SALUTE MENTALE

By 12 Ottobre 2025Attualità

Il 10 ottobre si è celebrata la Giornata Mondiale della Salute Mentale. Vista la diffusione del problema,  l’aggiornamento del Blog di questa settimana riguarderà questo argomento esaminato da vari punti di vista, cogliendo il problema dalle osservazioni di vari manuali ma anche in base alla mia esperienza avendo esercitato per quindi anni il ruolo di cappellano presso un Centro di Riabilitazione Psichiatrica e Psicorganicità a Cernusco sul Naviglio (Mi), dove erano presenti quattrocento ospiti con problemi di salute mentale o affetti da molteplici patologie. Augurandomi che il lettore colga il significato della mia scelta, mi accingo ad analizzare l’argomento che spesso incute imbarazzo nell’opinione pubblica. Non è mia intenzione cimentarmi in complesse analisi scientifiche sull’eziologia della salute e malattia mentale, ma unicamente evidenziare la problematica e presentarla sinteticamente con la costante attenzione alla persona che la soffre e ai risvolti etici che queste patologie comportano. Infine, fornirò delle indicazioni alla comunità civile e ecclesiale riguardo agli atteggiamenti da assumere nei confronti di questi “fragili”.

 Complessità dell’argomento

Il “disagio mentale, in rapida crescita, dobbiamo visionarlo nella sua triplice dimensione: biologica, psicologica e sociale, poichè coinvolge soggetti affetti da svariati sintomi e molteplici patologie che si presentano con differenti gravità. Incominciamo dalle situazioni più lievi per giungere alle criticità.

I dati mostrano un fenomeno di proporzioni incredibili, poiché la maggioranza delle persone si è trovata, almeno una volta nella vita, a contatto con questa sofferenza nelle modalità prevalentemente delle depressioni o degli esaurimenti nervosi a seguito di eventi stressanti che poi si sono risolti, non entrando nel circuito della psichiatria cioè di “quel ramo della medicina che ha per oggetto lo studio clinico e la terapia delle infermità mentali e dei comportamenti comunque patologici”(Istituto della Enciclopedia Italiana Lessico Universale Italiano, vol. XVIII, Mondadori, Milano 1984, Voce: psichiatria, p. 42).

Nei miei quasi quarant’anni di sacerdozio ho incontrato (anche fuori da Cernusco) tantissime persone che assumono quotidianamente Tavor, En, Valium, Lexotan…, oppure con imbarazzo mi hanno confidano che frequentano lo psicologo o lo psichiatra, quasi fosse “un disonore”. Il disturbo più frequente di questo “esercito” è la depressione che colpisce persone che vivono una quotidianità “quasi normale”, ma rappresentano un quarto della popolazione italiana, accresciuta di oltre quattro volte in un decennio; 8,18% per 1000 abitanti nel 2014, 35,72% nel 2024. Pure il ricorso alle consultazioni psichiatriche o psicologiche si sono incrementate del 10% in 5 anni (Dati: Studio Eurobarometer, 2024).

Anche i giovani, gli adolescenti, i ragazzi e i bambini non sono esclusi, anzi l’assunzione di medicinali antidepressivi aumenta mentre diminuisce l’età di chi ne usufruisce. Uno studio dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano del 2023, condotto su un campione di 1.616.268 ragazzi e adolescenti con meno di 18 anni, riporta che 63.550 hanno ricevuto cure per problemi psicologici, dipendenze o depressione. Non possediamo, però, dati epidemiologici totalmente attendibili, poiché anche oggi, il disagio e la malattia mentale dei minori è spesso stigmatizzata, permane nel sommerso o si esprime con sintomi inderogabilmente riconoscibili unicamente nella tarda adolescenza o nell’età adulta.

Il disagio mentale coinvolge prevalentemente i Paesi ricchi, e i fattori scatenanti non sono eclusivamente genetici e psicobiologici ma primariamente ambientali e sociali, cioè i ritmi della vita moderna sempre più frenetici, le copiose trasformazioni sociali e le crescenti tensioni economiche che sollecitano un ampio impiego di risorse mentali e un eccessivo sovraccarico emotivo. Non possiamo infine tralasciare il settore lavorativo che provoca numerose “vittime” (come ho già affrontato). L’organizzazione del lavoro, legittimato da malevoli competizioni e concorrenze, dove non è favorito “l’esperto” ma il “raccomandato”, dove non è la professionalità a essere gratificata ma l’abilità ad arrampicarsi e ad adulare, è l’esperienza che tanti vivono e subiscono quotidianamente. E questo sia nelle istituzioni statali, private e anche ecclesiastiche. Di fronte a questi fenomeni, possiamo affermare che una percentuale notevole di sofferenza psicologica è provocata dalla “comunità”, partendo da quella mondiale per giungere a quelle locali. Si conducono da anni benemerite campagne contro il fumo o le polveri sottili ma nessuno osa affermare che l’antagonismo, la concorrenzialità esasperata, la competitività furente, la produttività anonima che cancella la creatività, la scarsa valorizzazione delle risorse umane “uccidono” la stima, la fiducia e la speranza. Di tutto ciò, ipocritamente si tace!

E.Sgreccia riassume le cause di questa sofferenza che spesso è occultata, incorporando altri motivi da noi più volte riportati. “L’insicurezza derivante dalla perdita di senso della vita, dalla minaccia incombente su ciascuno da parte di un mondo che quotidianamente sovrasta e sfugge al controllo degli individui sono delle cause accompagnate alla perdita del senso della trascendenza. Ma si deve considerare anche lo stress della vita della città e dei trasporti, la labilità del sistema affettivo della famiglia. Evidentemente non c’è una causa sola ed è per questo che ci si appella ancora alla filosofia della complessità e alla minaccia del caos dentro l’ordine apparente”( Manuale di bioetica. Vol. II, pp. 39-40). E. Toffler, scrittore statunitense esperto dei mezzi di comunicazione e del loro impatto sulla compagine sociale, riassume alcune cause più rilevanti: “la disgregazione del tessuto comunitario relazionale nella famiglia e nella società, il venir meno di una vita strutturata e l’incapacità di dare senso all’esistenza”( La terza ondata. Il tramonto dell’era industriale e la nascita di una nuova civiltà, Sperling & Kupfer, Milano 1987, p. 468). Da queste osservazioni, dovrebbe conseguire la promozione della “prevenzione” tramite l’ottimizzazione della qualità di vita e delle relazioni famigliari, sociali e professionali che un Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica definisce: “un dovere in primo luogo di carattere etico”( Psichiatria e salute mentale: orientamenti bioetici, Roma 2000, p. 9). Infine, alla base della depressione, spesso si cela l’invito a guardarsi dentro, a verificare e riorganizzare la propria vita, a divenire soggetti della propria esistenza, anche se a volte è un’opera titanica.

Concludendo questa prima parte ci poniamo alcune domande. Come comportarci nei confronti di chi vive un disagio di salute mentale (manifesto o non manifesto)? E’ fattibile per un malato con un deficit psichico il reinserimento sociale? Quale contributo può offrire il singolo, la comunità civile e la comunità ecclesiale a “tutti”?

Questi “strani” e nella maggioranza dei casi abitano accanto a noi ci sollecitano ad adottare il “metodo della dolcezza”, assumendo espressioni costruttive, sconfiggendo l’irrazionale paura, manifestando disponibilità all’ascolto senza pregiudizi, sostenendoli nel superare la solitudine. Pertanto, dobbiamo rivedere i nostri modi di accostare tutti e di comunicare! Unicamente se saremo sensibili potremo immedesimarci nella loro vita interiore, nel loro dolore e notare la loro anima ferita anche se non ce lo dimostrano. Suggerisce E. Borgna: “Nelle pazienti, e nei pazienti, che precipitano nella malattia mentale s’intravede una disperata richiesta di aiuto che Bleuler definisce così: ‘Accettami, ti prego, per l’amore di Dio, così come sono’. Immagine e metafora, della disperazione e della speranza, della inquietudine del cuore e della nostalgia di amicizia e di amore che sgorgano nelle anime ferite e torturate dalla malattia e dalla sofferenza, e che trovano sola consolazione nell’essere accolte e ascoltate con attenzione, e con partecipazione emozionale” (Le intermittenze del cuore, Feltrinelli, Milano 2003, p. 177).

San Paolo, paragona la comunità ecclesiale, cioè la Chiesa, al corpo e afferma: “quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno” (1 Cor. 12, 22-24). J. Vanier, filosofo e fondatore della comunità “Archè”, concludendo un’esistenza trascorsa con i più fragili della società commentava: “Anche nella Chiesa le persone con manifesta o meno manifesto disagio mentale, le persone con handicap mentale riconosciuto o non riconosciuto, non sono sempre onorate né viste come necessarie al corpo; troppo spesso sono considerate come insignificanti, oggetti di carità”, e concludeva chiarendo il fattore stimolante dell’accoglienza: “A volte si curano, ma senza vedere che è una grazia e una benedizione essere vicini a loro”(La force de la vulnerabilité, in ChriIstus 178 – 2008 pg. 194).Anche un Documento di Caritas Italiana ha identificato nella Chiesa, mistero di comunione, un antidoto contro la grave carenza relazionale di cui è vittima l’ammalato psichiatrico ma anche tante donne e uomini del nostro tempo. Per questo, la comunità cristiana, cioè le persone unite dall’amore reciproco (cfr. Rm. 13,8) devono riconoscere questi fragili esclusivamente come “un dono a cui donare dolcezza”. E, permettetemi, un’ osservazione che può dar fastidio a qualcuno: le vita delle tante migliaia di italiani che vivono drammi riguardanti la loro salute mentale non ha meno valore di quella degli immigrati! Non riduciamo questo, come alcuni fanno, ad una lotta tra poveri.

Un’altra emergenza è il Morbo di Alzheimer, che consiste nel processo degenerativo che distrugge progressivamente le cellule del cervello, procurando un graduale smarrimento della memoria e delle funzioni mentali, giungendo anche ad amnesie totali. E, negli stadi avanzati, la persona non è più in grado di deambulare e di esprimersi, diventa incontinente e si nutre con estrema difficoltà. Inoltre, con il trascorrere del tempo, il paziente necessita di un’assistenza totale. Pure qui le cifre sono agghiaccianti. Nel 2010 nel mondo i malati di Alzheimer erano 36milioni, nel 2023 44,35milioni, nel 2030 s’ipotizzano 76milioni e nel 2050 circa 136milioni (Dati: Alzheimer’s Disaese International 2023). Questa patologia, inoltre, coinvolge intensamente il nucleo famigliare sia a livello assistenziale che emotivo-relazionale, siccome potrebbe verificarsi un mutamento di ruolo: da “genitore” a “figlio” da accudire. Le cure brancolano nel buio; l’unico intervento è realizzabile al manifestarsi della patologia mediante terapie farmacologiche e psicosociali. I farmaci rallentano i sintomi della patologia, ma funzionano unicamente se assunti tempestivamente; la terapia psicosociale conserva per un incerto periodo la capacità relazionale e coordinativa.

Da ultimo, non possiamo scordare la complessa distinzione tra disagio mentale e “devianza sociale”, cioè quei comportamenti che provocano misteriosamente atti assurdi di follia in persone che vivono apparentemente nella normalità e, fulmineamente esplodono attuando azioni violente: genitori che massacrano i figli o viceversa, partner che uccidono e poi si tolgono la vita.

 Identikit del malato psichiatrico

Tracceremo ora l’ identikit di quello che comunemente è denominato “malato psichiatrico”, cioè con alterazioni delle sfere cognitive, emotive o comportamentali, poiché unicamente conoscendolo potremo rispettarlo, accompagnarlo e amarlo.

Tra i molti che hanno descritto questi sofferenti è interessante “l’identikit” proposto da S. Cristicchi con la canzone: “Ti regalerò una rosa” che vinse il Festival di Sanremo nel 2007. Un commovente testo risultato della sua esperienza di volontario in un Centro di Igiene Mentale di Roma. “Mi chiamo Antonio e sono matto. Sono nato nel ‘54 e vivo qui da quando ero bambino. Credevo di parlare col demonio. Così mi hanno chiuso quarant’anni dentro a un manicomio (…). Io sono come un pianoforte con un tasto rotto; l’accordo dissonante di un’orchestra di ubriachi (…). Per la società dei sani siamo sempre stati spazzatura: puzza di piscio e segatura. Per loro questa è la malattia mentale e non esiste cura”.

Nel ruolo di cappellano ho appreso quotidianamente che queste persone sono accompagnate quasi totalmente dalla paura e da un disorientamento spesso incontrollabile che li fa assumere comportamenti irrazionali. Questo provoca una sofferenza incalcolabile e un’angoscia sconfinata che produce in qualcuno anche il desiderio del suicidio. Essendo questi malati enormemente sensibili, colgono ogni sfumatura, ogni gesto o parola avventata, e li ferisce. Inoltre, non possiamo tralasciare la loro solitudine poiché il più delle volte, chi vive la malattia mentale e anche problemi di salute mentale, è cosciente del dramma che lo ha aggredito, o meglio percepisce chiaramente di essere prigioniero di questa patologia e che si trova in un labirinto dal quale è quasi impossibile uscire. Ovviamente, ogni malattia, ha una sua sofferenza e una sua gravità, ma ritengo che queste patologie siano, forse il termine è troppo qualunquista, le “peggiori”, poiché da una parte si è privati della propria personalità e dall’altra si assumono atteggiamenti che non si vorrebbero addossare. Così l’attore R. Steiger descrive questa malattia che ha vissuto per alcuni anni: “Il tutto cominciò come una nebbia che s’insinuò piano piano nella mia testa e diventò così densa che io non potevo più vedere… La sofferenza precipitò e divenne così forte che io cominciai a non voler più camminare, a non volermi più lavare… E mi sedevo in giardino a fissare l’oceano dodici ore come un ebete”(E. Zoli, E liberaci dal male oscuro, Longanesi, Milano 1993, p.45).

Come riassunto e conclusione di questa sintetica descrizione, si suggerisce un brano dello psichiatra E. Borgna: “Ogni paziente psicotico, risucchiato nella metamorfosi dei suoi orizzonti di significato, non può nondimeno non essere considerato come un ‘uomo uguale a noi’: anche se non è semplicemente un uomo come noi ma è anche un uomo diverso da noi: non come noi; ancorché radicalmente immerso nella ricerca angosciante e disperata di un significato a cui noi non siamo estranei. Nell’esperienza psicotica si manifesta la categoria dell’assurdo, nella quale si coglie un non senso non destituito di senso; e questo modo di essere, nelle sue antinomie e nelle sue contraddizioni, tematizza non solo la Gestalt psicotica, ma anche quella normale” (Malinconia, Feltrinelli, Milano 2001, p. 26).

Aspetto Culturale

Scrisse papa Benedetto XVI: “Si avverte la necessità di meglio integrare il binomio terapia appropriata e sensibilità nuova di fronte al disagio, così da permettere agli operatori del settore di andare incontro più efficacemente a quei malati e alle famiglie, le quali da sole non sarebbero in grado di seguire adeguatamente i congiunti in difficoltà” (11 febbraio 2006). Caritas Italiana nel Documento: “Un dolore disabitato. Sofferenza mentale e comunità cristiana” del 2003 affermò: “(serve) un’attenzione, un’accoglienza, una cura, una cultura e una politica sanitaria e sociale più adeguata nei confronti delle persone malate di mente e delle loro famiglie” (Caritas Italiana, Un dolore disabitato. Sofferenza mentale e comunità cristiana, EDB, Bologna 2003, p. 5).Pertanto, sia Benedetto XVI che Caritas Italiana, evidenziarono la rilevanza della crescita culturale, poiché anche oggi, certamente meno che nel passato, il malato psichiatrico e il suo ambiente socio-affettivo, a volte, sono ghettizzati e il binomio tra malattia psichiatrica e pericolosità sociale è ancora diffuso. Inoltre, i vocaboli che iniziano con il suffisso “ps”, incutono timore a seguito di una cospicua disinformazione, e molti mostrano diffidenza verso queste persone un po’ “strane”. “Spariti i manicomi non è sparita la manicomialità come modalità e stile di avvicinarsi e rapportarsi con l’ altro” (L. Attenasio, Fuori norma la diversità come valore e sapere, Armando Editore, Roma 2000, p. 36). E, per incrementare il clima di sospetto, periodicamente siamo informati di episodi di violenza, frutti più o meno indotti di alterazione della coscienza. Se stilassimo una classifica sugli “ultimi” della società, dovremmo inserire senz’altro questi malati in una posizione di rilievo, poiché sono “quelli che non contano, non si sentono, non sanno difendersi, non riescono a pesare nelle decisioni politiche e sociali”( Un dolore disabitato. Sofferenza mentale e comunità cristiana, op.cit., p. 16). Il cardinale D. Tettamanzi, nell’omelia della Notte di Natale del 2008 lì definì i “cosiddetti invisibili”: “una categoria destinata ad allargarsi drammaticamente se venisse a mancare lo sguardo aperto e penetrante della carità che si fa prossimità e condivisione”. Eppure, le opportunità di cura e di miglioramento, sono indissolubilmente collegati alle relazioni personali e all’inserimento nella comunità.

Quattro approfondimenti

 1.Immigrati sofferenti di disturbi psichiatrici: nuova emergenza

I flussi migratori comportano un incremento di persone affette da disturbi post traumatici da stress (Ptds). Questo fenomeno che si amplierà nei prossimi anni, potrebbe trasformarsi in una nuova emergenza sanitaria e sociale.

La maggioranza dei migranti sono costretti ad abbandonare il Paese d’origine a volte sede di guerre e di dittature, oppure oppresso dalle carestie, fiduciosi di costruire un’esistenza preferibile. E, immediatamente, devono affrontare la prima criticità: il prolungato ed estenuante viaggio che riserva spesso violenze che incideranno soprattutto psicologicamente. Infine, giunti in Paesi che spesso non hanno scelto, devono confrontarsi con le difficoltà comunicative e relazionali, con i problemi d’integrazione, con un contesto societario che li ignora, con la disoccupazione o con lavori precari, con la discriminazione e con la marginalizzazioni. Questi traumi, determinano una profonda fragilità psicologica che, a volte, si tramuta in un disagio psichico anche grave. Non possiamo infine scordare lo sradicamento non solo fisico ma anche culturale dal proprio Paese d’origine e la distanza dalle strutture famigliari e amicali.

Uno studio della Società Italiana di Psichiatria del 2016, certifica che un richiedente asilo su tre soffre di “psicopatologie della depressione” che si concretizzano in disturbi comportamentali, dissociativi e in abuso di alcool e di sostanze psicotrope. Pertanto, questi nuovi scenari richiedono il riconoscimento per intraprendere un percorso terapeutico e di presa in carico, superando le barriere linguistiche e rispettando gli equilibri culturali.

Anche l’integrazione dei figli dei migranti, quelli che definiamo di “seconda generazione” e che potrebbe apparire più agevole, non sempre procede con risultati soddisfacenti.

Da ultimo, queste persone, è non è cosa da poco, devono ridefinire il loro “progetto di vita”. Ma, a volte, medici, psichiatri, assistenti sociali ed educatori sono impreparati o scarsamente predisposti ad affrontare questa sfida (Per approfondire l’argomento: P. Bria – E. Caroppo, Salute mentale, migrazione e pluralismo culturale, Alpes Italia, Roma 2008; N. Losi, Vite alternative. Migrazione e disagio psichico, Feltrinelli, Milano 2000).

 2.ll malato psichiatrico in Italia

 Aspetto legislativo

In passato, fino al 1978, la legge di riferimento per questi fragili era la 36/1904: “Disposizione sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”, che li reputava pericolosi per se stessi e per gli altri. Di conseguenza, erano ricoverati nei “manicomi” connotati come “luoghi di contenimento sociale”, o meglio, carceri dove i malati psichiatrici o presunti tali erano privati dei diritti civili e l’aspetto riabilitativo era assente. E sulla cartella clinica di ogni paziente era presente un timbro infamante: “pericoloso a sé e agli altri”. Molti ricordano queste strutture e ne parlano con orrore essendo più simili a lager che a luoghi di cura e le condizioni di degenza erano degradanti e umilianti. Inoltre, fino agli anni ‘60 del XX secolo, era diffusa la convinzione che la malattia mentale fosse una lesione organica inguaribile, e di conseguenza, la vita di questi individui era più vegetativa che umana. In questi “grandi contenitori”, furono ricoverate anche persone non affette da patologie mentali ma unicamente diseredati nella società: ubriachi, senza fissa dimora, omosessuali, anziani soli…Commoventi sono i romanzi di M. Tobino (1910-1991) che trascorse tutta la sua vita professionale da psichiatra nel manicomio di Maggiano in provincia di Lucca, così descritto: “Le celle sono il luogo più doloroso. Piccole stanze dalle pareti nude, con una porta molto robusta nella quale è infisso un vetro spesso per guardare dentro; nella parete di fronte, la finestra per la luce. L’ammalato, il matto, vi vive nudo. L’alienato nella cella è libero, sbandiera, non tralasciandone alcun grano, la sua pazzia: la cella è il suo regno”(Per le antiche scale, Mondadori, Milano 2001, p. 24). Notiamo inoltre la sua accentuata dedizione per i malati: “Scrissi questo libro per dimostrare che anche i matti sono creature degne d’amore, il mio scopo fu ottenere che i malati fossero trattati meglio, meglio nutriti, meglio vestiti, si avesse maggiore sollecitudine per la loro vita spirituale, per la loro libertà. Non sottilizzai sulle parole, se era meglio chiamare l’istituto manicomio oppure ospedale psichiatrico, usai le parole più rapide, scrissi matti, come il popolo li chiama, invece di malati di mente” (Le libere donne di Magliano, pg. 52). Terminiamo questo breve ricordo di Tobino con la descrizione di suor Giacinta: “Quando suor Giacinta distribuisce il vitto nella sala di soggiorno, ha intorno duecento malate. Molte volte le hanno tolta la cornetta perché si vergognasse ad apparire pelata, hanno tentato di picchiarla, le hanno urlato sconcezze, l’hanno frugata nei suoi sentimenti più delicati. Suor Giacinta vive insieme alle matte, loro sorella, il suo destino immolarsi ogni ora senza premio” (Le libere donne di Magliano, p. 62).

Negli anni ‘60 si costituì un movimento di riforma con l’obiettivo di “curare” il malato psichiatrico e anche l’evoluzione della farmacologia fornì notevoli contributi. Nel 1978 fu approvata la legge 180: “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, definita anche “Legge Basaglia” e così, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, più di 100mila persone abbandonarono i manicomi. Lo psichiatra F. Basaglia sicuro che i manicomi non giovassero, progettò, riferendosi all’antipsichiatria inglese, al modello dello psichiatra ungherese T. Szasz e alla visione dell’antropologo E. De Martino, una nuova organizzazione dell’assistenza psichiatrica che superasse la logica manicomiale per aprirsi a quella “riabilitativa”, cioè all’insieme di strategie rivolte a restituire  contrattualità sociale alle persone con problemi psichici. Con Basaglia e altri soggetti, la psichiatria, riscoprì i diritti del malato psichiatrico. In uno scritto affermò: “Il manicomio, nato come difesa da parte dei sani contro la pazzia, sembra essere finalmente considerato il luogo dal quale il malato mentale deve essere difeso e salvato”( F. Basaglia – a cura di -, L’utopia della realtà, Einaudi, Torino 2005, p. 27).

La legge 180/78 demandò l’attuazione della normativa alle Regioni che legiferarono con modalità assai eterogenee, ottenendo risultati diversificati sul territorio italiano anche a causa della scarsa integrazione tra interventi terapeutici e assistenziali. In varie situazioni, inoltre, non si costituirono adeguate “strutture intermedie” (comunità, case protette, centri diurni…). L’errore commesso fu quello di essersi illusi che fosse sufficiente abbattere le mura dei manicomi per sanare il malato mentale, scordando che la cronicità non poteva essere trascurata. Inoltre, le famiglie di questi sofferenti furono ignorate, e spesso demoralizzate e avvilite da vergogna e da sensi di colpa, si chiusero nella solitudine prive di assistenza e di conforto, oppresse e travolte da problematiche cui faticavano rispondere, poiché su di loro si abbatté l’onere maggiore, spesso insostenibile, di sostegno del congiunto malato, scordando che la patologia mentale non concede tregua e spesso nega una tollerabile convivenza famigliare. Anche la legge 104/1992: “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, non incluse questa categoria di malati. Positiva, invece, fu la legge 6/2004: “Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizione e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali”.

Come valutare oggi la legge 180/78?

Mentre la legislazione fu rispettosa della dignità del malato psichiatrico e i progressi della neuropsichiatria fornirono terapie farmacologiche efficaci, l’assistenza a questi fragili e l’impegno per il loro graduale reinserimento in ambiti normali di vita e di relazione, in molti casi, fu ed è enormemente deficitaria per la mancanza di politiche ad hoc e per scelte amministrative confuse e inficiate, come in altri settori, da meschini giochi di potere. Alcuni articoli della legge restano anche oggi unicamente “nobili enunciazioni”, poiché i diritti per essere effettivi, richiedono politiche sociali efficaci. Di conseguenza, la battaglia, a favore di questi fragili continua. Osservava la bioeticista L. M. Borgia: “Rispetto alle altre categorie di pazienti, il malato mentale è il più solo e il più debole: è isolato dalla comunità che non comprende la profondità di una malattia difficilmente identificabile e perciò inquietante. Persino le compagnie assicuratrici ritengono le spese mediche per le cure delle malattie mentali psichiatriche ‘non rimborsabili’ in quanto nel contratto assicurativo sono esplicitamente escluse dalle condizioni generali di polizza; non solo, per alcuni contratti l’insorgenza della malattia dopo la stipula, interrompe l’operatività della garanzia. Il malato mentale è isolato dalle istituzioni che devono stanziare le risorse economiche: i fondi sanitari destinati alla psichiatria sono sempre minimi rispetto a tutti gli altri settori; è isolato nella stessa comunità familiare, spesso incapace a gestire da sola una situazione psicologicamente pesante ed un congiunto dal comportamento imprevedibile. Il paziente psichiatrico è così reietto, ghettizzato, respinto dai fatti dietro quelle sbarre che la legge 180/1978 eliminava formalmente, senza possibilità di emergere dall’abisso della patologia, dal momento che le opportunità di cura e di guarigione sono indissolubilmente legate alle relazioni interpersonali e all’inserimento nella comunità” (L.M. Borgia, E’ possibile una bioetica in psichiatria? in F. Pellegrino, Pratica clinica e ricerca. L’uso appropriato dei farmaci in psichiatria, Mediserve, Napoli 2004, p. 86).

3.Contenziosi etici

Molteplici e complesse sono le problematiche etiche in psichiatria, ma nel dibattito bioetico odierno ai contenziosi posti dalle malattie psichiatriche si offre uno spazio limitato, e nell’opinione pubblica si nota una generale indifferenza come dimostrato, ad esempio, dalla scarsa attenzione alle disposizioni normative riguardanti la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (ex-OPG).

Colloqui terapeutici

Nei colloqui terapeutici è rilevante l’equilibrio tra “autonomia” e “eteronomia”, e il modello di riferimento, cioè l’assunto antropologico, non può scordare la radicata dipendenza, che il più delle volte, s’instaura tra malato e terapeuta. Questo assume un rilievo importante per alcune decisioni che il medico potrebbe fare assumere (o imporre) al suo paziente.

L’equilibrio, di conseguenza, dovrebbe fondarsi su un’ “alleanza terapeutica” che superi l’autoritarismo, il paternalismo o l’abbandono rinunciatario per sviluppare primariamente l’ autonomia del malato. E, qui, l’elemento centrale è l’ascolto, il volere e sapere ascoltare, rammentando che l’ascolto riveste “un elevato valore etico in quanto è assunzione e riconoscimento del malato non come altro da me ma come un altro io che dà significato al rapportarsi con lui e quindi a me stesso. Il valore etico dell’ascolto consiste pertanto in una scelta di auto-limitazione che lo psichiatra, lo psicologo clinico gli altri operatori qualificati compiono espellendo la ricorrente tentazione del narcisismo e del sentimento di onnipotenza per collocarsi, appunto, nella dimensione dell’ascolto”( Psichiatria e salute mentale: orientamenti bioetici, op. cit., p. 13).

Consenso informato

Il Consenso Informato, è definito dal Comitato Nazionale per la Bioetica: “la legittimazione e il fondamento dell’atto medico e, allo stesso tempo, strumento per realizzare quella ricerca di alleanza terapeutica – nell’ambito delle leggi e dei codici deontologici – e di piena umanizzazione dei rapporti fra medico e paziente cui aspira la società attuale” (Informazione e consenso all’atto medico, Roma 1992, p. 12). Sull’attitudine ad esprimere un libero e responsabile consenso, a livello internazionale si concorda su quattro parametri. 1. La capacità di manifestare una scelta. Assente ciò è pleonastico valutare gli altri parametri. 2. La capacità di comprendere le informazioni riguardanti il consenso. 3. La capacità di offrire un giusto peso alla situazione e alle sue possibili conseguenze. 4.La capacità di utilizzare razionalmente le informazioni (Cfr. Americam Psychiatric Association, Guidelines for assessing the decision-making capacities of potential research subjects with cognitive impairment, in Am J Psichiatry 155 (1998) pp. 1649-1650).

La legislazione italiana prevede che, in alcune situazioni, la persona possa essere sottoposta a un trattamento medico contro la propria volontà, ad esempio per le vaccinazioni obbligatorie stabilite nei programmi nazionali di salute pubblica (cfr. Legge 292/63) o di fronte ad alcune patologie: tossicodipendenza (cfr. Legge 126/90), TBC e Lebbra (cfr. Legge 897/56) e per evitare contagi.

Nelle malattie mentali, si può applicare l’articolo 33 della Legge 180/1978. L’articolo,  pur affermando che il malato psichiatrico non può essere sottoposto a trattamento contro la propria volontà, ammette la possibilità, nell’ interesse del paziente, del “trattamento sanitario obbligatorio”. Dunque, lo “stato di necessità”, autorizza il medico a rifiutare la volontà del paziente, agendo “in scienza e coscienza”, a protezione della salute e dell’ integrità del malato e di terzi

In ambito psichiatrico, la dottrina del consenso informato, è da sempre ritenuta complessa nell’applicazione poiché, per alcuni, la maggioranza di questi pazienti, non dispone della capacità di comprendere le informazioni comunicate, e di conseguenza, di consentire liberamente al trattamento. Per questo, sorge il dubbio, sulla validità di alcuni consensi manifestati. Inoltre, il problema etico del consenso informato all’atto medico, non riguarda unicamente le cure ma anche altri ambiti della sua salute. E’ opportuno però superare, come attestato da una vasta letteratura scientifica mondiale, il pregiudizio che il malato psichiatrico sia impossibilitato totalmente a esprimere un consenso informato alle proposte terapeutiche, infatti questa tipologia di malattia non ostacola in tutte le situazioni le facoltà mentali dell’individuo, come pure non preclude il soggetto di tutelare gli interessi riguardanti il suo benessere. Di conseguenza, è un obbligo etico, adottare tutte le opportunità per assicurarsi un reale consenso del paziente. Anche in questa situazione è di notevole supporto il rapporto positivo che s’instaura tra terapeuta e paziente, che in alcuni casi potremmo definire di “sussidiarietà decisionale”, che dovrebbe interporsi laddove il malato è titubante ed equivoco. Da ultimo evidenziamo che l’articolo 37 del Codice di Deontologia Medica puntualizza in caso di minore o di infermo di mente che il medico: “deve acquisire dal rappresentante legale il consenso o il dissenso informato alle procedure diagnostiche e/o agli interventi terapeutici”, e segnalare all’Autorità giudiziaria l’eventuale opposizione del soggetto ad un trattamento salva-vita, però, il medico, deve sempre “procede tempestivamente alle cure ritenute indispensabili e indifferibili”.

Segreto professionale e riservatezza

Pure il segreto professionale e la riservatezza inglobano l’ambito psichiatrico nella sua totalità. Con il termine “totalità”, intendiamo che il “segreto” non riguarda unicamente il rapporto medico-paziente, ma anche la comunicazione paziente-paziente e il controllo del flusso delle informazioni con svariate istituzioni (famigliari, datore di lavoro, banche, assicurazioni…). Non dimentichiamo, inoltre, che nessuno, quindi neppure il malato, ha il diritto di rivelare quello che altri hanno manifestato nel corso di una seduta senza previa autorizzazione.

Diritto alla scelta del medico e del luogo di cura

Il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura è riconosciuto dal Codice di Deontologia Medica (cfr. art. 24) e dalla Legge 502/92 riguardante il riordino della disciplina in materia sanitaria (cfr. art. 8). Tuttavia, per motivazioni prevalentemente economiche, cioè l’indennizzo delle prestazioni, spesso, il malato psichiatrico, è costretto a rapportarsi unicamente con servizi gestiti dall’ Azienda Sanitaria Locale di riferimento, e alcune rifiutato di prendersi in carico i residenti esterni al proprio territorio. Di conseguenza, questo malato, è costretto, il più delle volte, ad accettare uno psichiatra o una struttura di ricovero, scelta da altri, ma nel distretto di dimora.

4.Dinamiche sessuali

I fondamenti del Magistero della Chiesa Cattolica nel settore sessuale trovano un riferimento fondamentale nella Enciclica “Humane vitae” di san Paolo VI.

Approfondiamo l’argomento  riferendoci al malato psichiatrico, interrogandoci sulla tipologia di sessualità che deve essere vissuta quando la psiche è sofferente, e soprattutto quando sono presenti limitazioni cognitive, non scordando che in questi soggetti la dimensione affettiva è alquanto sviluppata ma priva di mediazioni. Alcuni, di fronte a comportamenti sessuali discutibili, sono propensi a giustificare o minimizzare; noi riteniamo che anche la persona con handicap psichico vada educata e responsabilizzata dalla famiglia e/o dalle comunità assistenziali sulle sue azioni e sulle eventuali conseguenze, ma soprattutto sia guidata nella gestione delle emozioni (Per approfondire l’argomento. D. Goleman, Intelligenza emotiva, BUR, Milano 1999; F. Veglia, Handicap e sessualità: il silenzio, la voce e la carezza, Franco Angeli, Milano 2003; M Chiodi, L’handicap: la coscienza e le relazioni. Spunti per una riflessione etico-antropologica, Centro Volontari Sofferenza, Roma 2007).

Psicofarmaci

La diagnosi psichiatrica è tra le più complesse che la medicina contempli; studi internazionali rilevano un errore dal 40% al 70%. Per questo, anche nella prescrizione degli psicofarmaci, è doveroso procedere con la massima prudenza. Inoltre, in psicofarmacologia, l’incertezza posologica è più accentuata rispetto al resto della farmacologia. Da queste osservazioni comprendiamo che il settore degli psicofarmaci è un intersecarsi di luci e di ombre. Lo psicofarmaco è senz’altro vantaggioso ma non può ridursi all’unico strumento di cura poiché, privo di una relazione terapeutica di valore, è insufficiente. Di conseguenza, il procedere parallelo del trattamento farmacologico e del supporto psicoterapeutico, cioè quello relazionale, non è unicamente un’ esigenza clinica ma anche etica. Prescrivendo degli psicofarmaci è vincolante interrogarsi anche sul corretto rapporto tra riduzione della sofferenza e diritto del paziente a mantenersi, per quanto possibile, mentalmente lucido. E’ opportuno, dunque, sconfiggere la tentazione di reputare che l’incremento delle dosi, quando il paziente non risponde alla terapia, sia la soluzione migliore.

Un ultimo argomento che non possiamo trascurare è l’ambiguo rapporto medici-industrie farmaceutiche che, a volte, inducono il medico a valutare come malattie delle comuni alterazioni esistenziali, quindi la persona bisognosa di farmaci anche in assenza di una motivazione idonea ( Cfr. R. Moynihan – A. Cassals,  Farmaci che ammalano e case farmaceutiche che ci trasformano in pazienti, Nuovi Mondi, Modena 2012).

 Don Gian Maria Comolli