WWW.CORRIERE.IT – Coronavirus, il dramma di Cremona dietro a 16 volti. «Noi, che abbiamo visto in faccia il mostro»

By 27 Maggio 2020Coronavirus

Da Alessandra, che ha partorito durante i giorni più drammatici a Miguel, il fotoreporter che ha ritratto la camera di fronte alla morte. Storie di uomini e donne che hanno gravitato attorno all’ospedale di una delle città più colpite dal virus. E che sono sopravvissuti

Volti stanchi, volti segnati, sguardi di donne e uomini sul campo. Sguardi dalla prima linea di Cremona e dalla sua provincia, quella più colpita per numero di abitanti, a quasi cento giorni dalla prima sirena d’ambulanza che ha rotto il silenzio in città, il primo paziente intubato in terapia intensiva. La prima vittima all’Ospedale Maggiore che sarà il terzo caduto d’Italia. Quelle parole: «Il pronto soccorso pieno: è l’inizio della fine», gridate da un medico in guardia notturna il 23 febbraio. Le immagini scolpite nelle menti: l’operatore sanitario che corre per le corsie trasportando il quinto paziente da intubare. L’infermiera che fa i tamponi alla gente e intanto ascolta le loro storie, il primo giornalista che varca la soglia della rianimazione, l’operatore che prende la sala gessi e ne fa una terapia intensiva a cielo aperto. Il fotografo che si copre gli occhi di fronte alle bare accatastate in Chiesa. Il dottore, la segretaria, il barelliere che assiste all’ultimo saluto di un padre al figlio mentre si chiudono i portelloni dell’ambulanza. Una madre che arriva in ospedale e dà alla luce sua figlia fra i pazienti Covid. Gli occhi del reparto che all’improvviso si illuminano. La gioia e il dolore. Quel che resta sui volti di chi ce l’ha fatta. Cento giorni dopo. @e_galletti

Alessandra Pedroni neo mamma

All’inizio dell’emergenza, tutti i piani dell’ospedale di Cremona sono stati trasformati in reparti Covid. Le sale operatorie sono diventate terapie intensive, le corsie ospitavano i letti dei ricoverati in sovrannumero. Solo un reparto è rimasto intatto: ostetricia. È lì che Alessandra Pedroni, bancaria, ha dato alla luce la sua bimba a inizio marzo, nei giorni più critici dell’emergenza. «Ero stesa nel mio letto e pensavo che ovunque, in quelle stanze non lontane dalla mia, c’erano centinaia di persone che lottavano tra la vita e la morte: una sensazione strana che mi ha accompagnato durante le ultime ore di gravidanza». Il 1 marzo, la notizia più bella. «La mia Elisa è venuta al mondo con un pianto fortissimo». Erano le tre del mattino. «Le ricordo quelle lacrime, hanno dato conforto a tutti: a medici, infermieri, a chi lottava. Era il grido della vita. Lo racconterò a mia figlia, quando crescerà».

Anna Riviera assistente sanitaria – tamponi

«Ecco: quasi cento giorni». Tre mesi e qualche giorno trascorsi lì, nell’ambulatorio dell’ospedale di Cremona dedicato ai tamponi. Dieci, venti, anche cento test al giorno. Li ha fatti e refertati tutti, Anna Riviera, assistente sanitaria in prima linea nell’emergenza. «Ho incontrato più persone in questi giorni che in tutta la mia vita, sono entrata a contatto con i racconti, le storie, le preoccupazioni della gente che si sedeva su quella sedia per capire se fosse positiva. Faccio l’assistente sanitaria da anni, ma questa emergenza è diversa: eravamo soli, in quell’ambulatorio, ognuno di noi con il suo obiettivo da portare a casa». Di notte? «Facevo fatica a dormire, si accavallavano i pensieri, mi chiedevo: “Che ne sarà di quella signora?”, “E quel ragazzo?”. Ripensavo ai loro racconti, a quelli di chi aveva subìto un lutto e veniva da noi a scoprire se fosse infetto». Ogni tanto in ambulatorio si esultava. «Ad ogni tampone negativo, gioiva tutta l’equipe. Il doppio negativo, poi, era una festa: salti di gioia e grida. “Ce la stiamo facendo!”, dicevamo. E per un po’ stavamo su».

Chiara Barbieri Croce Rossa

Ha 28 anni ed è una volontaria della Croce Rossa. Il ruolo di Chiara Barbieri, durante l’emergenza, era uno: andare nelle case dei pazienti ricoverati a ritirare vestiti ed effetti personali da portare in ospedale. «Bussavo alla porta di familiari che non vedevano i loro cari da settimane. Chiedevo a chi voleva di preparare biglietti o lettere per loro. I più piccoli mi davano i disegni, per il papà, per la mamma, per i nonni ricoverati. Li infilavo nel pacco dei vestiti: così li tenevo in contatto». C’è un ricordo, nella mente di Chiara. «Nel bel mezzo dell’emergenza c’era una signora anziana in ospedale, sola come gli altri. Sono andata a casa del marito a recuperare i suoi vestiti, ma lui non era in grado di scriverle una lettera. Allora ho preso carta e penna e l’ho scritta io, fingendo che quel messaggio fosse da parte del marito. Ho piegato il biglietto e gliel’ho fatto trovare nella biancheria pulita». Il giorno dopo è mancata.

Si sono ammalati di coronavirus a poche ore di distanza l’uno dall’altra. L’ospedale di Cremona ha fatto un regalo a entrambi. Lia Nevi e il marito Franco Pecchini, sposati da 56 anni, sono stati ricoverati nella stessa camera. 88 anni lui, ex medico, 80 lei, a lungo «prof» di matematica alle medie, inseparabili anche nella malattia. «Le condizioni peggiori erano le mie – racconta Lia –: ricordo la febbre alta, la stanchezza che non mi dava pace. Ma come posso dimenticare lui: l’attenzione di mio marito nei momenti più duri. Spesso me lo trovavo accanto al letto, era lì a guardarmi e questa cosa mi dava serenità, mi faceva dormire la notte. Sapere che ci saremmo svegliati l’uno accanto all’altra è stata la nostra cura». Franco e Lia sono stati dimessi il 30 marzo. A un mese dall’inizio di quell’incubo sono tornati a casa. Insieme, come tutta la loro vita.

Carrnela Korreshi oss

«In quei momenti di adrenalina prevale una cosa: la voglia di aiutare gli altri. In quegli istanti tu non esisti più. C’è solo quella gente intubata, medici e infermieri da aiutare. Queste settimane in corsia mi hanno cambiata: sono diventata più fragile ma allo stesso tempo più forte nelle difficoltà». La paura? «L’ho conosciuta lì. Dopo aver visto quelle scene, penso di non aver più timore di nulla». Ornela Korreshi è una oss (operatrice socio-sanitaria), che ha lavorato nel pieno dell’emergenza a Cremona. Ha un ricordo, che prevale su tutti. «Quella volta che ho trasportato un ragazzo di 23 anni in rianimazione. Non respirava, faceva fatica. Lo guardavo mentre correvo e anche lui mi fissava. Arrivati sul ciglio della porta mi ha chiesto: “Ce la farò, secondo te?”. Ci penso ogni giorno».

Giovanni Zigliani paziente

«A un certo punto mi sono addormentato e non ricordo più nulla, se non che quando sono arrivato all’ospedale in ambulanza ero a Cremona e al risveglio mi sono ritrovato a Trieste». Giovanni Zigliani è uno dei pazienti guariti. «Immaginate la felicità di svegliarsi e di essere vivi, il momento in cui ti staccano il respiratore che ti ha tenuto in vita e cominci a farcela da solo. Ti fai mille domande, ti chiedi come sia stato possibile. Io non credo nei miracoli: capitano raramente, credo nella bravura dei medici che salvano le vite. Se sono qui, lo devo a loro». Giovanni, una volta rientrato da Trieste, dove è stato trasportato mentre era in coma farmacologico, ha riabbracciato la sua famiglia. Suo padre, in quei giorni, è morto di Covid.

Angelica Caci interprete

Il 17 marzo, a Cremona, sono arrivati i Samaritani: 85 medici e infermieri della Ong Samaritan’s Purse venuti da Greensboro (North Carolina) a dare una mano. In 36 ore hanno montato un ospedale da campo di fronte al Maggiore, con 68 posti letto. In poche settimane hanno curato più di trecento persone. Angelica Caci ha lavorato al loro fianco come interprete. Si è offerta come volontaria una volta saputo dell’arrivo degli americani in città. «Mettevo in contatto pazienti e operatori sanitari traducendo le loro parole, nel frattempo assistevo a tutto. Quando tornavo a casa, la sera, non riuscivo a smettere di pensare alle persone ricoverate in tenda. Mi tormentava un pensiero, la notte, un chiodo fisso: la paura di tornare lì il giorno dopo e di trovare anche solo un letto vuoto».

Miguel Medina fotoreporter

«Mi hanno mandato a Codogno, poi a Cremona, con la macchina fotografica al collo per la Colombian AFP (Agence France Presse). Ricordo lo smarrimento dei primi giorni: non sapevo cosa fotografare, il virus non lo vedi. È difficile immortalare l’invisibile. Ho cominciato a scattare in mezzo alla gente con le mascherine, le prime che circolavano, poi in coda davanti ai supermercati, alla fine in ospedale». In una piccola chiesetta accanto al Maggiore, nei giorni più acuti c’erano le bare, decine di bare, una accanto all’altra: corpi senza nome e senza il rito delle esequie. «Sono entrato in quella stanza e ho posato la fotocamera. Ci ho pensato mille volte e poi ho deciso. Ho avuto pudore: non ho fotografato quelle bare. La morte merita rispetto».

Elisa Pini Croce Rossa

«Il viaggio in ambulanza. Quanti ne ho fatti, negli anni. Questi però erano diversi. Quando chiudi la divisa e sigilli la tuta con lo scotch, il tempo si ferma. L’orologio non lo indossiamo, il cellulare resta a casa. Ci sei tu e il paziente da trasportare». Elisa Pini, volontaria della Croce Rossa, per settimane ha acceso le sirene che spezzavano il silenzio della città. Suonavano a ogni ora. «Nell’incontro con i pazienti e nel trasporto in ospedale ho imparato a comunicare con gli occhi, a leggere lo sguardo dei familiari che restavano a casa, mentre l’ambulanza con il malato a bordo girava l’angolo». E poi chiedersi se quel saluto con gli occhi fosse un saluto o un addio. «Non lo dimenticherò mai».

Lena Yokoyama violinista

Gli sguardi verso il cielo e poi le lacrime, gli applausi che arrivavano da fuori e da dentro la trincea. Era metà aprile, quando la violinista Lena Yokoyama è salita sul tetto dell’ospedale Maggiore di Cremona e ha suonato il suo violino come omaggio a medici e infermieri in prima linea. «Ricordo la mia emozione: volevo che dentro l’ospedale sentissero quelle note. A un certo punto ho abbassato gli occhi e ho visto le finestre della terapia intensiva che si aprivano e gli sguardi commossi del personale sanitario che stava lì ad ascoltarmi». Il video di Lena e della sua esibizione sul tetto nei giorni dell’emergenza ha fatto il giro del mondo.

Francesco Sessa fotoreporter e cameramen diventato paziente grave

«Mi tappavo le orecchie per non sentire ciò che mi accadeva intorno, per placare l’angoscia». Francesco Sessa è un bravo fotoreporter, a fine febbraio ha cominciato a documentare l’emergenza nello stesso ospedale in cui, a distanza di qualche giorno, è stato ricoverato in gravi condizioni per il coronavirus. «Ho avuto paura di non farcela – racconta -. Da queste esperienze esci provato psicologicamente». Ora che è guarito, mentre passeggia sul lungo Po ripensa a quei giorni. «Mentre ero lì hanno intubato il mio vicino di letto. Ricordo la notte in cui sono venuti a prenderlo per portarlo in terapia intensiva, la sua telefonata alla moglie, i pensieri al nipotino, medici e infermieri che gli parlavano con dolcezza. Poi il silenzio del suo sonno eterno». Non lo ha più rivisto.

Olga Mewanzey Kouadio infermiera di terapia intensiva

I posti in terapia intensiva, all’ospedale di Cremona, non bastavano mai, tanto che quasi tutti i reparti del Maggiore sono diventati stanze di rianimazione. Olga Mewanzey Kouadio, infermiera, si ricorda bene i letti con i pazienti in corridoio, i casi gravi da intubare, le dodici ore di turno senza sosta. «Se chiudo gli occhi rivedo tutto: le giornate in cui entravi all’alba e uscivi che c’era buio. Tutte le volte che la giornata finiva io avevo una sola voglia: urlare. Avrei voluto gridare tutta la rabbia che avevo dentro». Olga e le sue colleghe hanno visto arrivare Mattia, il paziente più giovane d’Italia: 18 anni e una brutta polmonite. Prima che lo addormentassero, aveva scritto un WhatsApp alla mamma: “Ti amo, non ti lascerò sola. Devo andare, lo faccio per te”. «Resistere. Era il nostro motto in corsia, dove eravamo macchine: stringevamo i denti e andavamo avanti, perché i pazienti avevano bisogno di noi».

Renato Frattolillo insegnante di sostegno

«Sono un insegnante di sostegno, ma in questi giorni di emergenza ero “solo” un papà. Un anno e mezzo fa è nata mia figlia, ed è da lei che in queste settimane passate in casa ho ricevuto una lezione: nella vita bisogna imparare ad adattarsi alle situazioni». Renato Frattolillo, cremonese, e le “prime volte” della sua bimba in quarantena con il sottofondo delle sirene delle ambulanze che sfrecciavano in città. «Ricorderò che mia figlia ha scoperto il mondo durante queste settimane di lockdown. Ha pronunciato la sua prima parola in quarantena. La sua prima festa del papà è stata in casa. Abbiamo trascorso le giornate insieme, ora siamo più uniti». E adesso, dopo quella prima parola, c’è qualcuno che Renato lo chiama «papà».

Vittorio Venturini imprenditore

Le settimane di lockdown, le giornate chiusi in casa, il lavoro fermo. «Da giovane ero un musicista, poi questa passione l’ho abbandonata. Era nata da piccolo, quando giocavo con una chitarra rossa che mi avevano regalato i miei genitori. La musica è stata un elemento forte nella mia infanzia, anche i miei fratelli suonano. In questo periodo di quarantena ho rispolverato lo strumento, mi sono seduto intorno al tavolo con i miei figli e ci siamo messi a suonare insieme». Basta poco. «Il potere della musica è quello di unire le persone. Grazie a lei ho passato del tempo con i miei ragazzi, di solito non lo facevo. Loro hanno pure abbandonato la Plasystation (ride). Cosa ricorderò di questo periodo? La sorpresa di essermi ritrovato bambino con i miei figli».

Luca Grasselli cuoco e contadino

«Ho un agriturismo in provincia di Cremona, l’orto e gli animali. Di colpo, con il lockdown, la gente ha smesso di telefonare per venire a sedersi ai nostri tavoli. Abbiamo dovuto spiegarlo ai nostri bimbi piccoli, abituati ad accogliere ogni giorno volti nuovi. Io e mia moglie li abbiamo chiamati e ci siamo seduti tutti insieme sul divano. Abbiamo parlato, ho detto loro che la campagna sarebbe stato il nostro rifugio, lì ci saremmo sentiti protetti, come in un film». Luca Grasselli è un cuoco e contadino, e racconta come i suoi bimbi abbiano «potuto scoprire i lavori di un tempo, il contatto con la terra e gli animali». Le cose semplici. «Come fare il pane, tutti insieme e per una volta senza fretta: con i ritmi lenti e una dimensione nuova».

Enrico Galletti

27 maggio 2020

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