Le Dat sono la via italiana all’eutanasia

By 13 Settembre 2018Articoli Bioetica 2018

Dovrebbe essere chiaro che cosa succede quando non riconosciamo più la sacralità della vita: con questa legge avremo anche in Italia i nostri Charlie e Alfie.

Gentile direttore,
ho recentemente assistito all’incontro “Dat – Disposizioni anticipate di trattamento. Di cosa stiamo parlando?” che si è tenuto al Meeting di Rimini il 23 agosto scorso e vorrei fare alcune osservazioni.

Merita di essere riletto e meditato l’intervento del dottor Emanuele Catena, direttore Uoc di Anestesia e rianimazione dell’ospedale Luigi Sacco di Milano, tra l’altro l’unico relatore veramente “sul campo”, che ha fornito tutti gli elementi per potere giudicare “di cosa stiamo parlando”. Mi ha invece lasciato perplessa l’intervento di Monica Calamai, direttore della direzione Diritti di cittadinanza e coesione sociale della Regione Toscana, il cui senso si potrebbe sintetizzare così: «Tranquilli, noi in Toscana avremo il registro elettronico e tutte le informazioni per redigere le nostre Dat personali, che saranno sempre aggiornabili perché la Regione ci terrà aggiornati trasmettendoci continuamente “avvisi” che ci permetteranno di “riformare”, se lo giudichiamo opportuno, le nostre Dat».

A mio avviso ci sono due questioni fondamentali che al Meeting, dove ho visitato la bellissima mostra su Giobbe, non sono emerse dall’incontro. La prima riguarda il fatto che non possiamo nasconderci che le Dat sono la via italiana all’eutanasia. Negli ultimi mesi ho avuto l’occasione di partecipare come relatrice a incontri pubblici con membri dell’associazione Luca Coscioni, e ho dialogato con Mina Welby e con gli avvocati dell’associazione. Mi hanno documentato come alcuni articoli della nuova legge altro non siano che la trasposizione normativa di contenuti delle sentenze pronunciate da alcuni giudici nei casi Welby ed Englaro. C’è una continuità fra le campagne di opinione dell’associazione Coscioni e annessi, le sentenze sui casi più famosi, il testo della legge che è stata approvata, grazie all’appoggio di gran parte delle forze politiche che hanno sostenuto i governi Renzi e Gentiloni. Soprattutto per quanto riguarda i due punti cruciali del provvedimento: il consenso informato e i termini per la revoca del consenso, e il fatto di considerare nutrizione e idratazione come terapie.

La seconda questione riguarda l’obiezione di coscienza, di cui all’incontro del Meeting di Rimini non si è fatta parola.
Se riconosciamo la libertà di poter decidere della propria vita e morte al paziente, se consideriamo «valore assoluto la propria autodeterminazione», come ha detto qualcuno durante l’incontro (ma il popolo del Meeting è stato educato a riconoscere come fattore costitutivo dell’uomo la dipendenza), la stessa libertà andrebbe riconosciuta al medico: dovrebbe essergli consentito di lavorare e svolgere la propria professione al servizio della vita. Dunque di obiettare a certe Dat.

Mi permetto di dire che a noi popolo del Meeting dovrebbe essere chiaro cosa succede quando non riconosciamo più la sacralità della vita: questa legge rappresenta la premessa perché anche in Italia possa succedere ciò che è successo nel Regno Unito con Charlie, Alfie e tanti altri bambini. Addirittura senza ricorrere nemmeno ai giudici: basterà la decisione dei medici condivisa dai genitori o tutori del minore.

La vita è mistero di Dio che si comunica, e questa convinzione che fa da base a una civiltà è ciò che il cristianesimo ha portato nella storia: nessun uomo, fosse pure un giudice o un medico, può disporre di questo valore. Come ha detto monsignor Luigi Negri nel corso di un incontro di cui anche Tempi ha riferito, «la dignità della vita non dipende da niente altro che non sia il suo stesso mistero, e il mistero che è comunica la presenza di Dio che la fa essere. Spostare il criterio di valore dal mistero alla qualità della vita è operazione ideologica e ateistica».

Al Meeting ho visitato la bellissima mostra su Giobbe, intitolata “C’è qualcuno che ascolta il mio grido?”. La mostra inizia con un grosso macigno nella prima stanza, che rappresenta il mistero del dolore e della sofferenza dell’uomo, e si conclude nell’ultima stanza con lo stesso macigno sorretto dalla croce di Cristo. Fra i testi riprodotti sui pannelli mi ha colpito uno tratto dal libro Vita di Giussani di Alberto Savorana: «Apro il portellino del confessionale e una signora – molto dignitosa nel modo in cui parlava –, dopo un po’ di silenzio, mi disse: “Padre, io bestemmio”. Io, giovanissimo prete, ho detto qualche parola di incitamento al bene, generica. Lei disse: “Io non posso non bestemmiare”. Beh, qui non era più necessario essere vecchio prete; bastava essere giovane uomo per dire: “No, adesso esagera”. “Mi è morto il marito due anni fa. Avevo due figli. Uno è impazzito per la morte del padre e, impazzito, ha ucciso il fratello. Adesso è al manicomio giudiziario di Bologna. Così mi sono trovata improvvisamente sola”. Dopo un momento di impaccio, perché non sa proprio che cosa dirle, Giussani le rivolge un invito: “Senta, […] adesso si alzi, si sieda lì davanti, guardi quel crocefisso: se ha da dire qualcosa, glielo dica”. La donna non va più via, e lui non sa più che cosa fare fino a quando, a un certo punto, si sente dire: “Ha ragione”».

È suggestivo che in ebraico “speranza” si dica Tikvà, una parola che indica “corda”, “filo”. Sperare significa pensare che una corda mette in relazione il mio essere con qualcun altro, che un filo lega gli avvenimenti apparentemente caotici, drammatici, dolorosi che avvengono nel mondo, e tutto ciò è reso possibile dalla croce, morte e resurrezione di Cristo. Noi popolo del Meeting dobbiamo continuare a dire a tutti che solo con la croce di Cristo il dolore umano può essere accompagnato. A noi il compito di fare compagnia all’uomo sofferente, di offrire la Speranza e affermare con decisione che nessuno può “essere padrone “ della vita.

Giuliana Ruggieri

Tempi.it, 28 agosto 2018