CORRIERE DELLA SERA – Covid, quando tutto il mondo sarà vaccinato il virus sparirà?

By 28 Febbraio 2021Coronavirus

I vaccini da soli non sono l’ancora di salvezza e per raggiungere l’immunità di gregge conta anche l’efficacia del prodotto e l’impatto delle varianti. La nostra nuova normalità non prevede ambienti chiusi e affollati

Il coronavirus che provoca Covid-19 ha già colpito oltre 110 milioni di persone nel mondo e ne ha uccise quasi due milioni e mezzo. Le varie strategie di contenimento della diffusione del virus messe in atto nel mondo non sono state sufficienti a rispedire nel bacino animale Sars-CoV-2, come era successo con la Sars nel 2003. La conseguenza di questo fallimento è che quasi certamente non ci libereremo di questo virus perché ormai è troppo diffuso e trasmissibile. Secondo molti epidemiologi la pandemia terminerà quando in tutto il mondo ci sarà un numero sufficiente di persone che sarà stata vaccinata o si sarà ammalata, e avrà così acquisito l’immunità per un certo periodo di tempo. Ma il virus continuerà a circolare, ci convivremo per anni e molto probabilmente diventerà endemico. Provocherà qua e là focolai che andranno bloccati sul nascere. Inoltre è altamente probabile che, proprio in base a quanto durerà l’immunità naturale, ma soprattutto quella indotta dal vaccino, sarà necessario procedere periodicamente con richiami (cosa non possibile con tutte le tecnologie di vaccini), anche per contrastare le nuove varianti che tanto spaventano e sulle quali i vaccini oggi disponibili sul mercato non sono pienamente efficaci. Nella migliore delle ipotesi (ma non è detto che sarà così) con il passare degli anni Sars-CoV-2 non sarà più una minaccia e potrebbe trasformarsi in un comune raffreddore, diventando il quinto coronavirus umano che provoca il raffreddore. «Nessuno può davvero sapere che cosa succederà» avverte l’immunologa Antonella Viola, docente di Patologia all’Università di Padova. «Molto dipenderà da come muta il virus e da come risponde il nostro sistema immunitario: se l’immunità parziale acquisita sarà sufficiente per bloccare gli effetti più gravi del virus è verosimile che Covid-19 comincerà ad assomigliare a un’influenza, a causa della quale ogni anno contiamo alcune vittime, ma che in genere non provoca malattia grave. Se invece il virus inizierà a eludere la risposta immunitaria indotta dai vaccini, anche a causa dell’emergere di varianti, ci vorrà più tempo per far si che si comporti come un’influenza stagionale». Per evitare che le cose si complichino ed impedire che sorgano nuove varianti occorre tenere bassa la circolazione del virus, vaccinando il più velocemente possibile.

Il vaccino non è una panacea

Ora gli occhi di tutto il mondo sono puntati sui vaccini, visti come l’ancora di salvezza per uscire da una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti. Ed è così, il vaccino darà una grande mano. Si è già visto in Italia che tra gli operatori sanitari i contagi sono calati di oltre il 64% e lo stesso trend si è registrato in Israele, dove è in atto una rapida vaccinazione di massa. Ma una cosa deve essere molto chiara. Ormai è troppo tardi, il vaccino servirà a ridurre la circolazione del coronavirus ma non a debellarlo completamente. Del resto non va dimenticato che esistono decine di vaccini contro virus umani, ma solo uno, il vaiolo, è stato completamente vinto. Le campagne di vaccinazioni di massa guidate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità negli anni Sessanta e Settanta hanno avuto successo, e nel 1980 il vaiolo è stato dichiarato debellato. È la prima malattia umana (e per ora unica) ad essere stata sconfitta completamente. Ma la storia del vaiolo è un’eccezione: le malattie purtroppo di solito restano. «Accelerare sulle vaccinazioni anti Covid ci permetterebbe non di avere un azzeramento della malattia, ma una convivenza molto più civile con questo virus» dice il virologo dell’Università degli studi di Milano, Fabrizio Pregliasco.

Il rebus dell’immunità di gregge

I governi di tutto il mondo stanno ora puntando a raggiungere l’immunità di gregge per poter tornare a una vita normale. L’immunità di gregge è quel meccanismo per cui quando la maggior parte di una popolazione è immune nei confronti di una infezione (perché l’ha contratta o è stata vaccinata), l’agente patogeno ha difficoltà a trovare nuovi soggetti da infettare, con una conseguente riduzione del rischio di infezione individuale ed un valore del tasso di contagio Rt inferiore a 1: in questo modo l’epidemia non ha la possibilità di crescere e rimane sotto controllo. A inizio epidemia si era parlato di una copertura vaccinale del 60-70% per raggiungere l’immunità di comunità. Ora si punta all’80% e oltre. Il dottor Anthony Fauci, immunologo statunitense di fama mondiale che fa parte della task force per affrontare l’emergenza si era spinto ad ammettere che potrebbe essere necessario vaccinare il 90% della popolazione mondiale per sperare di arrestare la circolazione del virus. E quando si parla di popolazione mondiale si intendono anche i Paesi in via si sviluppo, che hanno più difficoltà ad accedere al vaccino. Non siamo dunque così lontani dal 95% di immunizzazioni che servono per bloccare il morbillo, la malattia più contagiosa per via aerea.

Una formula matematica

Per calcolare l’immunità di gregge gli epidemiologi applicano una formula matematica: si ottiene quando la copertura di immunità di popolazione è pari a 1-1/R0 (uno meno uno fratto R0). «Il valore del 66% che è sempre stato citato a inizio pandemia presupponeva che il coronavirus avesse un tasso di trasmissibilità di base senza misure di contenimento pari a 3 (Ro di 3)» aveva spiegato Paolo Bonanni, epidemiologo, professore di Igiene e Medicina Preventiva all’Università di Firenze. Ma allora che cosa è successo? Perché nel corso dei mesi è cresciuto questo valore fino a sfiorare il 90% ipotizzato da Fauci? Le ipotesi sono due e probabilmente c’entrano entrambe. Un errore di calcolo dovuto al fatto che non è stato correttamente stimato a inizio pandemia il reale tasso di trasmissione del virus perché non è stato considerato il contagio per via aerea, unito al fatto che durante l’epidemia sono subentrate le varianti come quella inglese, che oltre ad essere più contagiosa sembra più letale, quella sudafricana e brasiliana, che sembrano invece aggirare le difese immunitarie acquisite con il virus primario. Le varianti avrebbero maggiore abilità di trasmissione da persona a persona, con un valore più alto di R0. Di conseguenza aumenta anche il numero di immuni nella popolazione necessario per spegnere l’andamento epidemico e per arrivare alla famosa immunità di gregge. Un virus molto infettivo richiede un tempo maggiore per raggiungere l’immunità di comunità rispetto a un virus poco diffusivo. Maggiore è R con zero, maggiore sarà la percentuale di vaccinati da raggiungere. Per questo mentre prima si parlava di una copertura vaccinale pari al 60-70 per cento della popolazione, potrebbe essere necessario arrivare al 75-80 per cento. E per farlo ci vorranno anche più mesi.

Immunità di gregge difficile da raggiungere

Ma sarà davvero possibile raggiungere l’immunità di gregge? Al momento non sembra così scontato. La campagna vaccinale prosegue a rilento ed è lontana dalle 300 mila immunizzazioni al giorno necessarie per ambire almeno ai livelli più bassi di immunità di gregge. Ma sappiamo che una certa percentuale di no-vax non accetterà il vaccino (basti vedere che cosa sta succedendo in Alto Adige dove i contagi sono alle stelle e buona parte dei medici non si sono vaccinati). Inoltre gli under 16 (che in Italia rappresentano all’incirca il 16% della popolazione) non potranno essere vaccinati perché nessun preparato è stato ancora autorizzato per questa fascia di età anche se trial sono in corso. Ma c’è di più. I vaccini, lo sappiamo, non sono tutti uguali per efficacia. Se Pfizer e Moderna hanno un’efficacia molto elevata, intorno al 95%,Astrazeneca,utilizzato in Italia solo per under 65 sani si ferma al 62%, all’incirca come un vaccino contro l’influenza. È vero che proprio di recente un’analisi post-hoc condotta sui dati della sperimentazione di fase 3 pubblicata su The Lancet evidenzia come il vaccino a vettore virale di Oxford abbia un’efficacia dell’81% quando la seconda dose viene somministrata a 3 mesi dalla prima. Tuttavia lo studio non è stato accolto con grande entusiasmo da buona parte della comunità scientifica perché i numeri sono piccoli e i gruppi non omogenei tant’è che alcuni scienziati hanno bollato il lavoro come «inconsistente».

Che sia chiaro: tutti i vaccini in circolazione bloccano la malattia grave, e in questo momento storico di grande carenza di dosi è giusto utilizzare tutti i prodotti disponibili sul mercato perché così si arriverà al grande traguardo di liberare gli ospedali e limitare il numero dei decessi. Ma il problema vero è che il virus continuerà a circolare se non si blocca anche l’infezione.

«Scegliendo il vaccino Astrazeneca abbiamo rinunciato all’immunità di gregge, questa cosa deve essere chiara anche perché questo prodotto non blocca il contagio. Stiamo vaccinando con il vaccino sbagliato» taglia corto l’immunologa Antonella Viola. «Con un’efficacia al 95% basterebbe vaccinare almeno il 70%, ma probabilmente anche di più ,della popolazione per arrivare all’immunità. Se contiamo che gli under 16 sono fuori dai protocolli e che permane una certa quota di no vax è difficile immaginare un’immunità di comunità nel prossimo futuro. Succederà che qualcuno continuerà ad ammalarsi, qualcuno continuerà a finire in ospedale, meno persone dovrebbero morire che è già un ottimo risultato rispetto alla situazione attuale ma a lungo termine non basta». A tutto questo va aggiunto il concetto che in epidemiologia è chiamato «intervallo di confidenza», di fatto quanto ci si può fidare di quel vaccino. Come spiega Sergio Abrignani, immunologo ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano «si tratta di un dato che i medici statistici calcolano proprio sulla base che il mondo reale è diverso da quello degli studi clinici perché subentrano altre variabili come età, malattie pregresse che in genere sono meno testate nei trial. Più è alto il numero di persone testate, più si ristringe l’intervallo di confidenza e quel dato si avvicina sempre di più alla realtà ». Se ad esempio con il vaccino Pfizer possiamo attenderci una riduzione della malattia tra il 90-97% (quello è il suo intervallo di confidenza), con Astrazeneca passiamo a 4175%.

Il nodo dell’infezione (e delle scuole)

Per bloccare la circolazione del virus, come detto, andrebbe impedito non solo lo sviluppo della malattia grave ma anche l’infezione. Su questo fronte ottime notizie, ancora una volta, arrivano dal vaccino Pfizer perché si è visto che le persone vaccinate non sarebbero più contagiose nella stragrande maggioranza dei casi: il vaccino sembra infatti ridurre anche la trasmissione fino al 94%. Anche dati preliminari su AstraZeneca suggerirebbero un elevato calo della trasmissione, «tuttavia i dati solidi mostrano una riduzione di appena il 3,8%» sottolinea Antonella Viola. «Purtroppo vediamo che con il vaccino di Oxford e l’infezione non si blocca, quindi il virus continuerà a circolare nelle persone vaccinate con questo prodotto». Di conseguenza un individuo vaccinato, proprio perché più protetto rispetto agli altri potrebbe risultare positivo ma asintomatico e continuare a infettare. «Scegliere AstraZeneca per immunizzare il personale scolastico, in un ambiente in cui i bambini non sono vaccinati, è una scelta non troppo condivisibile- valuta ancora l’immunologa Viola – perché gli insegnanti saranno sì protetti dalla malattia grave e questo è certamente un bene che assolutamente non sottovalutiamo in questo contesto storico , ma continueranno a contagiare, le classi continueranno ad essere messe in quarantena con il conseguente avvio della didattica a distanza, senza però risolvere il problema dei contagi in ambiente scolastico». I ristoranti cambieranno

Ma nella nostra vita di tutti i giorni ci sono situazioni più o meno critiche che necessitano percentuali diverse di immunità di gregge per essere considerate

«sicure». L’immunità di società potrebbe non bastare in certi ambienti. Ogni evento, insomma, richiede un suo dato di immunità di gregge. «In un ristorante affollato e senza ventilazione l’immunità di comunità dovrà sfiorare il 90%, mentre nella scuola, che è un ambiente meno critico perché non tutti parlano ad alta voce e continuamente, può bastare il 60-70%» spiega Giorgio Buonanno, professore ordinario di Fisica tecnica ambientale all’Università degli Studi di Cassino e alla Queensland University of Technology di

Brisbane (Australia), che con alcuni colleghi sta studiando la tematica.

«Immunizzando l’intera popolazione usando un vaccino con efficacia del 95% siamo al limite per poter entrare in un ristorante nelle condizioni prepandemia, ma è irrealistico pensare di poter vaccinare tutti e tutti con vaccini ad alta efficacia. Con questo virus è impossibile poter tornare a frequentare gli ambienti chiusi come eravamo abituati prima della pandemia. Situazioni affollate e senza adeguati ricambi d’aria sono oggi, e in futuro, impensabili perché un’immunità di gregge sopra il 90% è di fatto irrealizzabile. Un livello di vaccinazione adeguato combinato con una corretta gestione del rischio negli ambienti chiusi risulta l’unica strada percorribile per arrivare ad una nuova normalità». Cristina Marrone

Corriere della Sera

24 Febbraio 2021