IL GIORNALE – Quello che i sondaggi non dicono sulla sfida Trump – Biden

By 12 Agosto 2020Attualità

Nelle ultime settimane sono piovuti decine di sondaggi in vista delle presidenziali americane del prossimo novembre. Molti hanno mostrato una grossa forbice tra Donald Trump e lo sfidante democratico Joe Biden, con picchi che hanno superato il 10%. Tra gli addetti ai lavori c’è chi continua a predicare cautela, tanto che alcuni analisti hanno sottolineato ironicamente che il margine di errore più giusto andrebbe indicato come “è estate”.

I sondaggi, infatti, fotografano il momento in cui vengono svolti e dicono molto poco rispetto a novembre. Il problema è che molto spesso la narrazione della politica americana, e soprattutto della corsa per la Casa Bianca, si ferma a questi numeri. La verità, come sempre, è più complessa. E quei numeri, quei divari incolmabili per Trump, nascondo tutta una serie di fenomeni che rimangono sotto traccia.

Lo scenario dietro agli andamenti dei sondaggi

Per capire meglio partiamo dai precedenti. Negli ultimi 25 anni quasi tutte le elezioni sono state combattute e in un Paese sempre più polarizzato è quindi difficile che una parte prevalga sull’altra con margini molto ampi. Dal 1996, anno della vittoria schiacciante di Bill Clinton contro Bob Dole, il margine più alto per una vittoria è stato quello di Barack Obama nel 2008. In tutti gli altri casi la forchetta tra i candidati si è ridotta man mano che ci sia avvicinava al voto di novembre.

Normalmente la distanza tra Repubblicani e Democratici nella corsa presidenziale può essere inquadrata in due fenomeni distinti. La presenza di un grosso evento che aiuta o danneggia un determinato candidato, o il sentimento degli elettori influenzato dai media. Il primo caso può essere ritrovato nella vittoria dell’ex senatore dell’Illinois spinto dalla violenta crisi economica esplosa nell’autunno del 2008, il secondo è stato invece più evidente nel 2016.

Tra agosto e metà ottobre Hillary Clinton ha vissuto un momentum favorevole. Una convention dem partecipata, la sensazione di una migliore prestazione ai dibattiti presidenziali e parallelamente una copertura dei media sfavorevole per Trump. Poi tutto si è ribaltato col mailgate che ha coinvolto l’ex senatrice a un clima mediatico meno favorevole.

Oggi per il presidente la situazione resta delicata. Non gode di un momento favorevole agli occhi dei media, persino Fox News non ha fatto mancare le sue critiche. E allo stesso tempo si trova a gestire un cigno nero complicatissimo come l’emergenza da coronavirus. Un’emergenza che molti americani considerano ancora prioritaria. Il punto però è che al momento non è possibile prevedere l’andamento di economia ed epidemia nei prossimi mesi e questo rende i sondaggi ancora più limitati.

A tutto questo va aggiunta una strategia attendista da parte di Biden. L’ex vice presidente non può tenere comizi e interviene solo in collegamento con tv e dirette sui social. Parte del suo momentum nei sondaggi è dettato più dal suo restare in attesa che per meriti diretti. Come ha scritto Nate Cohn sul New York Times se Biden dovesse uscire dall’ombra entrando sotto i riflettori dei media – magari infilando qualche gaffe – e allo stesso tempo la copertura negativa di giornali e tv su Trump si attenuasse, con ogni probabilità i sondaggi si stabilizzeranno.

La mossa di Trump per risalire

Mentre sondaggi negativi piovevano da tutte le parti, il comitato per la rielezione del presidente ha visto un avvicendamento al vertice: a metà luglio il capo della campagna Brad Parscale è stato sostituito Bill Stepien. Molti hanno sottolineato la mossa come se fosse il segnale di un possibile flop elettorale. In realtà la scelta di affidare il comando a Stepien va ben oltre il momento.

Per capirlo serve un po’ di contesto. La campagna elettorale che si apprestano a giocare Trump e Biden sarà unica nel suo genere. Convention ridotte all’osso, se non virtuali, impossibilità nel condurre comizi sul territorio e necessità di combattersi in televisione e soprattutto tra digitale e social network. Per questo la promozione di Stepien potrebbe giocare un ruolo chiave.

L’analista 42enne, già direttore degli affari politici di Trump tra il 2017 e 2018, è noto per essere una figura riservata, disciplinata e preparata, ma soprattutto di avere una vera e propria ossessione per i dati e la loro analisi. Nella sua carriera di consulente, iniziata in New Jersey con deputati e senatori e culminata con l’elezione a governatore di Chris Christie nel 2010, ha fatto largo uso di strategie elettorali legate ai big-data, all’analisi dell’elettorato e alla targetizzazione degli elettori con messaggi ad hoc.

La battaglia per i big-data

Le attitudini di Stepien si inseriscono in un meccanismo più grande all’interno del partito repubblicano, una capacità del Gop nella gestione di grandi flussi di dati e della conoscenza dettagliata degli elettori. Il Comitato nazionale repubblicano (Rnc) ha più volte spiegato di avere a disposizione una grossa banca dati e complessi modelli capaci di assegnare punteggi agli elettori, tracciare le loro reazioni agli spot televisivi o sui social media e correggere eventuali campagne. Una macchina, fanno sapere, che è stata alla base del successo di Trump su Clinton nel 2016.

Questo complesso sistema di raccolta ed elaborazione è stato creato proprio a partire dal 1996 e dalla sconfitta di Dole. All’epoca il partito iniziò con la raccolta manuale dei dati, ha spiegato Ellen Bredenkoetter, responsabile dei dati del comitato nazionale repubblicano, poi il sistema ha seguito le evoluzioni tecnologiche arrivando al successo del 2016.

In quell’occasione, lontano dai sondaggi che davano Clinton avanti addirittura di 8 punti all’inizio dell’autunno, la campagna del tycoon, appoggiata anche all’infrastruttura del partito, lavorò per raggiungere piccoli gruppi di elettori sui social facendo leva sulle loro preferenze o antipatie.

Dal 2013 il Rnc ha speso circa 350 milioni di dollari per il suo lavoro sui dati creando un gruppo di specialisti sia a livello nazionale che statale. Bredenkoetter ha spiegato a Roll Call che oggi il database viene nutrito quotidianamente con dati da tutto il Paese anche grazie a volontari e attivisti e soprattutto analisti ed esperti di rilevazioni.

I limiti della struttura dem e le responsabilità di Obama

La nomina di Stepien acquisisce quindi ancora più valore perché inserita in un meccanismo che ha già dato i suoi frutti, anche per limiti della controparte democratica. Dopo il 2016 il partito dell’asinello ha cercato di capire come rifondare le sue strategie digitali cercando di superare limiti evidenti.

I problemi risalgono al 2012, anno della rielezione di Barack Obama. Parte degli operativi del presidente dediti al comparto digitale dopo la vittoria hanno lasciato i dem per andare a lavorare in diverse realtà della Silicon Valley o fondando proprie compagnie. Parallelamente lo stesso Obama nel corso del suo secondo mandato non ha mai lavorato per preparare il partito al suo addio. Dopo la vittoria contro Mitt Romney ha addirittura lanciato un proprio soggetto, l’Organizing for Action, e negli anni molti hanno lamentato una certa lentezza nel fornire dati di valore e liste di contatti.

Dopo quell’esperienza i dem hanno provato a lavorare per recuperare la distanza dai repubblicani ma i problemi non sono mancati. All’interno del partito si è aperta una frattura tra strateghi di lunga data e funzionari storici contro i nuovi arrivati con esperienza digitale che hanno continuato ad insistere sulla necessità di innovare accusando la vecchia dirigenza di fare politica con un modello inefficace.

Pur con il favore estivo dei sondaggi di dem restano indietro con un’infrastruttura ancora incompleta e molto sfilacciata. Dopo il 2012 il partito repubblicano ha costruito strutture per la raccolta dei dati e la micro targetizzazione anche grazie a capitale provenienti da ricchi sostenitori conservatori. Lo stesso non avvenuto in modo organico per i dem. Addirittura magnati come Tom Steyer e Mike Bloomberg hanno preferito lanciare proprie piattaforme candidandosi alle primarie dem piuttosto che finanziare il partito.

Le rilevazioni più interessanti potrebbero arrivare nelle prossime settimane, quando la macchina elettorale dei partiti viaggerà a pieno regime. Qualche giorno fa ha fatto scalpore la decisione del comitato di Trump di sospendere gli spot televisivi in Michigan, uno degli stati del Midwest che gli aveva regalato la vittoria nel 2016.

Fonti della campagna hanno raccontato a Fox News che la pausa era obbligatoria. L’arrivo di Stepien ha rimescolato le strategie e con ogni probabilità qualcosa cambierà, magari deviando ancora più fondi sui social media, con pubblicità mirate a segmenti di elettori. Magari con modalità che sfuggiranno ai sondaggi ancora una volta.

Alberto Bellotto

IL GIORNALE

9 Agosto 2020