Reduci dell’Isis pronti a tornare. A casa nostra

By 21 Novembre 2019Attualità

Il rischio fughe di massa dei foreign fighters che vogliono rientrare in Europa è sempre più reale. E non c’è tribunale o legislazione di emergenza che possa fermarli.

Sono cinquemila, siriani, iracheni, ma anche inglesi, francesi tedeschi, indossano tute arancioni, giacciono ammassati sul pavimento, occupandone ogni singolo centimetro. L’agenzia AFP ha avuto accesso a una prigione della provincia Hasakeh, una delle strutture, scuole ed ex edifici governativi, del nord-est siriano in cui le forze curde hanno recluso oltre dodicimila sospetti affiliati dello Stato Islamico. Un reportage agghiacciante che se da una parte sottolinea le condizioni disperate e inumane dei detenuti, dall’altra riapre il nodo dei rimpatri dei foreign fighters e delle responsabilità della comunità internazionale più volte richiamata da Donald Trump:

«Gli Stati Uniti stanno chiedendo a Gran Bretagna, Francia, Germania e ad altri alleati europei di prendersi indietro più di 800 combattenti dell’Isis che abbiamo catturato in Siria e processato. Non vogliamo vedere questi combattenti dell’Isis spargersi per l’Europa. Noi abbiamo fatto così tanto e speso così tanto. È il momento che intervengano gli altri e facciano il lavoro che sono così capaci di fare. Noi ci ritiriamo dopo la vittoria al 100 per cento sul Califfato».

JIHADISTI PELLE E OSSA

Un’emergenza esplosa a livello di numeri (e costi esorbitanti) dopo la sconfitta territoriale dell’Isis a Baghuz nel marzo scorso, quando migliaia di combattenti mutilati e zoppicanti si sono arresi ai curdi per venire deportati e rinchiusi nei campi di prigionia. Molti di loro sono poco più che ragazzi, non sanno che Abu Bakr al-Baghdadi è appena stato ucciso, vivono attorno a una latrina pregando Allah cinque volte al giorno, ignari di cosa resti del Califfato che secondo le accuse ciascuno di loro ha servito partecipando a esecuzioni di massa, stupri e torture. Molti dei prigionieri sono ridotti a pelle e ossa. I più fortunati hanno un letto su cui sdraiarsi, ma la maggior parte di loro si siede sul pavimento, con arti amputati e ferite bendate. Le celle così sovraffollate che le guardie sono riluttanti ad aprire le porte.

«VOGLIO TORNARE IN GRAN BRETAGNA»

«Voglio lasciare la prigione e tornare a casa dalla mia famiglia», dice all’AFP Aseel Mathan, 22 anni, che quando ne aveva solo 17 lasciò il Galles per unirsi ai combattenti di Mosul, già raggiunti dal fratello. «Voglio tornare in Gran Bretagna», ripete maledicendo il giorno in cui ha risposto alla chiamata alle armi emessa nel 2014 da al-Baghdadi. Secondo le forze curde i prigionieri rappresentano oltre 50 nazionalità, e provengono da paesi che non li vogliono liberi ma nemmeno li rivogliono indietro. Dalla Francia alla Tunisia, si teme che il rimpatrio dei foreign fighters addestrati in Iraq e Siria rappresenti un’oggettiva minaccia sicurezza nazionale, scatenando la reazione pubblica, e che i governi non dispongano di strumenti legislativi adeguati a giudicarli né di tribunali capaci di comminare condanne esemplari a chi si è reso complice dei crimini perpetrati dagli jihadisti.

«FUGGIRANNO IN EUROPA»

Ora però l’invasione turca nel Kuristan siriano, dopo il via libera americano, potrebbe fare implodere la situazione: dopo il bombardamento di un centro di detenzione si temono evasioni, fughe di massa dei guerriglieri, si teme la ricostruzione dell’Is che si credeva sconfitto. Ankara non ha interesse né i mezzi per occuparsi della situazione come auspicato da Trump, che in seguito allo scoppio delle prime rivolte nei centri di detenzione, a domanda sul rischio di fuga dei foreign fighters, ha risposto: «Fuggiranno in Europa. Quella è la loro casa ed è lì che vogliono andare». Aveva ragione: un mese fa nel centro visitato dall’AFP un detenuto ha finto un malore attirando le guardie in cella dove sono state attaccate dai detenuti. E nessuno nega, una volta libero, di voler far ritorno in patria.

I CUCCIOLI, IL RAGAZZO BELGA, L’UOMO EGIZIANO

C’è anche la cella dei bambini, i “cuccioli del califfato”. Molti di loro sono stati rimpatriati, del destino dei più grandi invece non si sa ancora nulla. Un terzo di loro è malato di epatite, Aids, Aballah Nooman, un belga di 24 anni, mostra una ferita aperta e gli organi collassati dopo essere stato colpito accidentalmente da un compagno. Bassem Abdel Azim, un egiziano di 42 anni, è stato ferito in un attacco aereo e zoppica. Racconta di aver condotto la moglie nel Califfato promettendole una vacanza in Turchia. Non sa ora dove si trovi insieme ai suoi cinque figli, «vorrei vederla di nuovo. Dopo di che potranno impiccarmi, voglio solo dirle che mi dispiace di averli portati in un paese in guerra».

«SERVE UNA NORIMBERGA EUROPEA»

Processare i terroristi islamici partiti per unirsi all’Isis e che ora vogliono tornare a casa perché il Califfato è stato spazzato non è però così semplice. Come ha più volte spiegato Gian Micalessin sul Giornale.

«L’unica soluzione è allestire una sorta di nuovo Tribunale di Norimberga su base europea. Prima ancora di giudicare e condannare i colpevoli degli orrori dell’Isis è necessario interrogarli a fondo per far luce sulle cellule con cui collaboravano e individuare i complici che possono esser nel frattempo rientrati in Europa. Solo così potremo dire di aver vinto la guerra all’Isis, ripulito le città europee e aver reso giustizia a chi è caduto sotto i colpi di quei fanatici».

L’ipotesi che i foreign fighters fossero processati da un Tribunale internazionale, sulla falsariga di quello che a Norimberga nel secondo dopoguerra ha processato i criminali nazisti, è stata avanzata anche dai curdi, tentativo vanificato in seguito all’offensiva turca autorizzata a massacrare le milizie che, all’interno delle Forze democratiche siriane, sono state fondamentali nella sconfitta dell’Isis nel paese mediorientale. Lo scorso anno il Regno Unito ha deciso di usare il pugno duro e di non rimpatriare, salvo casi eccezionali, i jihadisti. La Germania ha promesso una valutazione caso per caso alternando una linea rigida a una morbida, in base ai nuovi regolamenti approvati.

L’ALLERTA IN ITALIA

Per la Francia, che dal 2015 ha subito attacchi terroristici con centinaia di vittime, si era espresso il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian: «Non ci sarà ritorno. La posizione della Francia è chiara fin dal principio. I francesi che hanno combattuto nei ranghi dell’Isis, hanno combattuto contro la Francia. Sono dunque dei nemici». In Italia intelligence e antiterrorismo italiani hanno dichiarato di seguire con la “massima attenzione” gli sviluppi della crisi siriana: cinque gli italiani sotto osservazione, tra cui le tre lady Jihad che da tempo chiedono di tornare in patria assicurando di essersi pentite. Nel caso venissero rimpatriati, i foreign fighter sarebbero destinati ad almeno dieci anni di carcere in strutture di sicurezza, per evitare che radicalizzino altri detenuti. Dati Dap, oggi sono già 242 i soggetti considerati a rischio, divisi nelle quattro carceri di Bancali (Sassari), Nuoro, Rossano Calabro (Cosenza) e Asti.

QUALI ALTERNATIVE ALLA GUANTANAMO EUROPEA?

I numeri esigui dei foreign fighter italiani – poco più di 140 quelli partiti dal paese per unirsi alle formazioni jihadiste, di cui 50 deceduti in battaglia – non cancellano certo il problema: chiunque tra le migliaia di persone detenute riesca a fuggire dai campi potrebbe entrare nel nostro paese, molte, come dimostra il reportage dell’AFP rientreranno in Europa. Cosa accadrà quando scapperanno o i curdi li rimetteranno in libertà? Come conciliare le litanie sulla Guantanamo europea accollata ai curdi con la guerra santa dichiarata all’Occidente di cui sono accusati i detenuti di origine europea? Cosa impedisce, come ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere della sera  di attuare una «legislazione di emergenza» che impedisca ai foreign fighters di riprendere la propria guerra in casa nostra?

«Sarebbe interessante capire se e quanto, nell’incapacità degli europei di fronteggiare unitariamente ed efficacemente il problema, abbia pesato e pesi l’ottusa ideologia del politicamente corretto. Non è “corretto”, è forse nient’altro che “islamofobia”, bollare come criminali di guerra gli ex combattenti dello Stato islamico e perseguirli di conseguenza?».

Ancora una volta sarebbe superfluo far notare che se solo un pugno di questi reduci entrasse in azione in Europa, i morti si conterebbero a centinaia. E se non spetta a un tribunale speciale, una legislazione d’emergenza, tentare di fermarli, quali sono le alternative?

Caterina Giojelli

31 ottobre 2019

Reduci dell’Isis pronti a tornare. A casa nostra