I NOVISSIMI (2) – La morte

By 13 Aprile 2018Pillole di saggezza

Il primo Novissimo proposto dalla Dottrina della Chiesa Cattolica riguarda “la morte”.

Premessa
La nascita, la crescita e la morte formano un trinomio inscindibile essendo momenti costitutivi della persona che dovrebbe acquisire sia “l’ars vivendi” che “l’ars moriendi” così descritta da H. Nouwen: “La gente muore. Non solo i pochi che conosco, ma innumerevoli persone, ovunque, ogni giorno, ogni ora. Morire è l’evento umano più naturale, qualcosa che tutti dobbiamo sperimentare. Ma moriamo bene? La nostra morte è qualcosa di più di un destino inevitabile, qualcosa che semplicemente non vorremmo esistesse. Ma può diventare in qualche modo l’atto di una realizzazione, forse più umana di ogni altro atto umano”(1). Però, quando l’uomo, “non sa più guardare alla propria morte, e mettersi in rapporto con ciò che giace oltre lo spazio e il tempo della sua esistenza, perde il desiderio di creare e l’eccitazione di essere uomo”(2). Dunque, la morte, dovrebbe costituire un momento altamente significativo ed espressivo della vita.

La morte nel contesto contemporaneo
Della morte è arduo parlarne: ricorda la finitezza e la caducità, incute paura, provoca terrore, suscita pudori in continua crescita non essendo controllabile. J. Baudrillard affermava: “Al giorno d’oggi non è normale essere morti (…). Essere morti è un’anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile”(3). Inoltre, il contesto societario, diffida di trattare il tema come ogni altro argomento, o meglio di accogliere la morte come il naturale compimento della persona; perciò si muore peggio che in passato!
Da fatto biologico, da “sorella” con la quale convivere è stata trasformata in nemico da combattere, mostro da esorcizzare, fatto da negare, anche se poi, in varie circostanze, invade i massmedia, ed è presentata nei talk show e nei film come spettacolarizzazione banalizzata, dove il rispetto e la riverenza sono assenti. La morte si è trasformata nel “tabù” degli ultimi decenni del XX secolo e dei primi del XXI. Sembra “che l’antico divieto sociale di parlare di sesso e di funzioni genitali si è oggi spostato sulla morte e sui morti, tanto che G. Gorer parla di ‘pornografia della morte’ (The Pornography of death, è il titolo della sua opera)”(4). Concetto ripreso anche da P. Ariès: “oggi sembra che ci si vergogni a parlare di morte, come una volta ci si vergognava a parlare di sesso e dei suoi piaceri”(5).
Oggi, dunque, si vive come se non si dovesse morire mai! La vita è sradicata dalla morte; tutto ci distrae da quest’idea, e di conseguenza la visione che ha estromesso la morte dalla quotidianità, ha fatto smarrire anche la capacità di “accompagnare il prossimo alla morte”.
Da evento gestito nell’ambito familiare e comunitario, dove la persona terminava la vita nel proprio letto, affidava le sue ultime volontà, riceveva i sacramenti e si consegnava con fiducia a Dio per compiere una “buona morte”, è divenuto un avvenimento anonimo da relegare in spazi artificiali, in ambienti specialistici per “scomparire in silenzio”, lontano dalla quotidianità, nell’ impersonale stanza d’ospedale o nella “casa di riposo” (RSA) per non turbante l’equilibrio delle persone. Quasi si elogia chi “se n’è andato rapidamente senza disturbare nessuno”, facendo una “bella morte”, descritta da R. Rémond, come quella che “sopraggiunge all’improvviso, che vi porta via di sorpresa come un ladro e vi risparmia la sofferenza, la decadenza fisica e mentale e il timore dell’ultima ora”(6) . Poi, sono state ideate prevalentemente nelle grandi città, le “case funebri” dove esporre la salma, affinché la società non sia turbata da quest’ “anomalia inaccettabile”.
E anche quando si visitano le spoglie mortali si esprimono attestati di stima per lo scomparso, ma pochi s’interrogano del suo futuro.
La morte, dunque, è stata “privatizzata” poiché questa dovrebbe coinvolgere unicamente i famigliari del defunto. E, di conseguenza, si predispongono vari accorgimenti affinché scorra inosservata e velocemente: niente rintocchi di campane a lutto o necrologi murali, nessun corteo funebre al cui passaggio, nel passato, ci si toglieva rispettosamente il cappello, basta abiti appropriati al lutto per non adottare un atteggiamento dissimile da quello di tutti gli altri giorni. E, no, al culto della memoria e alle lacrime definite da Ariès come “le escrezioni del malato e le urine; le une e le altre sono ripugnanti” (7) .
Le difese più comuni sono quelle di “negare, rimuovere, dimenticare. Sembrano le uniche modalità per combattere l’angoscia di morte propria di questa società, di queste città che sono come grandi cimiteri, sotto la luna, di uomini morti, o uomini che devono morire e che molto spesso hanno nessuna o poca speranza in una loro personale vita eterna”(8). Rammentava il filosofo B. Pascal: “gli uomini non avendo potuto liberarsi dalla morte, dall’ignoranza e dalla miseria, hanno deciso per essere felici di non pensarci”(9).
Pure negli ospedali il vocabolo “morte” è sussurrato sottovoce, sostituendolo con il termine “exitum”. La medicina, che spesso non riconosce i propri limiti, ha trasformato la visione della morte, e anche il medico, quando si dissolvono le speranze, tende spesso a “passare la mano”, ad esempio, diradando le visite. E’ stato verificato che se in un reparto suonano contemporaneamente due campanelli, quello di un ammalato ordinario e quello di un morente, l’operatore sanitario istintivamente risponde per primo a quello del paziente comune. Ovviamente, anche nel passato, la morte procurava timori ma per ragioni opposte alle attuali: ieri la paura era suscitata dal giudizio di Dio, oggi dalla sua dimenticanza!

La morte nel vissuto personale
La morte, abbiamo affermato, mostra l’instabilità e la precarietà dei nostri giorni! Vari autori sostengono che l’atteggiamento che si assume d’innanzi alla morte trae origine principalmente dal comportamento tenuto nell’ esistenza; infatti, ogni considerazione sulla morte, richiama una determinata visione della quotidianità vissuta.
In latino i verbi “nascere” e “morire” sono deponenti, cioè assumono “forma passiva” e “significato attivo”. La “forma passiva” indica un evento indipendente dalla scelta personale, il “significato attivo” mostra che il fatto ha l’accezione che noi gli attribuiamo. Perciò notiamo due atteggiamenti divergenti.
“Il primo” è adeguatamente riassunto nella “Leggenda di Samarcanda”. “C’era una volta un uomo che non voleva morire. Era un uomo di Isfahan. E una sera quest’uomo vide la Morte che lo aspettava seduta sulla sedia di casa. ‘Cosa vuoi da me?’ gridò I’uomo. E la Morte: ‘Sono venuta a…’. L’uomo non le lasciò completare la frase, saltò su un cavallo e a briglia sciolta fuggì in direzione di Samarcanda. Galoppò tre giorni e tre notti, senza fermarsi mai, e all’alba del terzo giorno giunse a Samarcanda. Qui, sicuro che la Morte avesse perso le sue tracce, scese da cavallo, e si mise in cerca di un alloggio. Ma quando entrò in camera trovò che la Morte lo aspettava seduta sul letto. La Morte si alzò, gli andò incontro e gli disse: ‘Sono felice che tu sia arrivato e in tempo, temevo che ci perdessimo, che tu andassi da un’altra parte o che tu arrivassi in ritardo. A Isfahan non mi lasciasti parlare. Ero venuta a Isfahan per avvisarti che ti davo appuntamento all’alba del terzo giorno nella camera di quest’albergo, qui a Samarcanda’ ” (10).
G. Ancona, che riporta la leggenda nell’ introduzione ad un suo libro, così commenta: “Suggestione e realismo s’intrecciano nella leggenda di Samarcanda che rappresenta nell’essenza il paradigma di un incontro ineludibile: l’uomo e la morte. Per quanto, infatti, ci sforziamo di non pensarla o fuggirla, la morte è sempre lì ad attenderci…”(11). Inoltre, la secolarizzazione e la laicizzazione della società hanno reso maggiormente ostico l’argomento, poiché la maggioranza dei nostri contemporanei fatica a comprendere un destino di “uomini risorti” spiritualmente e corporalmente, mentre, nel passato, quando la religione cristiana, che ha come fondamento la risurrezione del Signore Gesù(12), era maggiormente vissuta e praticata, questa era un indubbio riferimento.
“Il secondo” atteggiamento è di profferire alla morte un “significato pienamente esistenziale” come afferma il cristianesimo che autorizza il credente a giustificare la morte come parte integrante di un cammino infinitamente più vasto. Essa, non annulla la persona, ma la trasfigura mediante il perdurare dell’esistenza in tempi e in condizioni mutati rispetto agli attuali. Chi è convinto di ciò organizza saggiamente la quotidianità sostenuto da valori, sentimenti e progetti che oltrepassano il terreno, realizzando esperienze arricchenti e rinunciando a quelle banali e negative.
Per profferire un significato pienamente esistenziale alla morte, il credente, la deve accogliere e accettare come parte integrante della vita, poiché non annulla la persona ma unicamente la trasforma e la trasfigura.
Inoltre, il Signore Gesù, con la sua risurrezione ha insegnato che a seguito della morte, l’esistenza di ogni uomo proseguirà nell’eternità in comunione con Dio. In Cristo, rammentava san Paolo, “tutti riceveranno la vita (eterna)” (Cor. 15,22), essendo il Signore Gesù la “primizia di coloro che sono morti” (Cor. 15,20). Da ultimo ricordiamo che un evento, quello della morte, si contrappone a un altro avvenimento, quello della risurrezione. Il filosofo russo J. Solov’ev rammentava che la morte è “un fatto”, e nei confronti dei fatti, nessuna filosofia, ideologia e illusione estetica resiste(13). A una realtà, unicamente un altro evento, può opporsi con successo.

Conclusione
Il cristiano, possiede nella Risurrezione di Cristo, l’avvenimento che lo sostiene nei confronti della morte che rimane, pur sempre, un mistero ed un “passaggio” doloroso. Per questo, la morte, è spesso circondata dal timore. Anche il Signore Gesù, incarnandosi, ha sperimentato l’autentica esperienza della morte; come ha reagito? Nel Getsemani ebbe paura e fu assalito da attacchi di panico evidenziati dalla sudorazione “tinta di sangue” che scientificamente assume l’appellativo di “hematidrosis”, quando a seguito di una consistente tensione emotiva i capillari più piccoli possono rompersi e il sudore assume il colore del sangue (cfr. Lc. 22,39-46), ma immediatamente reagì rivolgendosi al Padre: “Tuttavia non sia fatta la mia ma la tua volontà” (Lc. 22,42b). Questo mostra che il Cristianesimo, pur offrendo dei chiarimenti sulla morte, ne legittima il timore ma non la disperazione.
Unicamente riconciliandoci con la nostra morte, con quella che san Francesco d’Assisi definiva “sorella”, potremo vivere un’esistenza totalmente realizzante.

Don Gian Maria Comolli

(seconda continua)

NOTE
1.H. NOUWEN, Il dono del compimento, Queriniana, Brescia 1995, pg. 12.
2.H. NOUWEN, Il guaritore ferito, Queriniana, Brescia 1982, pg. 18.
3.J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2007, pg. 89.
4.D. TETTAMANZI, Nuova bioetica cristiana, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2000, pg. 534.
5.P. ARIES, Storia della morte in occidente, Rizzoli, Milano 1998, pg. 184.
6.R. REMOND, Il nuovo anticristianesimo, Lindau, Torino 2007, pg. 16.
7.Storia della morte in occidente, op. cit., pg. 69.
8.S. ACQUAVIVA, Eros, morte e esperienza religiosa, LaTerza, Bari 1990, pg. 160.
9.B. PASCAL, Pensiero, n. 250.
10. G. ANCONA, La morte. Teologia e catechesi, Paoline, Cinisello Balsamo – Mi, 1993, pg. 2.
11. La morte. Teologia e catechesi, op.cit., pg. 6.
12.“Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede” (Cor. 15,14).
13.Cfr. J. SOLOV’VE, Sulla divino-umanità e altri scritti, Jaca Book, Milano 1990, pp. 88-89.