Oggi, in più fonti, si parla di burnout che come lei sa è una condizione di stress legata alla sfera lavorativa; una condizione riconosciuta anche dall’OMS e sembra colpire in grande parte coloro che esercitano le professioni sanitarie. Vista la sua lunga esperienza in ospedale, dal suo profilo mi sembra oltre trent’anni, può specificare l’argomento e soprattutto quali atteggiamenti assumere per evitare questa che ritengo una patologia. Leonardo (da linkedin)
LA RISPOSTA DEL DON
Mentre ringrazio Leonardo della sua fiducia tenterò di esaminare l’argomento in base alla mia esperienza di cappellano ospedaliero e di alcuni approfondimenti che ho fatto.
Ormai da decenni la politica italiana discute sulla costante diminuzione degli operatori sanitari: da 18 milioni nel 2013 a 15 milioni nel 2020, e si prevede che saranno circa 10 milioni entro il 2030 con il rischio dell’abbandono di malati, disabili, anziani… Tante chiacchere ma nulla di concreto! I motivi di queste rinunce sono molteplici: dai stipendi inadeguati ai pensionamenti…; alle conseguenze fisiche e psicologiche del Covid che ha colpito vari operatori con quella sindrome appunto definita del“burnout” a cui si è posta scarsa attenzione.
Cos’è il burnout
Chi opera in sanità è ben consapevole che accostare quotidianamente il sofferente richiede non solo la preparazione professionale ma anche abbondante energia psichica. A volte, però, ci troviamo di fronte a operatori sanitari che mostrano segni di depressione, perdono fiducia nelle loro capacità, diventano passivi, si rifugiano nella routine, il loro senso d’identità professionale e l’autostima sono compromessi, rinunciano alle responsabilità, si disinteressano del loro lavoro e innalzano rigide barriere difensive. Il rapporto con il malato subisce una brusca trasformazione: da un atteggiamento positivo e quasi di tenerezza si passa a uno stile relazionale improntato all’allontanamento e all’indifferenza fredda e impersonale. Questo insieme di vissuti psichici e reazioni comportamentali riguardano appunto la patologia del “burnout” che significa: “bruciato”, “scoppiato”, “esaurito”.
Il termine fu usato per la prima volta nel settore sportivo nel 1930 per indicare l’incapacità di un atleta, dopo alcuni successi, di ottenere ulteriori risultati e/o mantenere quelli acquisiti. Fu poi ripreso dalla psichiatra americana C. Maslach nel 1975 che si avvalse del vocabolo per definire una sindrome (sintomi patologici-comportamentali) presente in alcuni operatori che svolgevano professioni a elevata implicazione relazionale.
Il burnout è una condizione di logorio psicologico, di esaurimento emotivo e professionale, che potrebbe colpire chiunque eserciti professioni dove i rapporti interpersonali sono frequenti ed emotivamente intensi, nei quali è elevata l’implicazione relazionale e la persona è caricata da una duplice fonte di stress: quello personale e quello della persona aiutata. E’ il caso degli operatori sanitari, degli insegnanti, degli educatori, dei volontari…
Il burnout è un esaurimento, un appiattimento, uno spegnimento emozionale. Ne consegue che, se non opportunamente trattati, questi soggetti sviluppano un lento processo di “logoramento” o di “decadenza” psicofisica dovuta alla carenza di energie e di capacità per sostenere, e conseguentemente, scaricare lo stress accumulato.
Gli effetti del burnout non coinvolgono unicamente la vita professionale dell’operatore ma, anche il sofferente, al quale è offerto un trattamento di routine con prestazioni sempre più mediocri e una relazione di fredda indifferenza che generano tensioni e conflittualità.
«Quanti sono i casi di burn out? Tanti, troppi e in continuo aumento. Già diversi anni fa, nel 2001, i dati di uno studio condotto in un Ospedale del centro Italia ottenuti con l’utilizzo di test psicometrici e una check list per misurare i sintomi somatici e psichici relativi allo stress occupazionale, hanno rilevato che il 56% dei medici ospedalieri, il 50% di quelli della medicina generale e il 70% degli infermieri sono “bruciati”, con una netta prevalenza nel gruppo delle donne e dei giovani (per i medici) e delle donne più anziane (per le infermiere). Va inoltre notato che è stata rilevata una tendenza al suicidio nelle donne medico o infermiere al suicidio doppia rispetto alla popolazione femminile di controllo» [cfr. S.E. JANKSON, R.L. SCHWAB, R.S. SCHULER, Toward an Understanding of the Burnout Phenomenon, in Jour. Appl. Psychol, 71 (2016) 4, pp. 630-640].
Un cammino in più tappe
Il burnout, che non esplode da un giorno all’altro, è descritto dalla letteratura come un processo a più fasi.
1.Esaurimento emotivo.
È il periodo seguente le grandi speranze e le immense attese nei confronti della professione quando le difficoltà, le diffidenze e le ostilità non incutevano paura. Ora, trascorrendo il tempo, appaiono i segni della fatica verificando che le aspettative non coincidono con la realtà lavorativa. Ciò si manifesta nel nervosismo e nel disagio e anche nella riduzione dell’efficienza non notando i risultati sperati. Forse, con troppa leggerezza, si aveva idealizzato il sofferente, mentre l’assistito non è scelto ma solo accettato nell’unicità dei suoi bisogni e dei suoi problemi e, a volte, è scarsamente riconoscente. In questa prima fase, l’investimento delle energie psichiche è sempre più gravoso ma i risultati sono insignificanti.
2.Spersonalizzazione.
Poiché la professione non offre le soddisfazioni attese e notando un notevole scarto tra l’ideale e la realtà, si fa strada la sensazione del fallimento e il lavoro è percepito sempre più oppressivo; perciò si attuano strategie difensive. A volte si deteriora anche il benessere fisico e compaiono sintomi psicosomatici (insonnia, ipertensione arteriosa, coliti…) e psicologici (depressione, ansia, oppressione…). I disagi si avvertono dapprima nell’ambito professionale ma poi si trasferiscono sul piano personale (abuso di alcol, uso di sostanze psicoattive e di stupefacenti).
3.Demotivazione.
È la tappa dell’allontanamento emotivo e relazionale dagli altri e dalla attività professionale avendo costatato definitivamente l’impossibilità di realizzare le proprie attese; è la “morte professionale”. Il più delle volte il lavoro prosegue in quell’ ambiente per motivazioni estrinseche ma ricercando compensazioni all’esterno e fughe.
Cause scatenanti il burnout
Le cause che scatenano questa patologia sono varie.
Generali.
1.La più determinante, come già affermato, riguarda l’aspetto relazione e il coinvolgimento emotivo ed emozionale nel rapporto con il sofferente. Un coinvolgimento, a volte, difficoltoso da gestire poichè la relazione diviene sempre più intima ed emotivamente implicante, creando identificazioni e fusioni emotive e, di conseguenza, le difese psicologiche diminuiscono.
2.Il divario tra le richieste e l’effettivo aiuto che l’operatore può offrire.
3.Il sovraccarico di lavoro dovuto alla carenza di personale o turni ripetuti.
4.L’assenza di equità nell’assegnazione dei carichi di lavoro, nelle retribuzioni o nell’attribuzione delle promozioni.
5.I conflitti causati da modelli organizzativi inefficienti.
6.Le labili motivazioni che hanno indotto ad optare per una professione di aiuto e le delusioni rispetto alle aspettative.
7.I valori contrastanti tra quando l’organizzazione proclama ma non concretizza nel quotidiano con condotte incoerenti e con scelte discutibili.
(Per i medici): il quotidiano stressante lavoro burocratico, il timore di denunce, l’attuazione di una “medicina difensiva” per tutelarsi da contenziosi legali.
Personali.
Rischiano maggiormente il burnout le personalità introverse e incapaci di operare in équipe, chi si pone obiettivi irrealistici, chi adotta stili iperattivi o forti abnegazione al lavoro stimato sostitutivo degli aspetti sociali e famigliari.
Socio-demografici.
-Differenza di genere: le donne sono maggiormente predisposte al burnout.
-Età: i primi anni di lavoro risultano quelli più a rischio.
-Stato civile: più colpito è colui che è privo di un partner stabile.
Come prevenire il burnout
In letteratura sono presenti varie strategie preventive; noi ne indichiamo quattro.
1.Conoscersi.
E’ fondamentale la “conoscenza di sé” e il salvaguardare la salute del corpo, della psiche e dello spirito. Per “servire” adeguatamente, l’operatore deve “volersi bene”. Non a caso, nel Vangelo, Gesù Cristo afferma: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lc. 10,27).
2.Addestrarsi a lavorare meglio.
Uno strumento è la “formazione permanente” che supporta l’operatore nel gestire correttamente le molteplici situazioni e lo induce ad operare fruttuosamente con gli altri.
3.Relazionarsi empaticamente senza scordare il “come se”.
Dialogare empaticamente con il malato è importante ma senza identificarsi totalmente nel suo problema e non rinunciando alle proprie ricchezze emotive. Consigliava C. Rogers, psicologo statunitense noto per i suoi studi sul counseling e la psicoterapia: «Sentire il mondo più intimo dei valori personali dell’altro come se fosse proprio, senza però mai perdere la qualità del “come se”, è empatia. Sentire la sua confusione, o la sua timidezza, o la sua ira, o il suo sentimento di essere trattato ingiustamente come se fossero propri, senza tuttavia che la propria paura, o il proprio sospetto si confondano con i suoi, questa è la condizione che sto cercando di descrivere e che ritengo essenziali per instaurare un rapporto produttivo» (K. ROGERS, La terapia centrata sul cliente, Martinelli, Firenze 1970, pg. 92).
4.Ponderare seriamente questa sindrome.
Individuare un operatore sofferente di burnout è difficoltoso, poiché spesso si tende a reputare la situazione di malessere riconducibile a problemi dell’individuo svincolati dal contesto lavorativo. Ma, chi si riconosce vittima del burnout, lo deve ammettere superando la colpevolezza dovuta alla debolezza o anche la vergogna della rinuncia e della sconfitta.
Don Gian Maria Comolli