Censura ideologica al “Bus della Libertà”… Un fatto gravissimo!

Censura ideologica al “Bus della Libertà”… un fatto gravissimo!

L’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP) ha ordinato a CitizenGO Italia e a Generazione Famiglia di interrompere la sponsorizzazione della campagna sul Bus della Libertà condotta con i cartelloni affissi a Roma nelle scorse settimane, poiché il messaggio contro l’ideologia Gender nelle scuole – denunciata anche da Papa Francesco – sarebbe contrario alla dignità umana delle persone transgender e – questo è il colmo! – confonderebbe le idee dei bambini sull’identità sessuale, che non possiamo rappresentare come maschile e femminile. Assurdo!

Si tratta di un chiaro tentativo di imporre un pensiero unico politicamente corretto sulle tematiche che trattiamo, e buttarci fuori dal dibattito che trova negli spazi pubblicitari un mezzo di comunicazione fondamentale.

ANTEFATTO

Per pubblicizzare il tour del Bus della Libertà contro la “colonizzazione ideologica” del Gender nelle scuole denunciata da Papa Francesco – che ci ha portato in una settimana a Firenze, Milano, Brescia, Bologna, Bari, Napoli e Roma – proprio nella Capitale abbiamo finanziato, con le donazioni dei nostri sostenitori, un regolare piano di affissioni pubblicitarie tramite un’agenzia privata.

Ecco i manifesti affissi su 24 paline luminose di Roma:

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La comunicazione è ovviamente provocatoria, trattando un tema di forte risonanza sociale, culturale e politica. Infatti, non si sono fatte attendere le scalmanate proteste delle associazioni di Lesbiche-Gay-Bisessuali-Transessuali (LGBT), che hanno immediatamente chiesto al Sindaco Raggi di rimuovere i manifesti e a tutti i Sindaci delle città coinvolte dal tour di impedire l’ingresso del Bus.

Insomma, alla faccia della democrazia, della tolleranza, del pluralismo e del relativismo di cui queste realtà si riempiono quotidianamente la bocca per portare – anche nelle scuole dei nostri figli e nipoi – le loro strambe teorie sulle infinite sfumature della sessualità fluida. Libertà di pensiero… sì, a targhe alterne!

Ovviamente le ormai solite e bigotte accuse di “omofobia” e “transfobia non ci hanno minimamente sfiorato. La nostra era ed è una campagna per chiedere che le famiglie restino libere di insegnare ai loro figli che chi nasce maschio è un uomo, e chi nasce femmina è una donna. Un diritto di priorità educativa su temi essenziali che non può essere censurato o sospeso dallo Stato quando bambini e bambine, ragazzi e ragazze entrano nelle loro scuole. Questo avveniva nei regimi totalitari del secolo scorso, e non può ripetersi.

Se qualcuno crede che un bambino di 10 anni può iniziare un percorso di blocco ormonale per diventare una femmina, ci spiace molto per lui. Noi non lo insegneremo e non lo faremo insegnare da nessuno ai nostri figli, e questo ce lo riconosce la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e la Costituzione Italia.

 L’INGIUNZIONE A DESISTERE 

Sopravvissuta ai deliri liberticidi dei soliti noti, la nostra campagna pubblicitaria è finita però sotto la scure ideologica dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP), che mercoledì 4 ottobre ci ha notificato un’ingiunzione a desistere dalla diffusione della stessa con qualsiasi mezzo, per le motivazioni che saranno indicate più avanti.

Che cos’è lo IAP? È un ente a cui le più importanti aziende di diffusione pubblicitaria (televisiva, radiofonica e stradale) hanno affidato con un patto privato il controllo del rispetto da parte loro del Codice di Autodisciplina delle Comunicazioni Commerciali, uno strumento di natura sostanzialmente etica per evitare che le scelte dei consumatori siano vittime di pubblicità ingannevole e disonesta.

Attualmente lo IAP valuta le comunicazioni pubblicitarie diffuse da RAI, Mediaset, Sky e da numerose categorie di emittenti radiofoniche, di piattaforme web e di agenzie di affissione stradale, tra cui quella a cui ci siamo rivolti a Roma. In sé, quindi, un mezzo apparentemente innocuo e anzi utile e opportuno, anche se il Codice non ha valore di legge e vale solo per chi lo sottoscrive. Che però, come si è visto, è chi detiene praticamente tutto lo spazio pubblicitario.

Ma lo IAP non giudica solo le comunicazioni di natura commerciale? Che cosa c’entra con la campagna di sensibilizzazione per la libertà educativa delle famiglie di Generazione Famiglia e CitizenGO Italia? Il gravissimo problema è proprio questo. Una riforma del Codice ha esteso la competenza dello IAP anche, genericamente, alla “comunicazione sociale” svolta con appelli al pubblico, ovvero, recita l’art. 46 (che, come si vedrà, lo IAP considera violato dalla nostra campagna):

qualunque messaggio volto a sensibilizzare il pubblico su temi di interesse sociale, anche specifici, o che sollecita, direttamente o indirettamente, il volontario apporto di contribuzioni di qualsiasi natura, finalizzate al raggiungimento di obiettivi di carattere sociale.

L’UNAR DELLE PUBBLICITÀ

Insomma, come si capisce la competenza dello IAP è praticamente illimitata. Il punto grave è che giudicando sulle comunicazioni sociali di natura non commerciale, lo IAP non agisce più per tutelare inseressi economici dei consumatori, ma per tutelarne le “idee“, come se esistesse una sorta di presunto ordine culturale pubblico. Di fatto, come nel nostro caso, decidendo come dire una cosa lo IAP decide che cosa si deve dire. E che cosa non si deve dire. Senza giri di parole, si tratta di censura ideologica esplicita.

A peggiorare il quandro, già inquietante, ci si è messo un recente protocollo di intesa tra lo IAP e il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che oggi dipende dal Sottosegretario del Pd Maria Elena Boschi. Il Dipartimento è lo stesso che dirige e foraggia l’UNAR, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali finito recentemente nell’occhio del ciclone per aver finanziato coi fondi pubblici l’attività “contro le discriminazioni di genere” di associazioni LGBT, tra cui una che nelle sue sedi ospitava orge e altre occasioni di sesso estremo e promiscuo al limite della prostituzione.

Dal 2015, infatti, oltre a vigilare ed intervenire su una “corretta rappresentazione dell’immagine femminile“, il Protocollo IAP-Dipartimento Pari Opportunità si pone l’intento di garantire che la pubblicità rispetti la dignità della persona in tutte le sue forme ed espressioni ed “eviti ogni forma di discriminazione, compresa quella di genere“.

Ecco che ritorna, anche qui, il concetto totalmente ideologico e arbitrario di violenza e discriminazione di genere. Ecco che torna, ancora una volta, l’ideologia Gender. Insomma, la situazione è chiara: lo IAP controlla che qualsiasi comunicazione sociale, su qualsiasi tema, e in particolare sui temi “di genere”, sia conforme al pensiero unico politicamente corretto.

Non a caso, lo IAP vanta nel suo curriculum di contrasto alle discriminazioni di genere anche l’aver bannato dai canali televisivi un simpatico spot dell’azienda di pannolini Huggies, reo di aver distinto il prodotto in categorie per maschi e per femmine e di aver rappresentanto le differenze tra bambini e bambine in modo – secondo loro – stereotipato.

La pubblicità sostanzialmente diceva che il pannolino per maschietti doveva tenere in conto la maggiore propensione all’attività fisica e al moto rispetto alla preferenza delle femminucce per attività relazionali ed empatiche. Differenti attitudini scientificamente fondate in termini di tendenzialità, ma su cui è stato vietato alla Huggies di poter comunicare i propri prodotti.

 COSA RISCHIAMO

Come si è già ricordato, lo IAP è un ente privato di autodisciplina che vale solo per chi ha sottoscritto il patto di autocontrollo, e le decisioni prese dai suoi organi di verifica non hanno valore legale né giuridico. Si potrebbe quindi semplicemente ignorare le sue decisioni. Il problema però è che questo ente controlla praticamente l’intero mercato della pubblicità in Italia, e dunque ha il potere di buttarci fuori dal ring – per così dire – delle comunicazioni sociali.

Non poter più andare in televisione, in radio o non poter più affiggere per le strade i nostri messaggi, sarebbe un danno incalcolabile alla nostra attività. È qualcosa che non possiamo assolutamente permettere, e che viola la nostra libertà di pensiero, opinione ed espressione. È per questo che rifiutiamo l’invito a desistere dalla diffusione dei nostri messaggi e ci opponiamo a questa censura ideologica. Perché dobbiamo difendere i nostri diritti costituzionali.

 LE SURREALI CONTESTAZIONI

L’ingiunzione si apre con una premessa che a nostro avviso si rivelerà del tutto ipocrita:

Prima di entrare nel merito delle contestazioni giova tuttavia sottolineare che il Comitato di Controllo non intende esprimere alcuna posizione nei confronti del tema in questione e non contesta pertanto la legittimità di esprimere le proprie opinioni, quali esse siano, in proposito.

Come si dimostrerà, in realtà il Comitato contesta esattamente la legittimità di esprimere precise opinioni – ovviamente di parte – sul tema della violenza di genere. Le contestazioni del Comitato non riguardano la modalità della nostra comunicazione, ma il contenuto e il merito. Peraltro, il Comitato contesta un significato che esso stesso dà, arbitrariamente, alla nostra comunicazione. Prima attribuiscono al nostro messaggio un significato che non è quello che noi intendiamo, poi condannano il significato che loro stessi hanno dato. Vi sembra una procedura accettabile…?

Vediamo ora quali violazioni del Codice ci ha contestato lo IAP. Secondo il Presidente del Comitato di Cotrollo, Avv. Carlo Orlandi, che ha redatto l’ingiunzione, si tratta degli articoli 10, 11 e 46.

L’articolo 10 contrasta le offese alle “convinzioni morali, civili, religiose” e richiede il “rispetto della dignità della persona in tutte le sue forme ed espressioni“, contro “ogni forma di discriminazione, compresa quella di genere“. È già un paradosso che ci si accusi di averlo violato, visto che la campagna è esattamente a tutela del nostro diritto di avere delle precise convinzioni di natura anche morale. Ad ogni modo, c’è da chiedersi come la nostra campagna per la libertà educativa violi la dignità della persona o configuri una forma di discriminazione di genere.

Secondo il Presidente Orlandi il problema sorge già con la grande scritta “BASTA VIOLENZA DI GENERE“, con cui abbiamo voluto denunciare il fatto che stimolare in bambini e bambine l’idea che si possa cambiare sesso, magari con giochi fatti apposta per mettersi gli uni nei “panni” degli altri come spesso avviene anche nelle scuole, è una violenza nei confronti dell’identità di genere – maschile o femminile – dei bambini stessi.

Secondo Orlandi, però, per “violenza di genere” devono intendersi, esclusivamente, i “numerosi e odiosi atti di sopruso violento nei confronti delle donne“, mentre la nostra accezione veicola un “diverso contenuto” che “distorce il significato comune” in “termini fuorvianti per il pubblico“.

Alt! Fateci capire. Primo: chi decide qual è il “significato comune” di “violenza di genere“? Secondo: dove sta scritto che questo ipotetico “significato comune” – trattadosi di temi sociali, culturali, ideologici – sia l’unico di cui sia lecita la circolazione in pubblico? Terzo: chi stabilisce se, come e quando si possa provare a sensibilizzare il pubblico proprio sul fatto che un dato significato comune andrebbe superato, o integrato, o esteso?

Esempio: le associazioni transessuali lavorano da anni, anche con enormi e invasive campagne pubblicitarie, perché sia superato il “significato comune” di identità sessuale, e lo si declini in termini identità di genere che possa giustificare appunto la transizione da uomo a donna o viceversa. Per non parlare delle campagne sociali volte all’accettazione dell’esistenza di miriadi di identità di genere fluide. Scusate, perché loro possono intenzionalmente uscire dal “significato comune“, proprio per contestarlo, e noi no…?

Noi non stiamo vendendo un prodotto. Stiamo proponendo un’opinione. Se si potessero proporre solo le opinioni già comunemente accettate, potremmo dire di esser tornati al grado di libertà di propaganda vigente sotto il Terzo Reich di Adolf Hitler. Cioè al grado zero.

Il Presidente continua dicendo che le

modalità della comunicazione, anche per l’inequivocabile perentorietà delle immagini, sono tali da veicolare un contenuto offensivo per la dignità della persona … ovvero per tutti coloro che non si riconoscono nell’impostazione rigidamente escludente assunta dai promotori (basata sulla rigida distinzione di estrazione biologica), che seppure lecitamente esprimibile non ha ragione di ledere la libertà di veicolare altre e diverse idee e deve comunque essere veicolata come opinione di una parte“.

Alt! Fateci capire. Perché qui proprio non si capisce qual è il problema. Allora: ammettiamo per un attimo il fatto che la nostra impostazione sia “rigidamente escludente” nei confronti di chi non si riconosca nel suo sesso biologico (cosa che per inciso NON È il contenuto della comunicazione, che è invece l’invito a non insegnare ai nostri figli che si può cambiare sesso). Comunque sia, il Presidente ammette che questa impostazione è “lecitamente esprimibile“. Quindi – evviva! – lo possiamo dire (ma non era offensivo…?).

Dice però che non può “ledere la libertà di veicolare altre e diverse idee“. Ora, molto umilmente, ci pare che occupare 24 paline luminose a Roma non sia propriamente lesivo del diritto di sponsorizzare contenuti completamente opposti al nostro sulle decine di milioni di spazi pubblicitari di diversa natura presenti in Italia (cosa che peraltro già avviene). Come sarebbe violata la libertà di chi non è d’accordo con noi!?

E soprattutto: come si può dire che abbiamo violato l’articolo 46, perché non avremmo veicolato il nostro messaggio “come opinione di una parte“, se il manifesto riporta esplicitamente alla nostra campagna in corso, con tanto di loghi di Generazione Famiglia e CitizenGO Italia!?

Segue poi un paragrafo dai toni e dai termini a nostro avviso surreali che si stenta a comprendere come non possa esser definito, né più né meno, come il tentativo del Presidente Orlando di dire la sua personale opinione sul merito della campagna e, di fatto, imporla alla nostra comunicazione pubblicitaria. Scrive infatti che:

Coloro che in qualche misura non si riconoscono in categorie predefinite hanno infatti analogo diritto di non venire discriminate o giudicate da un messaggio che assurge a dogma assoluto, tanto che induce a configurare una “violenza di genere” tutto ciò che esula dal paradigma ideologico sostenuto, caricandolo di profonda negatività, quando peraltro le esperienze in cui la violenza di genere si consuma sono proprio all’interno della dinamica “tradizionale” dei rapporto maschio-femmina“.

E continua:

Un pubblico di adolescenti, personalità ancora in formazione, per esempio potrebbe risultare turbato circa la carica traumatica delle parole e delle immagini, che definiscono peraltro come “libertà” unicamente quella di proclamare l’identità sessuale come maschio o come femmina“.

Alt! Fateci capire. Ma, scusate… qual è il punto? Abbiamo o non abbiamo il diritto di avere delle opinioni? Abbiamo o non abbiamo il diritto di comunicarle? Qualcuno si sente offeso dal fatto che vogliamo restare liberi di insegnare ai nostri figli che i bambini sono maschi e le bambine femmine? La sensibilità soggettiva del destinatario è un metro di paragone capace di mandare in cortocircuito l’intero sistema pubblicitario. L’offesa è oggettiva? Dove? Che diamine c’entra il riferimento alle dinamica tradizionale maschio-femmina!? Non si sta parlando di questo! Nella seconda citazione, poi, il Presidente sembra inventare di sana pianta qualcosa che nella comunicazione è del tutto assente.

Dove mai si dice che l’unica libertà è quella di proclamare l’identità sessuale come maschio o come femmina? Signor Presidente: dove? La libertà di cui al nome della campagna è quella dei genitori di insegnare ai loro figli che chi nasce maschio è un uomo, e chi nasce femmina è una donna. Chi la pensa diversamente, ha la libertà di insegnare diversamente. Il merito dell’opinione sarà pure contestabile, ma questa libertà è tutelata dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, e non sarà certo lo IAP a censurarla!

Come vedete, si carica la nostra comunicazione di letture e significati che non sono nostrianzi sono anche del tutto inventati senza nemmeno i riferimenti testuali – e poi si critica la stessa distorsione che se ne è fatta. Assurdo!

Ad ogni modo, dopo questa serie di pesantissimi giudizi di merito, giudizi di natura personale, il Presidente conclude di nuovo dicendo che:

Simili comunicazioni seppure perfettamente ammissibili sul piano ideologico, nel momento in cui vengono veicolate con mezzi di comunicazione di massa devono farsi carico della responsabilità di chiarire che si propone un’opinione di parte, nel rispetto delle sensibilità diffuse“, contestando qui ancora la presunta violazione dell’art. 46.

Qui ci sarebbe da arrendersi per lo scoraggiamento. Primo: se il problema non sta nel tenore del messaggio, ma nella ricondubilità alla nostra parte, che senso hanno tutti i giudizi espressi in precedenza? Secondo: come si può sostenere che non sia chiaro che è una nostra opinione, se la campagna è firmata? Terzo: la nostra è proprio una delle sensibilità diffuse, ma l’unica che non può essere espressa a mezzo pubblicitario per rispetto delle altre…? Alquanto bizzarro.

MA LA PUBBLICITÀ GAY VA BENE…

E infine si arriva alla presunta violazione dell’articolo 11, per cui:

Una cura particolare deve essere posta nei messaggi che si rivolgono ai bambini, intesi come minori fino a 12 anni, e agli adolescenti o che possono essere da loro ricevuti. Questi messaggi non devono contenere nulla che possa danneggiarli psichicamente, moralmente o fisicamente e non devono inoltre abusare della loro naturale credulità o mancanza di esperienza, o del loro senso di lealtà“.

Secondo il Presidente del Comitato di Controllo dello IAP, l’articolo 11 sarebbe violato perché

la comunicazione colpisce anche quei minori non ancora pronti ad una corretta elaborazione critica del messaggio, potendo creare non solo disordine nell’immaginario, ma soprattutto la possibilità di banalizzazione di condizioni personali spesso molto delicate e anche dolorose“.

Qui si raggiungono picchi siderali di ironia della sorte. Noi contestiamo il fatto che si entri nelle classi a confondere bambini e bambine sulla loro identità sessuale, dicendo che l’identità di genere è fluida e si può transitare da una parte all’altra… e lo IAP contesta a noi la diffusione di questo rischio per le strade di Roma. Sarebbe interessante sapere di quali consulenze psicopedagogiche si sia servito il Presidente Orlandi per valutare l’impatto della nosta pubblicità su un potenziale pubblico di minori.

Sarebbe anche interessante chiedergli cosa pensa lo IAP delle pubblicità che ogni anno sponsorizzano il Gay Pride o il Gay Village a Roma come quella qui sotto, che peraltro inserisce una situazione dal chiaro tenore sessuale in ambiente scolastico:

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Questa comunicazione è adatta a un pubblico di bambini e minori? Sono in grado i bambini di “elaborare criticamente il messaggio” che vede un insegnante sulla cattedra circondato da ragazzi e ragazze seminudi in atteggiamento chiaramente provocatorio in senso sessuale? Non vi è alcun rischio di “banalizzazione di condizioni personali“, ad esempio ai danni di persone omosessuali che non si riconoscessero nel modello di rappresentazione stereotipato promosso nei suoi eventi dalle realtà LGBT? Domande su una pubblicità diffusa all’epoca in tutte le stazioni della Metro di Roma, quindi in alcuni dei punti di maggior circolazione di bambini e minori.

IN DEFINITIVA

Ci sembra evidente che le contestazioni sul merito della nostra campagna ledano – esse stesse – il nostro diritto di opinione ed espressione. L’IAP non si può arrogare il diritto di ente moralizzatore quando si tratta di temi per loro natura divisivi. Dove va a finire il famoso “sale della democrazia” in questi casi? La nostra campagna non ha ad oggetto giudizi su condizioni o scelte su altre persone. Ha ad oggetto la libertà di insegnare ai propri figli i propri convincimenti.

Le nostre opinioni sono manifestamente nostre, e la loro natura di parte è confermata dal fatto che non chiediamo altro che poterle insegnare ai nostri figli, non a quelli degli altri. In nessun modo il pubblico di minori potrebbe essere turbato dalle immagini del manifesto, anche visto che si tratta di immagini estremamente stilizzate e semplificate e non di immagini reali.

Pertanto, in relazione all’ingiunzione di desistenza n.68/17/ING comunicata dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria in data 4 ottobre 2017 a firma del Presidente del Comitato di Controllo, Avv. Orlandi, si comunica che…

 NOI NON DESISTIAMO!

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Da Generazione Famiglia

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