Il segno distintivo del cristiano è “l’amore-carità”

By 8 Aprile 2022Spiritualità

Un’altra componente importante nel cammino spirituale che stiamo percorrendo in questa quaresima 2022 è “l’amore-carità”, un segno  distintivo del cristiano, e che propongo meditando la parabola evangelica del buon samaritano.

Premessa

Il vocabolo amore, anche se esprime il pregio maggiore che l’uomo possiede, oggi è inflazionato, logorato, strumentalizzato e utilizzato scorrettamente in varie situazioni. Tutti amiamo qualcuno, soprattutto perché questo ci gratifica, ci appaga, ci fa felici… ma quando l’amore non è ricambiato il più delle volte interrompiamo la relazione.

Tra i molti autori che hanno descritto questo atteggiamento vi indico  san Paolo di Tarso che nella Lettera rivolta ai cristiani di Corinto lo delinea con intensità profonda. Quel brano, pur rivolto a una comunità cristiana primitiva, possiede, per l’alto valore contenutistico una valenza attuale e universale. L’apostolo, definisce l’amore che ricerca “il bene altrui”, con il termine  “carità”, un atteggiamento profondamente differente dall’amore  romantico, passionale, emotivo e impulsivo.  “La carità, è paziente – scrive l’apostolo – è benigna la carità, non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!” (1 Cor. 13,4-8.13).

La domanda del “cristiano comune” a Gesù

“Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: ‘Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?’. Gesù gli disse: ‘Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?’. Costui rispose: ‘Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso’. E Gesù: ‘Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai’. Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: ‘E chi è il mio prossimo?’ ” (Lc 10, 25-29).

Un tale, che può rappresentare ciascuno di noi, pone al Signore Gesù una domanda molto dettagliata riguardo al prossimo che il Libro del Levitico, da lui citato, obbliga di amare. E, la risposta del Cristo con la parabola del buon samaritano. si articola in tre momenti.

 La parabola del buon samaritano

 L’uomo bisognoso d’aiuto

“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto” (Lc. 10,30)

Chi è costui?

Mentre di tutti gli altri personaggi della parabola è indicato il ruolo o l’identità, di questo poveretto non viene fornita nessuna descrizione. Gesù ci dice unicamente che è “un uomo”; l’uomo della porta accanto, l’uomo che incontriamo ogni giorno, l’uomo che si rivolge a noi. Dunque, il malmenato della parabola, è un uomo che si trova nel bisogno, anzi in un forte disagio e malessere fisico o esistenziale essendo stato abbandonato “mezzo morto”, cioè nel crinale tra la vita e la morte e deve affrontare un’esistenza incerta.

 Gli indifferenti al bisognoso d’aiuto

Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre” (Lc. 10.31).

Quei due soggetti mostrano un atteggiamento alquanto diffuso nella nostra società: l’individualismo crescente che induce a vedere gli altri come limite e minaccia alla propria libertà e autonomia. Alla radice di questa modalità di pensiero sta l’assurda visione della persona che si illude di essere radicalmente autonoma, in grado di salvare sé stessa, negando di riconoscere la sua dipendenza non solo da Dio ma anche dagli altri. Rammentava il filosofo belga Jean-Francois Malherbe, riferendosi all’esercizio della libertà come autonomia. “Il paradosso dell’autonomia è che l’autonomia non è niente, se non è reciproca. In altre parole, non c’è autonomia possibile al di fuori di un contratto sociale che ne garantisca l’esercizio. Da solo – conclude il filosofo – non potrei garantirmi nessun diritto” (Les crises de l’incertitude: Essais d’éthique critique, III, Montréal, Liber, 2006). Ognuno di noi è indissolubilmente congiunto a tutti, dipendendone in vari modi; e la mia realizzazione si attua unicamente con la collaborazione della collettività. L’uomo nasce nudo, bisognoso degli altri, totalmente vincolato a chi appaga le sue necessità ed esigenze. Ma ciò prosegue anche da adulti; basta rammentare le molteplici persone che operano ogni giorno per noi e i tanti ai quali dobbiamo riferirci in ogni circostanza.

L’amore-carità del buon samaritano

Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno” (Lc. 10.34-36).

Il buon samaritano ama quel “bisognoso d’aiuto” non solo a livello emotivo ma attuando una serie di comportamenti concreti che anche noi possiamo concretizzare, ad esempio, mediante le opere di misericordia, cioè quelle azioni caritatevoli con le quali soccorriamo il nostro prossimo nelle sue necessità corporali e spirituali (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2447).

La pienezza dell’amore-carità è “la compassione”

La “compassione” è la prima caratteristica che la parabola evidenzia nel “buon samaritano”: “Lo vide e n’ebbe compassione…”.

Cos’è la compassione? E’ la totale comprensione delle sofferenze corporali o spirituali dell’altro, e di conseguenza la disponibilità ad aiutarlo concretamente, sacrificandosi per lui, come indicava il teologo olandese H. Nouwen: “Nessuno può aiutare qualcun altro senza entrare con la sua persona nelle situazioni dolorose; senza assumere il rischio di soffrire, ferirsi o anche essere distrutto nell’operazione” (The wounded healer, Ny Doubleday 1972, 72).

Chi offre l’esempio? L’esempio per eccellenza è Dio che ha donato il proprio Figlio, non per cancellare il dolore o le situazioni di fragilità, ma per “condividere la condizione umana”, farne esperienza e soffrirla con l’uomo, non rifiutando neppure la morte (cfr.: Fil. 2,1-11). La Storia della Salvezza è la testimonianza della “compassione di Dio” nei confronti dell’uomo. Nell’Antico Testamento, Dio ha condiviso la sofferenza del suo popolo: “con affetto perenne ho avuto compassione di te” (Is. 54,8). Anche il Signore Gesù visse l’esperienza intima della compassione, descritta dagli evangelisti esprimendo i suoi sentimenti. Vedendo le folle sfinite “ne sentì compassione(Mc. 6,34); di fronte alla morte di Lazzaro “si commosse profondamente(Gv. 11,33), e non rimandò nessuno dei bisognosi d’aiuto che si rivolsero a Lui senza avergli dimostrato la Sua compassione (cfr.: Mt. 15,22; 17,15; 20,30-31).

La compassione, dunque, è il “prendersi cura” e il “prendersi a cuore” l’altro. Un testo giudaico aggiunge un’altra importante considerazione: “Non si può praticare l’amore-carità se non ci si innalza dal piano dell’avere a quello dell’essere. Per praticarle bisogna impegnarsi personalmente e la qualità dei rapporti umani è fondamentale” (F. Manns, Les oeuvres de miséricorde dans le quatrième Évangile, in “Bibbia e oriente”, p. 218).

Conclusione

A questo punto non possiamo più chiederci: “chi è il mio prossimo”, ma: “come posso essere prossimo del bisognoso, del fragile o del ferito?”.

Ecco la risposta della parabola. Devi ritenere tuo prossimo chi, in quel momento, necessita di tè; non importa che sia bianco, nero, giallo…. Al suo bisogno devi risponde con l’amore-carità supportato dalla compassione.

Don Gian Maria Comolli