RIASSUNTO DEI CAPITOLI DELLA DIVINA COMMEDIA

By 5 Aprile 2022Cultura

Paradiso

Canto I

Dante vede Beatrice fissare il Sole; egli fa altrettanto, ma poi comincia a fissare gli occhi di Beatrice, che diventano sempre più scintillanti, mentre le sue orecchie sentono l’armonia delle sfere celesti. Dante e Beatrice stanno ascendendo attraverso la sfera del fuoco verso il Paradiso, come di necessità fanno tutti i corpi purificati.

Canto II

Il canto si apre con un ammonimento del Poeta ai suoi lettori: solo coloro che sono dotati di intelligenza e di cultura adeguate lo potranno seguire nell’arduo cammino che sta iniziando. Infatti, con la guida di Beatrice, egli sale dal paradiso terrestre, posto sulla vetta del monte del purgatorio, al cielo della Luna, il primo dei nove cieli fisici che dovrà attraversare prima di giungere all’Empireo, dove ha la sua sede Dio.
La superficie lunare appare luminosa come un diamante, ma Dante sa che essa è COsparsa di macchie scure, intorno alle quali chiede spiegazioni . a Beatrice. Questa dapprima nega ogni valore alla credenza popolare che vedeva, in quelle macchie, la figura di Caino gravato da un fascio di spine. In seguito dimostra la non validità della teoria scientifica che trovava la causa, di quelle zone oscure nella maggiore o minore densità della materia costituente la luna.
Dopo aver convinto Dante:che la ragione umana, qualora non sia sorretta dalla fede. e dall’insegnamento teologico, mostra tutti i suoi limiti, Beatrice espone la dottrina esatta, estendendo la sua spiegazione dalla luna a tutti gli altri corpi celesti. Le zone più o meno scure che sì notano sulla loro superficie dipendono dall’influenza dei cori angelici, le intelligenze motrici dei singoli cieli. Infatti ad una maggiore o minore letizia della intelligenza angelica corrisponde, nel cielo che da essa riceve le sue qualità specifiche, una maggiore o minore luminosità

Canto III

Le anime del cielo della Luna, mosso dagli angeli, appaiono evanescenti. Tra esse Piccarda Donati, sorella di Forese, che spiega che qui stanno i beati che vennero meno ai loro voti. Ella fu rapita a forza dal convento, e sorte analoga fu anche quella dell’imperatrice Costanza.

Canto IV

Dante si chiede: a) Perché aver subito violenza può diminuire la beatitudine futura, come fosse una colpa? b) E’ vero ciò che dice Platone, che le anime tornano alle stelle? Beatrice spiega che in realtà tutti i beati stanno nell’Empireo, ma si mostrano a Dante nei diversi cieli perché egli possa distinguere tra i vari gradi di beatitudine, e che gli spiriti di questo cielo non resistettero completamente alla violenza.

Canto V

La prima parte del canto quinto è occupata dalla spiegazione con la quale Beatrice risponde alla domanda di Dante riguardante la possibilità di compensare i voti non adempiuti con altre opere buone. Ella dapprima dimostra la santità del voto: con esso, infatti, I’uomo fa sacrificio a Dio del dono più grande ricevuto dal suo Creatore, quello del libero arbitrio. Non può, dunque, usare nuovamente della libertà che egli ha offerto a Dio con un atto della propria volontà. Per prevenire una nuova domanda di Dante (perché, allora, la Chiesa può dispensare dal voto?), Beatrice distingue nel voto i due elementi essenziali: la materia e il patto. La prima può essere mutata, ma solo con il permesso della Chiesa e solo se la nuova offerta è superiore, in valore, alla prima. Il secondo non può essere cancellato se non quando il voto è stato adempiuto completamente. Da qui deriva la necessità, per i cristiania di riflettere attentamente prima di offrire voti che non possono mantenere. Beatrice e Dante ascendono poi al secondo cielo, quello di Mercurio, nel quale si trovano le anime di coloro che in vita operarono il bene per conseguire onore e gloria. Uno spirito si rivolge al Poeta dichiarandosi pronto a soddisfare, in nome della carità, ogni sua domanda. Dante chiede di poter conoscere il nome di quest’anima e il motivo per cui essa gode del grado di beatitudine proprio del cielo di Mercurio.

Canto VI

Lo spirito è quello di Giustiniano, che comincia a narrare la storia dell’aquila romana fino al suo regno, affermando che essa vendicò Cristo con la distruzione di Gerusalemme compiuta da Tito. Spiega poi che in quel cielo stanno gli spiriti che in vita ricercarono la gloria; tra essi Romeo di Villanova.

Canto VII

Riguardo all’affermazione di Giustiniano sulla vendetta di Cristo, Beatrice spiega che la morte del Figlio di Dio fu giusta per quanto riguardava la natura umana di Cristo, ma blasfema riguardo quella divina. Dio scelse il sacrificio del figlio per redimere l’uomo come mezzo implicante sia la misericordia che la giustizia.

Canto VIII

Dante e Beatrice ascendono al terzo cielo, quello di Venere, dove appaiono le anime di coloro che in vita sentirono con particolare intensità l’impulso amoroso, dal quale si lasciarono trascinare al male, finché seppero volgere questa loro inclinazione naturale a nobili azioni. La prima anima che si fa avanti è quella del figlio di Carlo II d’Angiò, Carlo Martello, il quale in vita fu legato a Dante da affettuosa amicizia. Il giovane principe parla delle terre di cui sarebbe diventato sovrano se la morte non lo avesse rapito anzitempo, la Provenza e la regione napoletana. Ricorda che anche la bella Sicilia avrebbe potuto essere uno dei suoi dominii se la casata angioina avesse saputo ben governarla e non avesse provocato con la sua mala segnoria la rivolta dei Vespri Siciliani. Accenna infine al rapace governo esercitato nel regno di Napoli dal fratello Roberto. A questo punto Dante chiede all’amico di sciogliere un suo dubbio: come è possibile che i figli siano di indole diversa da quella dei padri? I cicli – spiega Carlo Martello – agiscono sulla terra con i loro influssi secondo fini preordinati da Dio, tuttavia diffondono la loro virtù, la loro forza plasmatrice, a caso, senza distinguere l’un dall’altro ostello. Se così non fosse, non esisterebbe tra gli uomini una differenziazione nelle attitudini naturali, nelle indoli di ciascuno. Tale differenziazione è indispensabile perché, essendo l’uomo creato per vivere in un organismo sociale, dove le attività e i compiti da svolgere sono molteplici, occorre che ciascuno sia in grado di ricoprire il suo ufficio. Il discorso di Carlo Martello termina con un amaro rimprovero al mondo, che non rispetta le attitudini naturali dei singoli uomini.

Canto IX

Carlo Martello predice a Dante mali futuri per gli Angioini; poi la poetessa Cunizza da Romano profetizza la rovina delle città venete che si ribellano all’Impero. Il trovatore Folchetto di Marsiglia indica a Dante l’anima di Raab, e poi si lancia in un’invettiva contro il clero.

Canto X

Dante e Beatrice ascendono al quarto cielo, quello del Sole, dove godono l’eterna beatitudine gli spiriti sapienti. Dodici di essi, danzando, si dispongono a corona intorno al Poeta e alla sua guida, mentre il loro gaudio è espresso non solo dalla luce intensissima che irradiano, ma anche dal canto che accompagna ogni loro movimento. E’ un trionfo di splendore e di amore che colma di estatico rapimento l’anima di Dante, il quale si immerge nella contemplazione di Dio. Da una di quelle luci si alza una voce che si dichiara pronta a soddisfare ogni desiderio del Poeta. E’ il domenicano San Tommaso d’Aquino, il quale condanna l’attuale corruzione morale dell’ordine di San Domenico. Egli rivela poi i nomi dei suoi dodici compagni, mettendo brevemente in rilievo le caratteristiche dell’opera di ciascuno. La rassegna, incominciata con la figura del grande teologo tedesco ,4lberto Magno, si chiude con il nome di Sigieri di Brabante, un pensatore di indirizzo averroistico, il quale in vita fu accusato di eresia. Ma Dante vuole esaltare, in questo canto, tutti coloro che amarono la sapienza e dedicarono ad essa la loro esistenza, anche se talvolta si lasciarono trascinare fuori del terreno dell’ortodossia.

Canto XI

Nel canto Xl continua a parlare lo spirito di San Tommaso d’Aquino, che si accinge a chiarire un dubbio sorto in Dante in seguito ad una sua affermazione: u’ ben s’impingua se non si vaneggia (canto X, verso 96). Egli spiega che Dio, per il bene della Chiesa, dispose due guide che la conducessero verso il bene, San Francesco e San Domenico, fondatori dei due grandi ordini monastici del secolo XII, i quali avevano come loro scopo fondamentale la riforma morale del mondo cristiano. San Tommaso inizia a questo punto la celebrazione della figura e dell’opera di Francesco d’Assisi, mettendo in rilievo le caratteristiche della sua personalità e i momenti più importanti della sua azione. Ricorda dapprima la rinuncia di Francesco ai beni terreni per abbracciare l’assoluta povertà e i suoi primi seguaci. A Roma il poverello d’Assisi ottiene l’approvazione del proprio ordine prima da Innocenzo III e poi da Onorio III. Recatosi in Oriente, cerca di diffondere in quelle terre la parola di Cristo, ma, fallito questo tentativo, deve ritornare in Italia. Qui, sul monte della Verna, riceve, due anni prima di morire, le sacre stimmate. San Tommaso termina il suo discorso con una dura rampogna rivolta all’ordine domenicano, che ha dimenticato il suo voto di povertà per dedicarsi solo alla ricerca dei beni mondani.

Canto XII

Dopo che San Tommaso ha terminato parlare, la corona di spiriti sapienti, della quale fa parte, riprende a ruotare intorno a Dante e a Beatrice. Prima che essa abbia completato il suo giro, sopraggiunge una seconda corona, che si dispone intorno alla prima, accordandosi ad essa nel canto e nel movimento. Da questa nuova ghirlanda, dopo che il canto e la danza sono cessati, si alza la voce del francescano San Bonaventura, il quale inizia l’apoteosi di San Domenico, l’altro grande riformatore della vita religiosa del secolo XII accanto a San Francesco. San Bonaventura ricorda la nascita e i primi prodigi che accompagnarono la vita di Domenico, il quale mostrò ben presto un ardente amore verso Dio, amore che lo spinse ad approfondire sempre di più gli studi filosofici e teologici per combattere le eresie che minacciavano l’unità della Chiesa. Mentre San Tommaso, nel canto precedente, ha messo in rilievo la corruzione diffusasi fra i seguaci di San Domenico, ora San Bonaventura costata amaramente che l’ordine dei frati minori appare tormentato da discordie e da lotte che gli fanno dimenticare lo scopo primo per cui esso era stato fondato. San Bonaventura termina il suo discorso ricordando i nomi dei dodici spiriti sapienti che si trovano con lui nella seconda corona.

Canto XIII

Le due corone di spiriti sapienti che sono apparse a Dante nel cielo del Sole compiono un giro di danza intorno a lui e a Beatrice, elevando un inno di lode alla Trinità. Dopo che esse hanno cessato il loro movimento e il loro canto, riprende a parlare San Tommaso d’Aquino, il quale risolve il secondo dubbio di Dante, relativo alle parole da lui pronunciate per presentare lo spirito beato di Salomone: a veder tanto non surse il secondo (canto X, verso 114). Allorché ha affermato che nessun altro uomo ha mai potuto uguagliare la sapienza di Salomone, San Tommaso intendeva riferirsi alla saggezza di Salomone nel guidare e governare secondo giustizia il suo popolo: egli, cioè, lo ha considerato come re, non come uomo. Infatti solo in Adamo e in Cristo fu infusa tutta la sapienza che la natura umana poteva possedere. Per meglio chiarire la sua affermazione San Tommaso spiega che sono perfette solo le creature generate da Dio direttamente (come appunto Adamo e Cristo), non quelle che Dio produce attraverso le cause seconde, i cieli. Ancora un’osservazione, prima di porre termine al suo discorso: coloro che si stupiscono di veder salvo Salomone, dopo che nella Bibbia fu aspramente rimproverato per i suoi peccati, commettono un grave errore, perché pretendono di sostituirsi al giudizio di Dio. Gli uomini – conclude San Tommaso – dovrebbero essere più cauti nel formulare giudizi sul loro prossimo, perché essi vedono solo le azioni esteriori, mentre Dio conosce ciò che è nascosto nel cuore di ognuno. Solo Lui, dunque, può decidere della salvezza o della dannazione eterna delle sue creature.

Canto XIV

Beatrice chiede ai presenti di risolvere un nuovo dubbio di Dante riguardante lo stato dei corpi dopo la risurrezione; risponde Salomone, dicendo che allora i corpi saranno più perfetti e più splendenti, e i sensi si adegueranno a tale condizione. Dante e Beatrice salgono al cielo di Marte, mosso dalle Virtù, dove gli spiriti militanti formano una croce luminosa nel cui mezzo splende Cristo.

Canto XV

Le anime beate del cielo di Marte fermano il canto per permettere a Dante di colloquiare con loroché . Intanto una delle luci  si rivolge al Poeta  in maniera affettuosa: è l’anima di Cacciaguida, trisavolo di Dante, il quale, però, non riesce a farsi  capire dal poeta, essendo il linguaggio troppo al di sopra delle umane possibilità di comprensione. Solo in un secondo tempo il discorso di Cacciaguida diventa chiaro alla mente del Poeta, il quale viene spinto ad esprimere i propri desideri. L’anima gli rivela il suo nome.Subito dopo  parla dell’antica Firenze, nel tempo in cui la città viveva in pace e nell’osservanza di tutte le leggi morali, contrapponendo a questa serena visione quella della Firenze attuale, distrutta dalle lotte e dall’immoralità. Cacciaguida ricorda i costumi dei Fiorentini antichi, la loro serena vita familiare.Alla fine, dopo aver menzionato i nomi dei suoi due fratelli, Moronto ed Eliseo, e quello della moglie, parla della propria vita. Era al servizio dell’imperatore Corrado , come cavaliere. Lo seguì nella seconda crociata per conquistare la Terrasanta e morì durante la guerra contro i Saraceni.

Canto XVI

Continua il dialogo fra Dante e Cacciaguida, che nel canto precedente ha tratteggiato l’immagine della Firenze del passato. Ora il Poeta gli rivolge una serie di domande precise: chi furono i comuni antenati, in quale periodo il trisavolo visse, quali furono le caratteristiche dell’ovil di San Giovanni nei tempi passati e quali le famiglie più ragguardevoli. Illuminandosi di gioia nel rispondergli, Cacciaguida rivela di essere nato alla fine del secolo XI, aggiungendo che le case della sua famiglia si trovavano dentro la prima cerchia di mura: garanzia, questa, di antica nobiltà. La popolazione fiorentina era assai meno numerosa di quella dei tempi del Poeta, ma di sangue più puro. Ora, invece, essa è contaminata dalla presenza di famiglie venute dal contado, che la città, nella sua progressiva espansione, è giunta ad assorbire. Anche il numero dei nobili è aumentato, poiché molti feudatari, vinti dal comune fiorentino, sono stati costretti ad abbandonare il contado e a trasferirsi in città. Origine di questi sconvolgimenti sociali e politici è l’intervento della Chiesa in campo temporale a danno degli interessi dell’lmpero, che non può più opporsi all’espansione dei centri cittadini. Tuttavia questa mescolanza di stirpi e di famiglie porterà ad un aumento delle discordie e delle lotte civili e, quindi, ad una rapida decadenza delle città. Nella seconda parte del canto Cacciaguida enumera moltissime famiglie nobili della Firenze antica, ormai scomparse o in via di decadimento e conclude il suo discorso ricordando le famiglie degli Adimari e dei Buondelmonti, il cui dissidio causò le prime divisioni della città.

Canto XVII

Dante interroga Cacciaguida sul proprio futuro, e questi gli predice l’esilio e il successivo rifugio presso il magnanimo Cangrande della Scala; incita poi Dante a raccontare ciò che ha appreso nel suo viaggio, anche se potrà riuscire sgradito a qualcuno.

Canto XVIII

Cacciaguida mostra otto grandi spiriti, poi Dante e Beatrice salgono al cielo di Giove, mosso dalle Dominazioni, in cui gli spiriti giusti volteggiano nell’aere formando le parole di una sentenza biblica e l’immagine di un’aquila. Dante riflette sulla giustizia terrena e pronuncia un’invettiva contro la curia di Roma che mercanteggia la fede.

Canto XIX

L’aquila perla dell’imperscrutabilità del pensiero e delle intenzioni divine, affermando che nel giorno del Giudizio molti che non conobbero la fede saranno posti più vicino al Creatore di molti che nominalmente si professano Cristiani.

Canto XX

Dopo che l’aquila ha concluso il suo discorso sulla predestinazione, le anime dei giusti riprendono i loro canti finché dal collo dell’uccel di Dio sale un mormorio che diventa ben presto voce. L’aquila indica a Dante gli spiriti che formano il suo occhio e che godono il più alto grado di beatitudine nel cielo di Giove. Il primo è Davide, l’autore dei Salmi; il secondo è Traiano, che conobbe, come sarà spiegato più avanti, anche il mondo della dannazione eterna; terzo appare il re ebraico Ezechia che, giunto in punto di morte, ottenne da Dio di poter vivere per altri quindici anni; il quarto spirito indicato è Costantino, che trasferì la capitale dell’impero romano da Roma a Bisanzio; nella parte bassa dell’arco sopracciliare dell’aquila si trova Guglielmo II, re di Sicilia e di Puglia; l’ultimo è il guerriero troiano Rifeo. A Dante, che ha manifestato il suo profondo stupore nel vedere due pagani, come Traiano e Rifeo, partecipi della beatitudine celeste, l’aquila spiega che il primo fu salvato per le preghiere di San Gregorio Magno e il secondo perché, amantissimo della giustizia, ricevette da Dio il dono di conoscere la futura redenzione. Occorre dunque che gli uomini siano cauti nel giudicare quelli che sono dannati e quelli che sono salvi, perché neppure i locati conoscono ancora tutti gli eletti.

Canto XXI

Dante e Beatrice salgono al cielo di Saturno, mosso dai Troni, qui gli spiriti contemplanti vanno e vengono per una scala dorata diretta verso l’alto. Essi non cantano come dovrebbero per non annichilire Dante con la completa bellezza del Paradiso: lo spiega Pier Damiani, che poi passa a deplorare il lusso dei prelati.

Canto XXII

San Benedetto racconta la sua vita e la storia dell’ordine benedettino, biasimandone l’attuale decadenza. Dante e Beatrice salgono la scala, che porta al cielo delle stelle fisse, mosso dai Cherubini. Dante arriva nella costellazione dei Gemelli, sotto la quale è nato; sotto di sé vede piccolissimi tutti i cieli e i pianeti.

Canto XXIII

Nel mezzo del cielo sfavilla un sole da cui emerge la figura di Cristo; Dante non può sopportarne la vista e torna a guardare i beati, mentre Beatrice risplende di bellezza; tra essi vede Maria su cui cala l’arcangelo Gabriele. La Vergine ascende con loro nell’Empireo.

Canto XXIV

Beatrice invita i beati a dare a Dante un po’ della loro saggezza; San Pietro interroga il poeta sulla fede, e questi risponde con sicurezza e proprietà su tutti gli argomenti. San Pietro gli impartisce la benedizione.

Canto XXV

San Jacopo di Galizia interroga Dante sulla Speranza, e il poeta si mostra sicuro anche su questo secondo argomento. Arriva anche San Giovanni, che dichiara essere falsa la leggenda che il suo corpo si trovi già in Paradiso.

Canto XXVI

San Giovanni interroga Dante sulla Carità, e anche stavolta il poeta si mostra preparato. I beati intonano una lode al Signore, mentre Dante si avvicina ad Adamo e gli pone alcune domande sulla sua esistenza.

Canto XXVII

San Pietro pronuncia un’invettiva contro i papa corrotti, in particolare Giovanni XXII e Clemente V; poi i beati tornano all’Empireo, mentre Dante e Beatrice salgono al Primo Mobile, mosso dai Serafini. Beatrice spiega a Dante il movimento del creato e biasima l’umanità corrotta.

Canto XXVIII

Negli occhi di Beatrice si riflette un punto di luce (Dio) attorniato da nove cerchi infuocati (gli ordini angelici); tra essi i più vicini a Dio sono più veloci e virtuosi. Beatrice descrive la gerarchia dei cori degli angeli.

Canto XXIX

Dio creò gli angeli per manifestare la sua bontà; quelli che si ribellarono con Lucifero caddero sulla Terra mentre quelli rimasti fedeli divennero incapaci di compiere peccato; il loro numero è infinito e bruciano di amore divino con diversa intensità, a seconda di come hanno ricevuto la luce divina. Beatrice poi deplora i cattivi predicatori.

Canto XXX

Dante e Beatrice arrivano nell’Empireo, dove un fiume di luce scorre tra rive fiorite prendendo forma di cerchio; da esso escono faville di luce che si trasformano in beati ed angeli, che si dispongono in una rosa circolare di mille gradini. Beatrice guida Dante al centro della rosa.

Canto XXXI

Il Poeta osserva con stupore e ammirazione, lo spettacolo tripudiante dell’Empireo. Mentre gli eletti, seduti sui loro seggi, contemplano la luce eterna di Dio, gli angeli volano, con moto incessante, come intermediari d’amore, dai beati a Dio e da Dio ai beati. Percorrendo con lo sguardo i gradini dell’immenso anfiteatro celeste, Dante scorge i volti, luminosi e trasfigurati dalla gioia, dei beati, osserva i loro atteggiamenti dignitosi e improntati alla più profonda serenità. Desideroso di rivolgere a Beatrice alcune domande, il pellegrino si volge verso di lei, ma al posto della donna amata trova un beato, in atteggiamento benevolo e paterno. San Bernardo da Chiaravalle, il più famoso mistico del secolo XII, particolarmente devoto alla Vergine. Egli, quale simbolo della scienza contemplativa, sostituisce Beatrice per guidare Dante alla visione finale di Dio. Poiché il Poeta vuole sapere dove si trova ora Beatrice, il Santo gli spiega che è ritornata al suo seggio, il terzo, a partire dall’alto, dopo quello della Vergine e di Eva, accanto a quello di Rachele. Dopo che Dante ha innalzato alla sua donna una fervida preghiera di ringraziamento per averlo guidato dal peccato alla salvezza eterna e dopo che ha invocato, ancora una volta, il suo aiuto, San Bernardo lo invita a percorrere di nuovo con lo sguardo tutto l’Empireo, per prepararsi alla visione di Dio. Dante – esorta il Santo – deve contemplare anzitutto la regina del cielo. La Vergine appare al pellegrino nel punto più alto della candida rosa, avvolta in una luce intensissima, circondata dal volo festoso di migliaia di angeli.

Canto XXXII

San Bernardo indica a Dante Eva, Rachele, Beatrice, Sara, Rebecca, Giuditta e Ruth, che stanno ai piedi di Maria; alla sua sinistra coloro che credettero in Cristo venturo, alla destra quelli che credettero in Cristo venuto; di fronte a Maria numerosi santi e l’Arcangelo Gabriele. Infine attorno a Maria si vedono anche Adamo, San Pietro e San Giovanni, Mosè, Sant’Anna e Santa Lucia.

Canto XXXIII

San Bernardo elogia Maria e le chiede di intercedere affinchè Dante possa godere della visione di Dio. Maria acconsente e leva in alto lo sguardo; allora Bernardo invita Dante a guardare il Creatore e la Trinità, in forma di triplice cerchio; il secondo cerchio sembra racchiudere un’effigie umana e Dante si sforza di comprendere quell’affascinante mistero (l’Incarnazione), ma la sua debole mente non può farcela da sola; solo il sopraggiungere di un’intuizione diretta ed istantanea infusagli dalla Grazia divina gli fa intravedere per un attimo la verità.

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Purgatorio

Canto I/II

Venuti fuori dalla voragine infernale, Dante e Virgilio  si trovano sulla spiaggia di un’isola situata nell’emisfero antartico, nella quale si eleva la montagna del purgatorio. Inizia il secondo momento del viaggio di Dante nell’oltretomba, durante il quale argomento del suo canto sarà la purificazione delle anime prima di salire in paradiso. E i due poeti riprendono il cammino.

Canto III

Mentre Dante e Virgilio sostano ai piedi dell’erta, parete rocciosa, compare una schiera che avanza lentamente e verso la quale essi si dirigono, per chiedere informazioni. Sono le anime di coloro ché morirono nella scomunica della Chiesa, pentendosi solo in fine dì vita, e che devono restare fuori della porta del purgatorio, nella zona chiamata antipurgatorio, trenta volte il tempo durante il quale vissero scomunicati.

Tra di loro: Manfredi di Svevia.

Canto IV

Tre ore sono trascorse dall’apparizione dell’angelo nocchiero quando Dante e Virgilio, in seguito all’indicazione delle rime degli scomunicati, iniziano la salita lungo uno stretto sentiero, la cui ripidità è tale che solo il grande desiderio di purificazione può aiutare a percorrerlo. Durante l’ascesa Dante può rendersi conto, meglio che non quando si trovava ancora lungo la spiaggia, dell’altezza e dell’asperità del monte del purgatorio: ha un momento di scoraggiamento, dal quale il maestro lo scuote esortandolo a raggiungere un ripiano sul quale potranno riposare. Qui giunti, Virgilio spiega al discepolo perché i raggi del sole nel purgatorio provengono da sinistra, mentre nell’emisfero artico chi guarda verso levante vede il sole salire nel cielo alla sua destra. Ma Dante teme l’altezza del monte e Virgilio lo rassicura: l’ascesa è difficile solo all’inizio, quando si è ancora sotto il peso del peccato, poi si presenterà man mano sempre più facile ed agevole. Non appena il poeta latino termina di parlare, si leva improvvisamente una voce verso la quale i due pellegrini si dirigono, finché si trovano davanti a una grande roccia alla cui ombra giacciono le anime dei negligenti, che, per pigrizia, si pentirono solo all’estremo della vita e che, per questo, devono restare nell’antipurgatorio tanto tempo quanto vissero. Chi ha parlato è il fiorentino Belacqua, che Dante conobbe e con il quale il Poeta stabilisce un affettuoso colloquio finché Virgilio gli ingiunge di proseguire il cammino

Canto V

Continuando a salire, Dante e Virgilio incontrano i negligenti morti violentemente. Questi notano che il corpo di Dante proietta l’ombra, e quindi è vivo; lo pregano perciò di dire loro se riconosce qualcuno per il quale fare pregare i vivi. Pur non conoscendone nessuno, Dante promette di esaudire i loro desideri; si fanno avanti Jacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e Pia de’ Tolomei.

Canto VI

Il canto inizia con le anime dei morti uccisi per violenza che fanno ressa intorno a Dante per raccomandarsi a lui e alle sue preghiere.
Esse gli si accalcano intorno, e a ciascuna Dante promette dunque di ricordarle, una volta tornato sulla Terra.
Per descrivere questa situazione, il poeta ricorre ad una similitudine, nella quale paragona se stesso ad un vincitore del gioco della “zara”.
La zara era un gioco piuttosto popolare all’epoca, ed era una specie di morra che si era soliti praticare nelle taverne o nelle osterie, facendo uso di tre dadi.
Il gioco era di origine orientale, infatti il termine “zara” altro non è che la storpiatura della parola araba (“zahr”) che significa “dado”, e dalla quale in italiano deriva anche la parola “azzardo”.Virgilio nota in disparte l’anima di Sordello, poeta mantovano come lui, e lo abbraccia. A quella vista Dante amaramente ricorda come gli Italiani siano invece in continua lotta fra loro, con i Fiorentini in prima fila.

Canto VII

Sordello,mentre si avvicinano,dice che già prima del tramonto indicherà i personaggi che stanno in questo posto.Così dicendo,passa in rassegna i principi negligenti:Rodolfo,Ottocaro,che si nutri di lussuria e ozio,Filippo III e Enrico I.
L’elenco continua con il robusto Pietro III d’Aragona e con Carlo I d’Angiò.Ma le sue virtù,purtroppo,non si trasmisero agli altri eredi.Esse sarebbero state ben tramandate se fosse salito al trono il giovanetto,che ora risiede accanto a lui.Da questo episodio Dante trae spunto per dimostrare che la virtù non si eradita da padri,ma discende da Dio,come una grazia.Sordello indica ancora Arrigo III d’Inghilterra,seduto in disparte, e poi posto in luogo piu basso,Guglielmo VII,alla cui morte segui una dolorosa guerra nelle regioni del suo marchesato(Monteferrato e Canavarese).

Canto VIII

Scende la sera nella valletta, un’anima intona il Salmo liturgico di compieta ”Te lucis ante” cui rispondono devotamente tutte le altre. Scendono dal cielo due angeli “verdi come fogliette pur mo nate” che dovranno scacciare il serpente tentatore, poi Dante, Sordello e Virgilio si inoltrano nella valle.
Qui i nobili che si presentano sono ancora memori della vita breve: Nino di Gallura rimprovera la moglie Beatrice d’Este di aver smesso presto le bende vedovili per sposare Giangaleazzo Visconti di Milano. Corrado Malaspina predice a Dante l’esilio e questi loda il “pregio della borsa e della spada” (quindi tutto mondano) di quella stirpe nobiliare potente in Lunigiana.

Canto IX

Dante si addormenta e sogna di volare in groppa ad un’aquila fino alla sfera del fuoco, dove entrambi bruciano. Al risveglio Virgilio lo conduce alla porta del Purgatorio, dove un angelo incide con la spada sulla sua fronte sette P (simboleggianti i sette peccati capitali da cui Dante dovrà purificarsi durante il viaggio).

Canto X

Canto Varcata la porta, i due poeti salgono su un cornicione del monte la cui parete sul lato interno è colma di bassorilievi in marmo bianco riproducenti esempi di umiltà. Qui i superbi camminano curvi sotto il peso di enormi macigni, studiando gli esempi dei bassorilievi.

Canto XI

Tra i superbi ci sono nobili senesi come Umberto Aldobrandeschi, conte di Santafiore, e Provenzan Salvani, ma ci sono soprattutto gli artisti: il miniatore Oderisi da Gubbio considera quanto breve sia la fama terrena: Cimabue è superato da Giotto, Guinizzelli da Cavalcanti. La vita è un attimo in confronto all’eternità, la fama appassisce come l’erba (Salmo 89).
Dante è attento all’evoluzione dell’ arte e alla gloria dei grandi, ma bada soprattutto alle conseguenze psicologiche e morali che travolgono chi nel mondo raggiunge tale gloria.

Canto XII

Più avanti, i bassorilievi mostrano esempi di superbia punita: Lucifero, i Giganti, Saul, Ciro, Troia ed altri ancora. L’Angelo dell’Umiltà cancella la prima P dalla fronte di Dante. I due poeti arrivano ad una scala piuttosto stretta.

Canto XIII

Siamo nella seconda cornice, dove spiriti volanti e invisibili gridano esempi di carità e invidia punita agli invidiosi che, seduti col cilicio e le palpebre cucite da fil di ferro, cantano litanie dei Santi; tra essi la senese Sapia.

Canto XIV

Guido del Duca chiede a Dante la sua provenienza, e Dante risponde con una perifrasi. Rinieri de’ Calboli chiede perché il poeta non abbia dato una risposta diretta, ma risponde Guido sostenendo che è giusto che la Val d’Arno non si nomini più e lanciandosi in un’aspra invettiva contro la Toscana e la Romagna.

Canto XV

Sono le tre del pomeriggio, e i due poeti si trovano ancora nel secondo girone, quando Dante viene colpito da una luce abbagliante che lo costringe a schermarsi il volto con la mano per poterne sostenere la vista. Tale fulgore promana dall’angelo disceso a indicare loro il modo per poter salire al terzo girone, quello degli iracondi. Durante l’ascesa Dante espone alla sua guida un dubbio, nato in lui ascoltando le parole di Guido del Duca. Ma la risposta di Virgilio è causa nella mente di Dante di un ulteriore interrogativo: allora Virgilio, dopo una spiegazione parziale, lo esorta a purificarsi dei peccati in attesa di essere illuminato dalle parole di Beatrice. Nel frattempo essi sono arrivati nel terzo girone e subito a Dante appaiono tre visioni: quella di Gesù giovinetto al tempio, quella della clemenza di Pisistrato e quella della lapidazione di Santo Stefano. Virgilio che sa perfettamente in quali spettacoli sia immersa la mente di Dante, lo sprona a proseguire il cammino poiché si sta facendo sera. L’immagine conclusiva del canto è quella dei due poeti avvolti in una cortina di fumo nero e quindi impossibilitati a vedere alcunché.

Canto XVI

Gli iracondi camminano recitando l’Agnus dei avvolti in una nuvola di fumo. Uno di essi, Marco Lombardo, spiega a Dante la teoria del libero arbitrio e le cause della corruzione della terra, portando l’esempio della Lombardia.

Canto XVII

Dopo aver assistito ad esempi di ira punita, Dante e Virgilio giungono all’uscita della terza cornice, dove l’Angelo della Pace cancella la terza P. Virgilio spiega a Dante come sia ordinato il Purgatorio.

Canto XVIII

Nella quarta cornice gli accidiosi si spronano vicendevolmente alla corsa continua, gridandosi esempi di sollecitudine. L’abate di San Zeno spiega ai poeti come salire alla cornice successiva. Dante, dopo aver sentito gli esempi di accidia punita, cade nel sonno.

Canto XIX

Dante sogna una brutta donna, che al suo sguardo diventa sempre più bella; ma interviene Virgilio che ne strappa le vesti rivelando il suo ventre fetido. Dante si sveglia di soprassalto e racconta il sogno a Virgilio; questi lo spiega identificando nella donna il troppo amore per i beni terreni, colpa che viene punita nelle cornici superiori.

Si arriva così alla quinta cornice, dove avari e prodighi giacciono proni, legati mani e piedi; tra essi papa Adriano V.

Canto XX

Ugo Capeto grida esempi di povertà e generosità; vedendo i due poeti, maledice i suoi discendenti, accennando alla discesa in Italia di Carlo d’Angiò e a Filippo il Bello che ruberà il tesoro dei Templari.

Improvvisa arriva una scossa di terremoto e gli angeli cominciano a cantare.

Canto XXI

Il poeta Stazio spiega a Dante e Virgilio che il terremoto avviene ogni volta che un’anima ormai purificata si sente pronta per salire al cielo; questo è quanto accade ora a lui, dopo un’espiazione pluricentenaria.

Canto XXII

I tre poeti arrivano all’uscita, dove l’Angelo della Giustizia cancella la quinta P. Stazio racconta del suo peccato (la prodigalità eccessiva) e della sua conversione al Cristianesimo provocata dalla lettura di Virgilio. Chiede poi notizie degli altri grandi poeti pagani. Si giunge alla sesta cornice, dove voci gridano esempi di temperanza ai golosi.

Canto XXIII

La sesta cornice accoglie i golosi: smagriti dal forte desiderio di bere e di mangiare suscitato in loro da alberi a forma di cono rovesciato. Dante incontra l’amico Forese Donati, che inveisce contro i cattivi costumi delle donne del suo tempo

Canto XXIV

Forese indica a Dante l’anima di Bonagiunta da Lucca, col quale il poeta intavola una discussione sul “dolce stil novo”. Bonagiunta mostra di aver capito che la sua poesia, oltre a quella di Jacopo da Lentini e di Guittone d’Arezzo, non può rientrare in quel genere non essendo ispirata dal vero amore. Forese predice la morte violenta del fratello Corso. In lontananza si scorge un albero da frutta verso il quale tendono le braccia numerose anime; una voce grida esempi di golosità punita, ricordando che quell’albero discende da quello del bene e del male. L’Angelo dell’Astinenza cancella la sesta P dalla fronte di Dante.

Canto XXV

Stazio spiega come si genera l’uomo e come si formano le ombre dopo la morte corporea. Nella settima cornice i lussuriosi avvolti da fiamme cantano, ascoltano esempi di castità e si danno baci fraterni.

Canto XXVI

Dante trova tra i lussuriosi Guido Guinizelli, per il quale mostra grande ammirazione; ma questi si schermisce, dicendo che assieme a lui c’è un poeta ben più grande, Arnaldo Daniello, che canta piangendo i propri eccessi di un tempo.

Canto XXVII

Un angelo invita i poeti ad attraversare una parete di fiamme; Virgilio vince la paura di Dante dicendogli che oltre quelle fiamme troverà Beatrice. davanti alla scala per il paradiso Terrestre, l’Angelo della Castità cancella l’ultima P dalla fronte di Dante. Cala la notte, e Dante sogna Lia che raccoglie dei fiori. All’ alba Virgilio dichiara Dante guarito dai suoi mali.

Canto XXVIII

Nell’Eden i poeti incontrano Matelda che raccoglie fiori; essa spiega come nell’Eden vi siano acqua e vento; la prima viene da una sorgente divina e forma il Lete, che cancella le colpe, e l’Eunoè, che predispone al bene; il secondo è originato dal movimento del Primo Mobile.

Canto XXIX

I quattro risalgono le sponde del Lete. Viene verso di loro una meravigliosa processione: nella scia di sette candelabri dorati avanzano ventiquattro vegliardi, seguiti da quattro strani animali; tra essi un grifone tira il carro trionfale, affiancato a destra da tre donne e a sinistra da quattro. Infine seguono due vecchi, quattro personaggi di aspetto dimesso, e un vecchio che cammina dormendo.

Canto XXX

I 24 vegliardi cantano mentre la processione si arresta davanti a Dante e ai suoi compagni. Appare Beatrice, che racconta ai presenti la storia del traviamento di Dante; questi si volta verso Virgilio, ma la sua guida è scomparsa.

Canto XXXI

Beatrice rimprovera Dante e poi gli ingiunge di guardarla; folgorato da tanta bellezza il poeta sviene. Matelda lo fa rinvenire immergendolo nel Lete e lo riporta al cospetto di Beatrice.

Canto XXXII

La processione torna indietro fino all’albero di Adamo ed Eva, a cui il Grifone lega il timone del carro. Dante si addormenta al suono di un dolce canto. Matelda lo risveglia e gli mostra la processione che sta tornando in cielo. Beatrice siede sotto l’albero in compagnia delle sette donne che portano i sette candelabri. Improvvisamente un’aquila piomba addosso al carro, la terra si fende sotto di esso e un drago emerge dall’abisso squarciandone il fondo. Sul carro spuntano sette teste, una prostituta e un gigante che la frusta, scioglie il carro e lo porta via.

Canto XXXIII

I presenti si incamminano, e Beatrice profetizza la venuta di un messo divino che ucciderà la prostituta e il gigante; invita Dante a riferire agli uomini ciò che ha visto. Dante e Stazio bevono l’acqua dall’ Eunoè e si sentono pronti per salire al Paradiso.

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Inferno

Canto I

Dante si smarrisce nell’ oscura selva dei suoi errori e peccati. Quando spera di poter salire sulla cima di un colle e rivedere la luce del sole, il cammino gli è sbarrato da tre fiere, simboleggianti lussuria, superbia ed avarizia, ed è costretto a retrocedere. Gli appare Virgilio, il suo modello di poeta, che lo invita a seguire un’altra strada: occorre attraversare il regno degli inferi, e poi il Purgatorio. Poi Dante potrà ascendere al Paradiso, dove Virgilio, non essendo stato battezzato, dovrà lasciarlo ad un’ altra guida.

Canto II

È il tramonto. L’animo di Dante, che si era riaperto alla speranza, è nuovamente vinto dal dubbio. La visione dell’aldilà era stata concessa, prima della morte solo ad Enea e a San Paolo; ma il primo era stato eletto da Dio a fondatore di Roma, fulcro dell’impero e futura sede del pontificato; l’altro a stabilire con la sua predicazione la fede in Cristo, senza la quale non è dato salvarsi. Perché mai un tale dono di grazia dovrebbe ripetersi a beneficio di un uomo qualsiasi, senza particolari meriti e senza un visibile fine provvidenziale? Per vincere la viltà che offusca lo spirito di Dante e minaccia di distoglierlo dall’onorata impresa, Virgilio gli risponde che la sua salvezza sta a cuore a tre donne beate: la Vergine, Santa Lucia e Beatrice. Quest’ ultima non ha esitato a scendere nel limbo per esortare Virgilio ad accorrere in aiuto del suo amico disperato ed impotente. A queste parole la virtù di Dante si rianima, come un fiore che il sole illumina all’alba; e con spirito ardito e franco si avvia, dietro la sua guida, per il cammino alto e silvestro.

Canto III

Virgilio e Dante si trovano di fronte alla porta dell’inferno, che nella  parte superiore porta incisa la famosa scritta conclusa con la sentenza “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate“.Entrambi attraversano l’uscio penetrando così nel mondo infernale. L’ambiente buio, e si sentono subito  pianti, lamenti e grida dei dannati . Quell’anticamera dell’inferno accoglie gli ignavi, coloro che vissero senza prendere mai una posizione, né buona né cattiva, inutili a sé stessi ed alla società. Tra le anime dannate si trovano anche gli angeli che nella guerra tra Dio e Lucifero non si schierarono né dall’una né dall’altra parte.
Gli ignavi si lamentano della loro sorte perchè trascurati da tutti con disprezzo per non aver lasciato in vita nessun ricordo di sé.  Sono continuamente punzecchiati da mosconi e vespe, così da versare ora inutilmente (sono solo cibo per vermi) quelle lacrime e quel sangue che in vita non furono in grado di versare. Sono anche costrette ad inseguire una insegna che cambia rapidamente posizione in ogni momento. Tra le anime Dante riesce a vedere quella di Celestino V, colui che per vigliaccheria aveva ceduto alla carica papale lasciando il posto a Bonifacio VIII, che il poeta ritiene responsabile del male di Firenze e del suo esilio. Questo papa voleva che la chiesa avesse anche il potere temporale.Dante guarda poi sul  fiume Acheronte  l’immensa schiera di anime pronte ad essere traghettate sull’altra sponda da Caronte.
Il traghettatore infernale si fa rispettare, subito urla contro i dannati, minacciandoli e spaventandoli con percosse, poi si rivolge a Dante per impedirgli il viaggio. Virgilio lo salva con la celebre frase “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare“, “così è stato deciso in Paradiso, là dove si può fare ciò che si vuole, e non chiedere altro”, zittendo il demone.

Canto IV

Dante si risveglia nel Limbo, dove stanno i non battezzati privi di colpe. Virgilio lo conduce ad un castello luminoso, al cui interno lo salutano Orazio, Ovidio e Lucano. In un prato verde all’interno delle mura sono radunati gli “spiriti magni”, tra cui Enea, Ettore, Cesare, Aristotele, Platone e Cicerone. I poeti si allontanano dal Limbo nell’oscurità.

Canto V

All’ entrata del secondo cerchio Minosse assegna ai peccatori il luogo in cui sconteranno la loro pena. Al suo interno gli spiriti dei lussuriosi sono trascinati da una tempesta incessante. Paolo e Francesca, amanti infelici uccisi dal marito di lei, raccontano a Dante la loro storia; questi si commuove e sviene nuovamente.

Canto VI

Al risveglio Dante si ritrova nel terzo cerchio, dove i dannati per il PECCATO DI GOLA giacciono prostrati da una pioggia scura, mista di grandine e neve, e vengono dilaniati da Cerbero, un mostruoso cane a tre teste con elementi umani.

Non appena Virgilio ha placato la ferocia del custode dandogli in pasto una manciata di terra, un dannato si leva a sedere e richiama l’attenzione di Dante, dicendogli di essere fiorentino e di chiamarsi Ciacco. Alle domande di Dante sul futuro di Firenze, sulla situazione presente e sulle cause della discordia attuale, Ciacco esprime un severo giudizio sulla condizione morale della città e indica nei vizi l’origine delle contese. Infine, dopo aver dato notizie sul destino ultramondano di eminenti personaggi fiorentini, Ciacco ricade a terra.

Quindi Dante e Virgilio riprendono il cammino e, parlando della sorte dei dannati dopo il giudizio universale, arrivano sul ciglio del quarto cerchio, dove li attende Pluto.

Canto VII

Il quarto cerchio, custodito dal demone Pluto, il dio greco della ricchezza, è quello degli avari e dei prodighi, condannati a spingere col petto pesanti macigni. Dante e Virgilio giungono poi alla palude dello Stige, in cui sono immersi iracondi ed accidiosi. I primi si percuotono e mordono a vicenda, i secondi giacciono sotto la superficie.

Canto VIII

Costeggiando la riva dello Stige Dante e Virgilio giungono ai piedi di una torre dalla cui sommità partono segnali luminosi. Questi si rivelano essere avvisi di richiamo per Flegiàs, il traghettatore infernale che, reprimendo l’ira, accetta i due sulla sua barca. Durante la navigazione uno degli iracondi puniti nella palude si rivolge con arroganza a Dante: è il fiorentino Filippo Argenti che, dopo un breve scambio di battute ingiuriose, tenta di assalire la barca ma viene ricacciato da Virgilio nel fango dove è straziato dagli altri dannati. Infine la barca approda davanti alle mura della città di Dite, rosseggiante per il fuoco, protetta da uno stuolo di diavoli che impediscono a Dante e a Virgilio l’ingresso nel basso Inferno. Neppure le parole di Virgilio riescono a persuadere i diavoli a piegarsi alla volontà divina: di fronte alla loro ostilità e allo sconforto della sua guida Dante è preso dal terrore, anche se Virgilio lo rassicura e gli preannuncia l’arrivo di qualcuno in grado di aiutarli.

Canto IX

Sulle torri delle città appaiono le Erinni, che chiamano Medusa affinché tramuti Dante in pietra. Interviene però un messo celeste, che apre le porte di Dite e fa entrare i poeti. All’interno delle mura, gli eretici giacciono in sepolcri infuocati posti in una pianura sconfinata.

Canto X

Uno dei dannati, Farinata degli Uberti, riconosce Dante e lo chiama a sé; egli avverte il poeta che il suo ritorno a Firenze sarà molto travagliato. Da un altro sepolcro Cavalcante de’ Cavalcanti chiede a Dante notizie del figlio Guido. Poi i due poeti riprendono il cammino.

Canto XI

Dante e Virgilio, per assuefarsi al puzzo intollerabile, si riparano dietro la tomba del papa Anastasio II. Approfittando della sosta, Virgilio spiega a Dante l’ordinamento dell’inferno. Restano ancora tre cerchi da attraversare, il VII, l’VIII e il IX, dove sono puniti rispettivamente i violenti, i fraudolenti  e i traditori . Fuori dalla città di Dite vi sono i peccatori per incontinenza. Questo ordinamento corrisponde all’esame dei vizi fatto da Aristotele nell’Etica.

Canto XII

Siamo nel primo girone del settimo cerchio, custodito dai Centauri. Qui i violenti contro il prossimo giacciono nel Flegetonte, un fiume di sangue bollente. Il centauro Nesso mostra a Dante alcuni dei dannati, tra cui Alessandro Magno, Guido di Monfort, Attila e Pirro.

Canto XIII

Nel secondo girone, custodito dalle Arpie, stanno i violenti contro se stessi, ovvero i suicidi, tramutati in piante, e gli scialacquatori, inseguiti e morsi da cagne affamate. Dante strappa un ramoscello da una pianta, che comincia a parlare: è Pier delle Vigne, che prega Dante di riabilitare la sua memoria.

Canto XIV

Nel terzo girone, in un deserto infuocato, i violenti contro Dio nella persona, ovvero i bestemmiatori, sono sdraiati a terra sotto una pioggia di fuoco; tra essi c’è il gigante Capaneo. Dante e Virgilio arrivano alla sorgente del Flegetonte, e qui il secondo spiega al primo l’origine dei fiumi infernali.

Canto XV

Sempre camminando sull’argine di pietra del ruscello di sangue, Dante e Virgilio si inoltrano nel settimo cerchio: viene loro incontro correndo un gruppo di sodomiti, violenti contro natura.

Uno di essi, con grande stupore, riconosce Dante e ne richiama l’attenzione: Dante incontra così il suo maestro Brunetto Latini, uomo politico e intellettuale fiorentino, che, per parlare qualche istante con l’antico allievo, abbandona la schiera dei compagni di pena. Brunetto loda il discepolo e, dopo avergli predetto l’ostilità dei concittadini, attacca duramente il comportamento morale e politico delle fazioni fiorentine ed esorta Dante a non curarsi della cattiva sorte, tanto è l’onore che le sue qualità gli riservano. Quindi gli indica altri sodomiti, come lui tutti intellettuali e letterati illustri; infine, non prima di avergli affidato l’eredità morale della sua opera più significativa, il Tresor, si allontana di corsa per raggiungere la schiera con la quale è punito e per non essere raggiunto da un altro gruppo di dannati che avanza.

Canto XVI

Dante è riconosciuto da tre fiorentini, che gli chiedono se sono vere le brutte notizie su Firenze apprese da un dannato appena arrivato all’inferno, Guglielmo Borsiere; Dante risponde con un’aspra invettiva contro la corruzione della propria città.

Proseguendo nel viaggio, i due poeti arrivano all’abisso in cui precipita il Flegetonte, e vedono salire da esso un orribile mostro: Gerione, simbolo della frode.

Canto XVII

Gerione custodisce il terzo girone, quello dei violenti nell’arte, cioè usurai, seduttori e adulatori. I primi siedono al limite del deserto, presso l’abisso, con al collo delle borse recanti lo stemma della loro famiglia.

Dante e Virgilio salgono in groppa a Gerione che li porta al fondo dell’abisso.

Canto XVIII

Gerione ha lasciato scendere Dante e Virgilio all’ingresso dell’ottavo cerchio, detto Malebolge perché suddiviso in dieci fossati concentrici – le bolge appunto – collegati da ponticelli di roccia: il luogo è tutto dominato dal colore ferrigno della pietra e al centro termina in un profondo pozzo.

Nella prima bolgia i dannati sono divisi nelle due schiere dei ruffiani e dei seduttori, che procedono ordinatamente in senso opposto come fanno sul ponte Angelico a Roma i pellegrini durante il Giubileo; camminando sull’argine Dante può riconoscere fra i ruffiani il bolognese Venedico Caccianemico, che brevemente gli espone la sua colpa. Dal ponte è possibile vedere in volto anche i dannati dell’altra schiera, fra i quali Virgilio indica Giasone, capo degli Argonauti e seduttore di Isifile e Medea.

Nella seconda bolgia gli adulatori sono immersi nello sterco: qui Dante riconosce il lucchese Alessio Interminelli e, grazie al suggerimento di Virgilio, può vedere Taide, prostituta della commedia classica, mentre si graffia con le unghie lorde.

Canto XIX

Nella terza bolgia i simoniaci sono conficcati a testa in giù nella pietra; lingue di fuoco bruciano loro le piante dei piedi.

Dante ne interroga uno, papa Niccolò III; questi scambia il poeta per Bonifacio VIII, che dovrebbe prendere il suo posto nella buca spingendolo più in basso, ed inveisce contro di lui. Dante pronuncia un discorso contro i papi simoniaci.

Canto XX

Nella quarta bolgia il contrappasso punisce la presunzione umana di divinare il futuro: gli indovini hanno la testa e il collo girati al contrario, così che, non potendo guardare avanti, sono costretti a camminare all’indietro procedendo lentamente e bagnando di lacrime il dorso.

Anche Dante non trattiene il pianto alla vista della figura umana così deturpata, ma è aspramente rimproverato della sua immotivata compassione di fronte alla giustizia divina; quindi Virgilio gli mostra i maghi e gli indovini dell’antichità, Tiresia, Arunte, e Manto che gli offre il modo di narrare l’origine della città di Mantova. Su richiesta di Dante, la guida indica altri indovini, Euripilo, Michele Scotto, Guido Bonatti e Asdente, solo accennando a maghe e fattucchiere.

Infine, Virgilio esorta l’allievo a riprendere il cammino, perché la luna sta per tramontare sotto Siviglia e quindi sulla terra sono circa le sei del mattino.

Capitolo XXI

Dante e Virgilio sono sul ponte che attraversa la quinta bolgia, colma di pece bollente entro la quale sono immersi, invisibili, i barattieri.

Improvvisamente appare sul ponte un diavolo che porta sulla spalla un dannato: gettandolo nella pece, fa sapere ai suoi compagni e ai due spettatori che si tratta di uno degli Anziani di Lucca, città ricca di pubblici amministratori che si arricchiscono vendendo per denaro le prerogative concesse ai loro uffici. Il lucchese cerca di liberarsi dalla pece, emergendo alla superficie, ma i diavoli preposti alla custodia dei dannati minacciano di straziarlo con i loro uncini se non si terrà ben nascosto entro la pece.

Dopo aver fatto nascondere Dante, Virgilio arriva sul sesto argine per trattare con i diavoli che nel frattempo sono sbucati dalla loro tana sotto il ponte: dal capo Malacoda ottiene l’assicurazione all’incolumità sua e del suo allievo, che quindi richiama dal nascondiglio. Malacoda offre ai due una scorta di dieci diavoli fino al prossimo passaggio per la bolgia successiva, dato che il sesto ponte è crollato a seguito del terremoto concomitante alla morte di Cristo.

Il diavolo mescola verità e menzogna, perché il terremoto ha fatto crollare tutti i ponti e non esiste nessun passaggio praticabile sulla sesta bolgia. Costretti a malincuore ad accettare l’offerta, Dante e Virgilio si incamminano sull’argine in compagnia della minacciosa e tragicomica scorta.

Capitolo XXII

Il barattiere Ciampolo di Navarra rivolge la parola a Dante; i diavoli tentano di uncinarlo, ma egli fugge tuffandosi nella pece. Due diavoli, Alichino e Calcabrina, si azzuffano rinfacciandosi la mancata preda e cadono nella pece. Dante e Virgilio approfittano del trambusto per fuggire.

Capitolo XXIII

Per paura che i dieci diavoli, beffati da Ciampolo e umiliati dal tuffo nella pece, possano inseguirli e attentare alla loro incolumità, Virgilio corre precipitosamente verso la sesta bolgia portando Dante in braccio come fa una madre con il figlio: non appena in salvo, i due vedono comparire sull’argine i diavoli, ormai inoffensivi perché incapaci di allontanarsi dal fossato a cui li ha ordinati la giustizia divina. La nuova bolgia è affollata dagli ipocriti, che camminano lentamente sotto il peso di cappe di piombo, esternamente dorate. Mentre i due procedono camminando sul fondo della bolgia, un dannato riconosce Dante dalla sua parlata toscana e lo invita a fermarsi con lui e il suo compagno di pena: i due ipocriti sono i bolognesi Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò, fondatori dell’ordine dei Cavalieri di Maria (detti popolarmente frati Godenti), che insieme furono podestà a Firenze. Crocifisso al suolo della bolgia c’è Caifas, che sconta così, insieme agli altri membri del Sinedrio, la condanna a morte di Cristo. Infine Virgilio domanda a Catalano di indicargli la via per la risalita: scopre così che tutti i ponti sulla bolgia sono franati, e che il diavolo Malacoda gli ha mentito.

Capitolo XXIV

Dante e Virgilio giungono alla rovina del ponte crollato, tanto erta da essere impraticabile al vivo; dopo l’iniziale turbamento della guida e di riflesso anche dell’allievo per la difficoltà della risalita, Virgilio esorta Dante e lo aiuta nell’impresa che infine, dopo molta fatica e qualche rischio, li conduce sull’argine della settima bolgia.

Dal nuovo fossato si leva una voce incomprensibile: dato che l’oscurità non permette di vedere dal ponte quello che succede sul fondo, i due scendono nella bolgia. Il luogo è infestato da ogni tipo di serpenti, con i quali sono legate dietro la schiena le mani dei peccatori, i ladri. Uno di questi, trafitto fra il collo e le spalle da una serpe, viene incenerito all’istante, ma, subito dopo, riprende sembianze umane risorgendo dalle sue ceneri come l’araba fenice.

A compiere la metamorfosi è il pistoiese Vanni Fucci, ladro sacrilego, che, per vendicarsi della curiosità di Dante, gli profetizza l’ascesa dei guelfi neri a Firenze e la rovinosa sconfitta della parte bianca a Pistoia.

Capitolo XXV

Terminata la profezia, Vanni Fucci rivolge a Dio un gesto osceno di sfida, ma la sua superbia viene immediatamente punita dai serpenti che lo avvolgono fino a bloccarne i movimenti e le parole. Dante commenta l’intero episodio rivolgendo una dura invettiva contro Pistoia. Quindi compare Caco, il centauro colpevole del furto degli armenti di Ercole, con il dorso ricoperto di bisce. Lo seguono tre ladri, due dei quali subiscono metamorfosi: il primo si fonde con un serpente a sei piedi che lo ha avvinghiato come edera all’albero, formando una sola mostruosa creatura, il secondo si trasforma in serpe dopo essere stato trafitto da un serpentello che, contemporaneamente, diventa uomo. Nell’unico ladro che ha mantenuto il suo aspetto umano Dante riconosce Puccio Sciancato e nel serpente trasformato in uomo Francesco dei Cavalcanti, fiorentini come tutti gli altri protagonisti di queste metamorfosi.

Capitolo XXVI

Dante trasforma il suo sdegno per i tanti fiorentini incontrati all’Inferno in un’aspra invettiva contro la sua città, per la quale pronostica le sciagure che le augurano tutti i comuni toscani sottomessi al suo dominio.

Quindi Dante e Virgilio risalgono il dirupo, fino a raggiungere l’argine da dove è visibile l’ottava bolgia. Il fossato è disseminato di fiamme in movimento, simili a lucciole in una sera d’estate, e ciascuna di esse custodisce un peccatore, colpevole di un aver suggerito e consigliato una frode.

Restando sulla sommità del ponte, Dante nota una fiamma biforcuta ed esprime il desiderio di sapere chi cela; dopo aver saputo che vi sono puniti insieme Ulisse e Diomede, corresponsabili sia dell’inganno del cavallo che permise ai greci di espugnare Troia sia del furto fraudolento della statua di Pallade, prega la sua guida di far avvicinare la fiamma.

Virgilio acconsente al desiderio, ma riserva a sé il compito di interrogarla: dalla lingua di fuoco Ulisse gli parla della sua sete di conoscenza del mondo e degli uomini, che lo condusse a lasciare la patria per intrapprendere un viaggio oltre le Colonne d’Ercole. Sfidando i divieti divini, Ulisse con un ristretto gruppo di compagni giunse in mare aperto: ma, ormai in vista della montagna del Purgatorio, un turbine inabissò la loro nave prima che potessero raggiungere la meta del loro desiderio di sapere.

Canto XXVII

(Dante incontra l’anima di Guido da Montefeltro, che un diavolo disputò con successo a S. Francesco).Dopo le parole di Ulisse, un’altra fiamma attira i due poeti, muovendosi. Chiede notizie sulla Romagna. Dante fa un quadro della situazione politica della regione, dominata da  uomini pronti alla guerra. L’anima si fa riconoscere dicendo: “Fui guerriero e poi frate , credendo così di riparare  al male creato. Ma la sua conversione era stata soltanto formale, dettata  dalla convenienza, il cordiglio francescano non aveva cinto un uomo nuovo. Alla sua morte San Francesco venne per portarlo in cielo, ma il diavolo lo fermò con queste parole: “Quest’anima deve seguirmi all’inferno, poiché è contraddittorio che ci si possa pentire di una colpa che si ha l’intenzione di compiere. Quando fu davanti a Minosse, questi girò otto volte la coda intorno al suo corpo, destinandolo  al cerchio ottavo. Dopo la converasazione, la fiamma si fa indietro e Dante giunge al ponte che domina la bolgia dei seminatori di discordia.

Canto XXVIII

Nella nona bolgia il contrappasso punisce chi seminò discordie e provocò scismi, con squartamenti, mutilazioni e ferite ancor più sanguinose di quelle provocate dalle guerre più cruente della storia. Un diavolo è preposto alla punizione, che è tanto più spettacolare e orribile quanto più grave fu la colpa del dannato: fra questi Dante incontra Maometto con le interiora e l’intestino che gli penzolano da uno squarcio fra il mento e l’inguine, e suo genero Alì con il volto spaccato dal mento alla fronte.

Dopo aver saputo da Virgilio che Dante è vivo, il profeta dell’islamismo gli raccomanda di avvertire lo scismatico fra Dolcino dell’assedio in cui lo stringerà il vescovo di Novara, affinché possa prepararsi e ritardare il proprio arrivo nella nona bolgia.

Anche il romagnolo Pier da Medicina, con la gola squarciata e privo del naso e di un orecchio, affida a Dante un messaggio per due eminenti cittadini di Fano, preannunciando un prossimo tradimento del signore di Rimini, città che costò cara a un altro dannato, il tribuno Curione che spinse Cesare contro Pompeo e ora porta la lingua mozzata in gola.

Quindi il fiorentino Mosca dei Lamberti con le mani mozzate chiede di essere ricordato come colui che diede inizio alle faide fra guelfi e ghibellini. Infine si presenta il trovatore Bertran de Born che, per aver istigato il re Enrico III a ribellarsi al padre, ora è smembrato egli stesso e porta in mano la propria testa come fosse un lume.

Canto XXIX

Prima di lasciare la nona bolgia Dante cerca con gli occhi in essa un suo congiunto, Geri del Bello, seminatore di discordia, la cui morte violenta è rimasta invendicata, ma Virgilio gli ricorda che l’ombra di questo suo parente è passata sotto il ponte, mostrando sdegno e minacciandolo col dito, quando egli era tutto intento ad osservare Bertran de Born.

Ripreso il cammino, i due pellegrini giungono sopra l’ultima bolgia dell’ottavo cerchio, nella quale si trovano i falsatori, divisi in quattro categorie: falsatori di metalli con alchimia, falsatori di persone, falsatori di monete, falsatori di parole. Con il corpo deformato da orribili morbi giacciono a mucchi o si trascinano carponi gli alchimisti.

Due di questi dannati attirano l’attenzione di Dante: stanno seduti, appoggiandosi l’uno alla schiena dell’altro, e cercano, con furiosa impazienza, di liberarsi delle croste che li ricoprono interamente. Furono arsi sul rogo dai Senesi, il primo, Griffolino d’Arezzo, per non avere mantenuto fede alla promessa di far alzare in volo, novello Dedalo, uno sciocco; il secondo, Capocchio, per aver falsificato i metalli, da quell’eccellente imitatore della natura che fu in vita.

Canto XXX

Improvvisamente compaiono due anime, pazze di furore: l’una si avventa su Capocchio da Siena, e azzannandolo al collo lo trascina, l’altra su Griffolino. Ma prima di essere sbranato, l’aretino rivela a Dante l’identità e il peccato dei due: sono il fiorentino Gianni Schicchi e Mirra, che si finsero un’altra persona per ottenere favori da un testamento l’uno, l’altra per commettere adulterio con il padre.

Quindi a Dante appare un dannato, con il ventre rigonfio per l’idropisia, che confessa di essere maestro Adamo, e di aver falsificato il fiorino di Firenze su incarico dei conti Guidi da Romena, nel Casentino. Su invito di Dante, maestro Adamo denuncia l’identità di due suoi compagni di pena che sembrano fumare per la febbre: l’una è la moglie di Putifarre che accusò ingiustamente Giuseppe, l’altro falsario di parola è il greco Sinone che, fingendosi amico, convinse i troiani a far entrare il cavallo dell’inganno in città. Sinone reagisce alla denuncia di maestro Adamo, e i due danno vita a una rissa fatta di tragicomici colpi e di reciproche accuse. Dante rimane intento a seguire la lite fino a che non lo distolgono i rimproveri di Virgilio per aver dimostrato tanto volgare interesse.

Canto XXXI

Dante e Virgilio lasciano Malebolge, e, superato l’ultimo argine roccioso, si ritrovano immersi nel crepuscolo e odono un suono di corno più terribile di quello lanciato da Orlando a Roncisvalle. Per la scarsa luce Dante crede di vedere le torri di una città che sono invece, gli spiega Virgilio, giganti conficcati attorno al pozzo dalla vita in giù: via via che si avvicinano diminuisce l’errore e aumenta la paura di Dante.

Giunti ai margini del pozzo Virgilio mostra al suo allievo Nembrot, il gigante responsabile della costruzione della torre di Babele, reso ora incapace di parlare una lingua comprensibile, poi Fialte che sfidò Giove tentando di scalare l’Olimpo e ora è incatenato in modo da non potersi muovere, mentre Briareo, di cui Dante ha chiesto notizie, è immobilizzato più lontano e non è visibile. Accanto a Nembrot è conficcato Anteo, il gigante ucciso da Ercole, libero da catene perché non prese parte alla rivolta contro Giove: dopo averlo blandito, Virgilio gli chiede di trasportarlo sul fondo del pozzo. Anteo non può opporsi alla richiesta, quindi distende la mano e afferra Virgilio, che a sua volta stringe a sé Dante; infine depone i due sulla distesa ghiacciata di Cocito.

Canto XXXII

Cocito è diviso in zone: nella Caina i traditori dei parenti stanno immersi nel ghiaccio fino al capo, tenuto abbassato; nella Antenora i traditori della patria hanno invece il capo rivolto in alto: tra essi Bocca degli Abati e Gano di Maganza. Dante vede un dannato che rode la testa di un altro, e chiede a Bocca il nome di entrambi.

Canto XXXIII

Il dannato che rode la testa all’altro è il conte Ugolino della Gherardesca, la sua vittima l’arcivescovo Ruggeri. Dante e Virgilio passano poi nella zona detta Tolomea, dove i traditori degli amici tengono il capo talmente all’insù che le lacrime gli si congelano sugli occhi: tra essi frate Alberigo e Branca Doria.

Canto XXXIV

L’ultima zona di Cocito è la Giudecca, dove i traditori dei benefattori sono completamente immersi nel ghiaccio. Ora Dante e Virgilio sono di fronte a Lucifero, infisso nel ghiaccio dalla vita in giù. Esso ha tre teste, e ciascuna delle tre sue bocche dilania un peccatore: la prima Giuda, la seconda Bruto, la terza Cassio. I due poeti si aggrappano al corpo di Lucifero e lo ridiscendono, passando nell’emisfero terrestre meridionale. Attraverso uno stretto budello riescono a ritornare in superficie in corrispondenza degli antipodi.

FONTE RIASSUNTI

FONTE AUDIO