IL FOGLIO – Denatalità e pandemia. Che cosa ci insegna la caduta di Roma. Parla il direttore del Figaro Histoire

By 20 Dicembre 2020Attualità, Coronavirus

“La generazione del ’68, come l’élite romana, ha pensato a ‘godere senza ostacoli’. Abbiamo smesso di sostituire le generazioni”, dice Michel De Jaeghere, autore di “Gli ultimi giorni”

 “I barbari volevano godere della prosperità Romana, ma senza abbracciarne i valori che l’avevano resa possibile. Un fenomeno che vediamo anche oggi con l’immigrazione”

“C’era una diminuzione della popolazione, dovuta alla pestilenza e alla scarsa natalità”, scriveva Gaetano Mosca negli anni Trenta, riflettendo su quello che lo storico tedesco Eduard Meyer aveva definito “l’avvenimento più interessante e più importante della storia universale”. La caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Il più robusto filone interpretativo ha da un po’ di tempo posto l’accento su un doppio shock demografico che fece collassare Roma. La popolazione imperiale di ottanta milioni nel primo secolo d.C. al tempo di Augusto scese a 25 milioni nel 476. L’epidemia di vaiolo sotto Marco Aurelio, raccontata dallo storico Kyle Harper nel  libro “Il destino di Roma” (Einaudi), diede il colpo di grazia a quella che Pierre Chaunu, lo storico francese degli Annales, definirà il “primo caso di civiltà del rifiuto della vita”. A questo doppio choc Michel De Jaeghere, direttore del Figaro Histoire, ha dedicato le seicento pagine di “Les derniers jours”, gli ultimi giorni, tradotto in italiano dalla casa editrice Leg. “Le famiglie erano fragili e poco feconde. Il concubinato rimaneva la norma, il divorzio era frequente. La perdita della pietas si tradusse in uno spopolamento che avrebbe avuto un grande peso sui destini del mondo romano. Lucano aveva descritto, sotto Nerone, la desolazione di un’Italia in cui ‘pochi abitanti vagano per le strade deserte di antiche città’”.

Fantascienza per noi? A luglio la rivista The Lancet ha diffuso dati da capogiro per l’Italia: la nostra popolazione si dimezzerà nel 2100 scendendo a trenta milioni di abitanti (stesso destino della Spagna). Su questa denatalità cronica si è accanita da un anno la pandemia, spingendo Alessandro Rosina, demografo della Cattolica di Milano, a scrivere sul Sole 24 Ore che “il Covid darà il colpo di grazia alla demografia italiana”. “Quest’anno oltre 700 mila morti, come nel pieno della Seconda guerra mondiale”, ha aggiunto il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo. In quindici anni, un italiano su tre avrà 65 anni. “La storia non si ripete mai in modo identico, meccanicamente, come un esperimento di laboratorio, perché è opera degli uomini”, racconta al Foglio Michel De Jaeghere.

“Eppure, contiene un tesoro di conoscenze che sarebbe assurdo trascurare. Per quasi tre secoli, il mondo Romano è stato oggetto di una serie di violente irruzioni da parte delle tribù germaniche che lo hanno destabilizzato e che hanno finito, in occidente, per avere il sopravvento. Era troppo poco popolato per garantire sussistenza e difesa dei confini. Le sue élite, che nei giorni gloriosi della Repubblica lo avevano guidato di persona, non hanno mobilitato uomini e ricchezze per difenderla, preferendo il più delle volte trattare con gli occupanti per salvare ciò che per loro era essenziale: possedimenti e posizioni”. L’attuale situazione europea è ben diversa. “I nostri paesi sono in pace da 75 anni, se si escludono gli scossoni jugoslavi. La popolazione dei ventotto stati dell’Unione Europea è attestata a 446 milioni di abitanti. La Francia da sola ne ha come l’Impero Romano al suo splendore. Non siamo soggetti a saccheggi armati o a conquiste militari. Ma il paradosso è che investiamo nella promozione di una politica che ci porta, insensibilmente, alla nostra stessa espropriazione. La nostra ricchezza demografica è solo un’esca. Nasconde l’invecchiamento. E anche se l’Europa non viene conquistata militarmente, è comunque vittima, a causa dell’immigrazione extraeuropea, di qualcosa che ci lascia disarmati e impotenti”.

Su questa denatalità ha assestato un duro colpo il Covid. “Sembra ricordare la peste giustiniana che, nel VI secolo, ha devastato l’intero bacino del Mediterraneo. Certo, il Covid non ha la virulenza della peste, che  uccise  metà della popolazione. Resta il fatto che la paura che ha suscitato e la disorganizzazione che ha causato ci hanno convinto che stiamo vivendo in tempi di collasso. Sfatando le nostre rassicuranti certezze, ci dà la sensazione che, contrariamente alle illusioni del progressismo, non sappiamo cosa ci porterà il domani”.

De Jaeghere individua una lezione. “La storia degli ultimi tre secoli dell’Impero Romano d’Occidente ci insegna che è inutile pensare di mantenere un’area di prosperità al centro dell’anarchia, a meno che non ci sia uno squilibrio demografico tra i due, a vantaggio dell’area dove la civiltà fiorisce. In effetti, la prosperità attira come una calamita i barbari,  desiderosi di goderne senza condividerne anche la disciplina. Questa attrazione diventa irresistibile se l’equilibrio di potere non è schiacciante. La storiografia ha giustamente messo in discussione l’idea romantica che le invasioni germaniche siano state compiute da barbari ignoranti. Ha dimostrato che gli invasori, al contrario, erano ansiosi di condividerne i frutti. Non volevano mettere in discussione la civiltà greco-romana, volevano approfittarne. Ciò non impedì loro di distruggerla, perché non capirono che essa era fiorita grazie a vita civile, stato di diritto, unità politica e cultura letteraria.

Lo stesso vale per i migranti che oggi corrono nell’Eldorado europeo. Non odiano l’occidente, fuggono dalla miseria e sperano di prendersi la propria parte di prosperità, che agisce come uno specchio su di loro, a partire dal nostro welfare. Ma questa prosperità non si basa sulle risorse naturali, ma è il frutto del lavoro degli uomini, del loro spirito d’iniziativa, del loro ingegno, del loro zelo. Si fonda su un modello sociale basato sulla famiglia monogama e ideali come la dignità della persona, la responsabilità individuale, la pietà filiale al centro del pensiero cristiano e su un patrimonio intellettuale, ovvero l’eredità greco-romana favorevole al lavoro, allo spirito d’impresa, alla giustizia, all’ordine e alla trasmissione. Pensare che i nuovi arrivati ne beneficeranno è un’utopia mortale. Sarebbe possibile solo se vivessimo in una terra di abbondanza, dove tutto ciò che dovremmo fare è scegliere”. Non è così.

“L’Impero Romano cessò l’espansione nel primo secolo. Con la sola eccezione della spedizione di Traiano, credeva di poter rimanere all’interno del Reno e del Danubio, senza preoccuparsi di civilizzare i popoli al di là del Barbaricum. Lo status quo è durato finché i tedeschi non sono stati capaci di affrontare gli eserciti Romani. Tutto questo cambiò quando i capi, già mercenari per Roma, riuscirono, grazie ai sussidi ricevuti, a costituire ‘popoli’ che avevano la dimensione critica per forzare il confine. Roma stessa ha così creato le condizioni per il proprio rovesciamento. Incapaci di fornire gli uomini necessari per tenere un confine che si estendeva dalle foci del Reno al Mar Nero, i Romani avevano l’abitudine di assumere mercenari, concedendo loro terra. Si trovarono di fronte alla presenza di énclave straniere che gradualmente li privarono delle risorse necessarie a mettere in piedi truppe per respingerli e gradualmente si trasformarono, all’interno dell’impero stesso, in regni indipendenti”.

Come le nostre Molenbeek? L’esperienza è, per noi, ricca di due lezioni. “Il primo è che gli imperi non valgono nulla in difesa. L’impero di Napoleone, come l’Austria-Ungheria, ne hanno dato ampie dimostrazioni. La guerra difensiva richiede più truppe, perché non si sa dove l’avversario deciderà di attaccare, e non rende, perché esclude saccheggi e bottini. Si basa  sul patriottismo, sull’amore per la terra dei padri, sulla volontà di difenderla, di sacrificarsi per essa. Questo è ciò che l’Impero Romano aveva cessato di ispirare. Era troppo sfaccettata e troppo vasta per suscitare legami affettivi  e devozione al bene comune. Nessuno lo metteva in discussione, ma non si dava neanche la vita in sua difesa, perché sembrava solo la necessaria forma di governo. Nella sua prosperità, suscitò l’ammirazione e l’entusiasmo delle élite come Publio Elio Aristide. Ma non poteva contare sulla mobilitazione. I grandi complessi multietnici e multiculturali impressionano per estensione visti dal cielo. Hanno una fragilità che le città e i loro eredi, le nazioni moderne, non hanno”.

La seconda lezione è che la disintegrazione dell’impero occidentale ha portato alla rovina, anche per i barbari nel Barbaricum. “Attraverso la nostra espansione coloniale, anche noi abbiamo dato coerenza e coscienza a popoli che non ne avevano una prima dell’arrivo degli europei. Anche noi li abbiamo lasciati a se stessi, schiacciati dai costi finanziari e umani della colonizzazione, anche se questo aveva permesso loro di evitare le conseguenze della guerra. Abbiamo trasmesso loro notizie in televisione e sui social. Abbiamo allestito rotte marittime, terrestri e aeree che ora utilizzano per fuggire la miseria causata dall’anarchia  seguita alla decolonizzazione”. E come i Romani, anche noi ne subiamo le conseguenze. “Ma come i barbari del VI e VII secolo, quelli di loro che sono rimasti nei paesi d’origine, se l’Occidente crolla ne subiranno l’effetto devastante”.

Molti vedono l’islam oggi in Europa come una mutazione di civiltà paragonabile a quella cristiana nell’Impero Romano. “E’ una polemica anticristiana Resa popolare da Voltaire e amplificata da Edward Gibbon” ci dice De Jaeghere. “Al contrario, il cristianesimo ha dato nuova vita all’Impero. Le ha dato l’unità morale che le mancava, ha contribuito a riformarne la morale e, ancor più, ha ispirato Costantino, Costanzo II, Valentiniano, Graziano e Teodosio, che si sono dedicati alla difesa contro l’invasione. Questa difesa ha avuto successo per un secolo. Quando tutto fu consumato, fu la conversione dei barbari al cristianesimo che permise loro di fondersi con l’élite Romana e conservare il patrimonio spirituale della civiltà greco-romana”.

L’islam svolge per noi oggi un ruolo diverso. “In primo luogo, perché vieta qualsiasi fusione tra le popolazioni. In Europa i musulmani formano gruppi comunitari che non hanno né la morale né la concezione della vita, della storia e del futuro degli europei, e si impongono, nel cuore dei nostri paesi come organismi stranieri, come stati all’interno dello stato. L’islam ha la particolarità di essere una comunità e una legge più che una religione, per come la intendiamo noi. E questa legge è in molti aspetti come la poligamia, la guerra santa contro gli infedeli, l’assassinio degli apostati, la sottomissione delle donne, contraria a quella che la nostra tradizione considera la legge naturale, deducibile in ragione delle caratteristiche della natura umana. Ipoteca l’unità dei nostri paesi e allo stesso tempo apre la prospettiva di uno scontro di civiltà”. Questo scontro è già all’opera. “Si manifesta con la messa in discussione della nostra morale e dei costumi nella vita quotidiana, con l’insicurezza che regna laddove le popolazioni straniere sono lasciate a se stesse, e ancora di più con lo scivolamento di alcuni musulmani nel terrorismo. L’affermazione massiccia dell’islam in Europa rappresenta una minaccia per le nostre società che, se non stiamo attenti, potrebbe rivelarsi fatale”.

Nonostante le crisi che periodicamente scuotono le nostre economie e che hanno destabilizzato le classi medie, gli ultimi settant’anni hanno visto, in Europa, un aumento di prosperità come mai visto prima. “Il benessere in cui viviamo sarebbe sembrato impensabile ai nostri nonni un secolo fa. La rivoluzione tecnologica a cui stiamo assistendo apre prospettive straordinarie. La sensazione è di vivere in una nuova età dell’oro. Ma stiamo assistendo a un aumento dell’ansia, che testimonia il fatto che il mondo contemporaneo, che ci ha dato accesso a prodotti di consumo in proporzioni senza precedenti, non soddisfa le aspirazioni profonde dell’uomo.

Uno storico francese, Jacques Cauvin, ha dimostrato che la rivoluzione neolitica coincise con la comparsa dell’idea di Dio. Il nostro mondo ipersofisticato e ipertecnologico ha scacciato l’idea di Dio, giudicato incompatibile con il regno della Ragione. L’uomo ora si dedica solo a migliorare la propria situazione materiale. Questo lo ha portato a rinunciare alla generosa accettazione della vita. La generazione del Baby Boom, in Francia del maggio  ’68, è convinta che si deve  ‘godere senza ostacoli’, sfidare autorità e morale, in una felicità senza precedenti. Perché fare figli? Questa generazione ha inventato un mondo che si proclama e si crede il migliore che la storia abbia mai conosciuto ma, allo stesso tempo, ha programmato la propria scomparsa.

Ma al di là di qualsiasi illusione cullata dai transumanisti, la prospettiva ultima rimane sempre la morte. La crisi del Covid ha mostrato fino a che punto sia diventata fonte di terrore. Da quasi mezzo secolo, l’Europa ha cessato di sostituire le  generazioni. Si è fatto la croce della morte sulla fronte”. Anche i contemporanei della fine dell’impero Romano rifiutarono di crederci. “Questa Roma destinata a vivere fintanto che esisterà l’uomo…”, scriveva Ammiano Marcellino nelle sue “Storie”. Era il 385. Venticinque anni dopo, Alarico prese Roma. Altri sessant’anni e l’Impero Romano d’Occidente sarebbe scomparso. Ora il 2100 non ci apparirà poi così lontano.

Giulio Meotti

Il Foglio

20 Dicembre 2020