Faccia a faccia con la morte rimossa

By 3 Maggio 2019Attualità

Racconta il filosofo tedesco Jürgen Habermas che, quando morì, Max Frisch, lo scrittore e architetto svizzero suo amico, volle che si tenesse una cerimonia religiosa in una cappella protestante di Zurigo, sebbene fosse non credente. Eravamo nel 1991. Allo stesso modo quando ci lasciò Jorge Luis Borges, curiosamente sempre in Svizzera ed esattamente cinque anni prima, ottenne di essere sepolto nel cimitero di Plainpalais, riservato alle personalità elvetiche, dato che lo scrittore argentino considerava Ginevra la sua seconda patria. Nell’occasione, in ricordo delle sue due nonne, una cattolica e l’altra protestante, un sacerdote e un pastore tennero l’orazione funebre.

Si tratta di due episodi che risalgono a circa trent’anni fa e che sono emblematici del rapporto dell’uomo contemporaneo con la morte. L’ateo Frisch e l’agnostico Borges mostrarono un’apertura al mistero che circonda l’esistenza, compresa la fase finale, che oggi probabilmente sorprenderebbe. Come diceva il sociologo Norbert Elias in un saggio divenuto giustamente famoso, La solitudine del morente (in Italia pubblicato dal Mulino nel 1985), la modernità ha trasformato la morte in un fatto privato, di fronte a cui si prova disagio e che si preferisce rimuovere al più presto. Facendo venir meno quella solidarietà verso chi sta per abbandonare la vita che era caratteristica fondamentale del Medioevo, epoca in cui la morte era un fatto familiare, vicino e per così dire attenuato, reso morbido e verso il quale si esprimeva partecipazione e non indifferenza. Naturalmente, ciò non significa affatto che la morte fosse più pacifica, anzi era sin troppo esibita, nei suoi aspetti selvaggi e crudeli.

Fenomeno che a noi capita quando accadono cruenti fatti di cronaca o tragedie che ci lasciano sgomenti, come accadde a Vermicino o più recentemente a Rigopiano, con i rischi di spettacolarizzazione e morbosità che ben conosciamo. Ma leggiamo cosa scriveva Elias, studioso di origine ebraica costretto negli anni Trenta del Novecento a lasciare la Germania per sfuggire alle persecuzioni naziste: «Strettamente connesso alla rimozione della morte dalla vita sociale e alla conseguente dissimulazione della morte – soprattutto davanti ai bambini – è poi l’imbarazzo che si trova di fronte al moribondo. Spesso non si sa cosa dire: le frasi d’uso per tale situazione sono relativamente scarse e un sentimento d’imbarazzo impedisce di parlare: per il moribondo questa può essere un’esperienza amarissima: ancor vivo, è già abbandonato». È una situazione che ci è capitato spesso di toccare con mano: al cospetto della morte siamo spaesati e l’unica risposta possibile ci pare il silenzio.

Se c’è una disciplina che nel secolo scorso e anche negli ultimi decenni ha cercato di remare controcorrente rispetto alla dimenticanza della morte è certamente la filosofia: ce lo ricorda lo studioso Carlo Scilironi, docente di Filosofia teoretica e pensiero teologico all’Università di Padova, nel suo libro Note intorno al problema della morte (Cleup, pagine 176, euro 18). Egli affronta la questione ripercorrendo le posizioni del mondo antico e di quello biblico e cristiano per giungere appunto ai nostri giorni dove, scrive, «si assiste in un certo senso ad un’inversione delle parti: allorché il morire era ciò in presenza di cui si stava apertamente, onere della filosofia era mitigarne la vista per rendere possibile la vita; oggi che il morire è rimosso, alla filosofia sembra competere l’opposto compito di aprire gli occhi sull’ombra della Gorgone che ineluttabile accompagna l’esistere». Il pensiero contemporaneo si è imposto il compito di un’assunzione radicale del problema della morte. Pensiamo a quanto scrive Franz Rosenzweig: «Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto». Oppure a Max Scheler, che vede la causa della cancellazione della morte nella mentalità scientista dell’uomo moderno: si prende in considerazione solo ciò che è calcolabile, tutto il resto diviene evanescente e perciò da radiare dall’orizzonte del pensiero. Nel volume vengono poi accostate le riflessioni di Jaspers, Heidegger, Sartre, Bloch, Jankelevitch, Lévinas e Derrida. Lévinas in particolare riconosce nella morte «il vero altro», in cui è racchiuso il mistero della relazione con la trascendenza, mentre Derrida invita a «fare della morte un dono» aprendosi in tal modo al cristianesimo.

La lezione dei filosofi contemporanei di fronte alla morte consiste per Scilironi nella «custodia della finitezza umana», in quello scarto fra sapere e verità che è testimoniato dal riconoscimento dell’altro. Che la morte fra i nostri contemporanei goda di cattiva reputazione è anche l’assunto di un altro volume edito da Queriniana e scritto dal filosofo Robert Redeker (L’eclissi della morte; pagine 216, euro 18). Per l’autore è in atto un vero e proprio processo di disumanizzazione, che si svela nel tentativo di fare dell’uomo un essere senza preoccupazioni, liberato dall’angoscia e da ogni senso del tragico. I morti sono imbarazzanti e dobbiamo liberarcene al più presto. Di qui secondo Redeker il boom della pratica della cremazione, il cui risultato è l’emergere di una civiltà senza cadaveri: «È perché noi rivendichiamo la civiltà del culto del corpo – religiosità da quattro soldi che permea lo sport, la moda, lo spettacolo – che aspiriamo a diventare una civiltà senza cadaveri. È che il cadavere, nel suo squallore, insulta l’oggetto di questa nuova idolatria».

L’esito di questo fenomeno è un mondo che rifiuta i cimiteri e i sepolcri. L’occultamento della morte, anche in questo caso, passa attraverso la sua privatizzazione: da evento pubblico viene sospinta nell’intimo della sfera privata. Il colmo è che a tutto ciò fa da contrappeso l’immortalità in versione transumanista, in cui l’uomo diventa indefinitamente riparabile, il suo corpo composto da protesi, i suoi organi sostituibili come pezzi di ricambio. Ma anche questo sogno di vincere il nostro essere mortali grazie alle meraviglie della tecnica si rivela «un tecnicismo dalla più sconcertante ingenuità ». Per questo secondo lo studioso francese docente al Cnrs occorre riappropriarsi, proprio come suggerisce Derrida, della dimensione del dono: «Nel morire, noi ci doniamo abbandonandoci mentre consegniamo l’eredità a coloro che ci sopravvivono. Senza la morte, il dono non sarebbe mai entrato nel mondo».

Roberto Righetto

in “Avvenire” del 16 aprile 2019