanda non ricovereremmo perché troppo anziane. Gli anziani godono di una considerazione molto diversa nella cultura italiana».

PROBLEMI DI BUDGET

Non ci vuole molta fantasia per intuire che cosa comporti all’atto pratico questa “diversa considerazione” verso gli anziani. Una differenza che può avere concretissime conseguenze in ambito terapeutico, così come a livello di budget economico. E chissà che non pensasse anche a questo, il ministro delle Finanze olandese, Woepke Hoekstra, quando giovedì al Consiglio europeo ha chiesto l’avvio di una indagine presso la Commissione di Bruxelles per sondare i motivi per cui alcuni paesi dicono di non avere margini di bilancio nonostante la crescita dell’area euro negli ultimi anni. Ovvio che Hoekstra si riferiva proprio all’Italia, alla Spagna e agli altri sette stati europei che invocano i coronabond per far fronte alle spese di emergenza (il premier portoghese Antonio Costa ha definito «ripugnante» la proposta olandese).

Ma torniamo all’ambito medico. Un altro che sottolinea le differenze di approccio fra Nord e Sud dell’Europa è Hans van der Spoel, vicedirettore della terapia intensiva all’ospedale universitario di Amsterdam. Anche secondo Van der Spoel, interpellato dal quotidiano Volkskrant, ci sono «grandi differenze tra noi e paesi come la Francia e l’Italia». Nei Paesi Bassi, spiega il medico, «di solito si riflette molto di più se sia un beneficio per il paziente un così lungo apporto di ventilazione». Al contrario, «più vai a Sud, più diventa poco negoziabile interrompere questo trattamento che allunga inutilmente la vita. È così già in Francia», figurarsi in Italia. Nel Belpaese infatti «l’età media dei pazienti in terapia intensiva è molto più alta che qui». E adesso sappiamo che non è un caso.

DOVE SI MUORE DI COVID-19

Per carità, precisa Van der Spoel, non è mica vietato neanche in Olanda ricoverare un malato over 70. Semplicemente, «valutiamo quanto sia utile ventilare qualcuno per settimane. Il paziente ha malattie sottostanti? Quanto è vulnerabile? Quanto è fragile? Per quanto tempo vivrà?». Sono domande che trovano un senso nella considerazione che il coronavirus «ha effetti violenti anche nelle persone sane, quindi è ancora più difficile per i pazienti vulnerabili».

Alla luce di tutto ciò, comincia a chiarirsi il motivo per cui, scrive sempre il Volkskrant, solo una piccola parte dei contagiati da coronavirus deceduti in Olanda siano morti in terapia intensiva (appena 27 su 179 al giorno in cui è uscito l’articolo in questione, 22 marzo). Tutti gli altri sono morti in casa di cura o in altri reparti ospedalieri. Mark Martens, geriatra e responsabile del centro di assistenza per anziani Zuyderland a Limburg, dice che degli 8 ospiti uccisi dal Covid-19, solo uno è defunto in ospedale, gli altri sono rimasti dov’erano.

QUESTIONE DI «QUALITÀ DELLA VITA»

«Mandiamo le persone in ospedale solo se prevediamo che dispongano di capacità sufficienti per recuperare», spiega Martens. Gli fa eco un’altra geriatra, Maggy van den Brand, della casa di cura Archipel di Eindhoven: «Stimo che in un caso di emergenza come il coronavirus invieremo in ospedale tra il 10 e il 20 per cento dei nostri pazienti». Per gli altri niente terapia intensiva. Tutto e sempre, naturalmente, in accordo con il paziente o con la famiglia, precisa il quotidiano. E soprattutto seguendo la stella della «qualità della vita».

Non sarà sfuggita fin qui l’insistenza sulla potenziale «vulnerabilità» degli anziani interessati. È un tema che ritorna martellante anche nelle raccomandazioni pubblicate in risposta all’emergenza coronavirus in Olanda da quattro luminari della geriatria, Bianca Buurman, Olde Rikkert, Huub Maas, Simon Mooijaart. I quattro consigliano in continuazione agli operatori sanitari – in vista del possibile contagio – di informarsi appunto in merito alla «vulnerabilità» dei proprio pazienti, poiché «se una persona anziana è molto vulnerabile, un ricovero in terapia intensiva spesso non è più un’opzione realistica». Meglio dunque «sondare le preferenze del paziente» con domande tipo: «Come valuta la propria salute, dove vuole morire?».

UNA GRADITA ATTENZIONE

È chiaro che certe domande sembrano fatte apposta per incoraggiare il maggior numero di rinunce preventive alle cure. Infatti «queste discussioni – precisano gli specialisti – vanno preferibilmente condotte prima che si verifichi un grave deterioramento delle condizioni del paziente e le scelte devono essere prese in base a vincoli temporali». Nota bene per i casi di cui sopra: «Nelle case di cura, quasi tutti i residenti possono essere considerati (seriamente) vulnerabili».

È stato sempre il Volkskrant, venerdì scorso, a testare “sul campo” le raccomandazioni dei quattro geriatri. All’Aia, nel quartiere Houtwijk, opera Marije Dieudonné, medico specializzato in assistenza agli anziani, la quale dice di aver capito quanto sia «importante che i desideri dei pazienti siano scritti, in modo che, anche qualora si ammalassero di sera o nel fine settimana, tutti sappiano cosa pensano della rianimazione e della ventilazione. E se vogliono davvero andare in ospedale». E non è che bisogna complicare l’interrogatorio dei poveri anziani con «domande difficili» come «cosa ne pensi della terapia intensiva o della ventilazione?». La chiacchierata, dice la dottoressa Dieudonné, «riguarda molto di più la domanda: quali sono i tuoi desideri per l’ultimo tratto?». «Alle persone anziane piace essere chiamate per questo, apprezzano l’attenzione».

Redazione 31 marzo 2020 Esteri

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