EBOLA. TUTTO QUELLO CHE DOVERE SAPERE SU UNA EPIDEMIA SENZA PRECEDENTI

Anche in Italia sembra che sia giunta Ebola. Nelle Marche una donna di 41 anni, di origine Nigeriana, rientrata nl nostro Paese da meno di 21 giorni, pare affetta dai sintomi della malattia. Nulla però è stato confermato con certezza.

Cosa sappiamo davvero di questo virus misterioso e terribile? Troveremo mai una cura? Che rischi corre l’Africa? E noi? Parla la dottoressa Priya Sampathkumar, infettivologa dell’ospedale numero uno d’AmericaScordatevi sieri miracolosi dell’ultimo minuto, scordatevi il colpo di scena di un risolutivo vaccino. Anche stavolta Ebola sarà fermata – perché alla fine sarà fermata – coi mezzi tradizionali che abbiamo imparato a conoscere dalle epidemie precedenti: isolamento dei pazienti e di tutti coloro che sono entrati in contatto con loro per almeno 21 giorni, reidratazione e assistenza palliativa ai malati, massime precauzioni per il personale sanitario, che deve evitare di entrare in contatto fisico diretto coi malati e deve decontaminarsi dopo ogni attività. Le recenti guarigioni non possono essere attribuite allo ZMapp, il farmaco prodotto dalla Mapp Biopharmaceutical, e la via maestra per arrestare il contagio resta un aggressivo “contact tracing”, cioè l’individuazione e la messa in quarantena di chiunque abbia avuto rapporti con un infetto conclamato.

La febbre emorragica diagnosticata per la prima volta nel 1976, nella regione del fiume Ebola nell’allora Zaire, continua ad essere una pestilenza contro la quale non esistono pallottole magiche, ma solo le armi rappresentate dalla disciplina, il coraggio e la capacità di comunicazione del personale medico e delle autorità sanitarie.

È quello che emerge anche da questa intervista con Priya Sampathkumar, consulente per le malattie infettive alla Mayo Clinic di Rochester, nel Minnesota, e direttrice presso lo stesso centro del comitato per il controllo delle infezioni, che ha l’intera responsabilità per la sorveglianza e la prevenzione allo scopo di ridurre il rischio di infezioni in ambito ospedaliero fra pazienti, personale impiegato e visitatori. La Mayo Clinic non è una struttura sanitaria fra tante: è stata recentemente classificata come il migliore ospedale di tutti gli Stati Uniti.

La dottoressa Sampathkumar smorza gli entusiasmi per il farmaco sperimentale che va sotto il nome di ZMapp: la sperimentazione del medesimo è appena all’inizio, non ne esiste nemmeno la quantità sufficiente per condurre una vera sperimentazione con test clinici sui malati. Nel frattempo Ebola, apparsa a marzo in Guinea Conakry, si è estesa ad altri tre paesi africani: Liberia, Sierra Leone e Nigeria, mentre si segnalano casi sospetti ai quattro angoli del mondo in seguito a spostamenti in aereo.

Al 20 agosto scorso il paese più colpito risultava essere la Liberia, con 1.020 casi accertati e 624 morti. Seguiva la Sierra Leone con 910 casi e 392 morti. In totale dai quattro paesi africani si segnalano 2.615 casi che avrebbero causato 1.427 morti. La mortalità, dunque, si aggira attorno al 54,5 per cento. È il tasso tipico dell’Ebola di ceppo sudanese. Esistono infatti cinque varietà diverse del virus. Quelle che causano estese epidemie sono solo tre, e di esse la più letale è quella zairese, che conduce alla morte quasi il 90 per cento degli infettati. Va ricordato che l’attuale epidemia ha già registrato più casi di qualunque epidemia del passato. Finora la più estesa aveva avuto luogo nel 2000 nel nord dell’Uganda nella regione di Gulu. I casi erano stati in tutto 425 e i morti 224. Ed ecco come la professoressa Sampathkumar risponde agli interrogativi più comuni.

Professoressa, c’è una domanda che tutti si fanno, a sei mesi dall’inizio di questa epidemia di Ebola: possiamo fermare il contagio? In passato i focolai di questa febbre emorragica erano ristretti ad aree remote dell’Africa. Oggi non rischiamo che l’epidemia diventi incontrollabile e si estenda, per la prima volta, al mondo intero?

No, l’epidemia di Ebola può essere fermata. Ma per fermarla è necessaria una vera cooperazione internazionale e miglioramenti nell’ambito dell’infrastruttura medica e di quella della sanità pubblica nei paesi colpiti.

Cosa vuol dire «miglioramenti nell’ambito dell’infrastruttura medica e di quella della sanità pubblica»? Le infrastrutture africane sono notoriamente fatiscenti.

Vuol dire che non si tratta di mandare nuovi medicinali, che ancora non esistono, ma di arrivare ad avere ospedali locali dove il personale sanitario disponga dell’indispensabile per svolgere il suo lavoro in condizioni di relativa sicurezza: maschere, guanti, camici, eccetera. Dove si utilizzino aghi e siringhe monouso, per ridurre al minimo la possibilità di trasmissione da paziente a paziente. Dove gli standard di igiene siano rispettati e i rifiuti ospedalieri trattati adeguatamente. Dove le attrezzature siano disinfettate o eliminate se monouso. Quella che ho definito “infrastruttura della sanità pubblica” invece consiste nella capacità di comunicare al pubblico come ci si deve comportare quando c’è un caso sospetto per evitare che si espanda il contagio. Si tratta di comportamenti che sono dati per scontati nel mondo occidentale, ma che in Africa vanno richiamati esplicitamente.

Perché questa epidemia sta durando più a lungo di quelle del passato? E che dire del suo tasso di mortalità? Secondo l’Oms è attorno al 54 per cento dei contagiati, dunque non particolarmente alta, ma si ha l’impressione che il personale sanitario sia stato falcidiato. Come si spiegano questi fenomeni?

Gli episodi del passato hanno avuto luogo in aree remote. Gli individui esposti al contagio non viaggiavano e non avevano accesso alle cure mediche. Per questa ragione le epidemie erano quantitativamente limitate ma presentavano alti tassi di mortalità. Nel mondo d’oggi, a causa dell’incremento degli spostamenti all’interno delle aree interessate dalla malattia, l’epidemia si è estesa a città densamente popolate e la trasmissione è avvenuta fra parenti e amici dei contagiati.

I primi casi sono stati ospedalizzati presso strutture sanitarie prive di adeguate risorse umane e strumentali per individuare immediatamente la natura dell’infezione e questo ha portato effettivamente a un aumento della sua trasmissione. Il personale ospedaliero è entrato in contatto col virus prima di rendersi conto che si trattava di Ebola, non ha fatto in tempo a prendere le opportune precauzioni. Da qui l’alto tasso di infezione fra medici e infermieri. Per questo stavolta si riscontrano più morti negli ospedali che nelle aree remote. Tutto ciò ha indebolito la fiducia della gente nella comunità medica, e le famiglie hanno cominciato a prendersi cura da sé dei membri infetti dei gruppi familiari a casa propria, spesso all’interno di aree urbane molto affollate, esponendo in questo modo molti altri individui al virus. A ciò si aggiunga, infine, che le regioni dell’Africa occidentale colpite dalla malattia vengono da lunghi anni di instabilità politica: la gente non ha fiducia nelle autorità e nel governo, e nemmeno nelle autorità sanitarie. Sono poco propensi ad ascoltarle e a seguire i loro consigli.

Cosa sappiamo delle origini della malattia a questo punto? Quali sono i vettori attraverso i quali si espande? Questo morbo così temuto e misterioso ha rivelato finalmente tutti i suoi segreti?

Ebola è un’infezione zoonotica, cioè il virus è ospitato nel corpo di un animale e da lì si trasmette agli esseri umani di solito attraverso il contatto dentro la foresta con carcasse di animali morti, magari perché cacciati, o per via alimentare quando si mangiano le carni di questi animali selvatici. Dopodiché il virus può passare da una persona a un’altra attraverso il contatto senza protezione delle membrane delle mucose o il contatto di lesioni cutanee con sangue infetto o altri fluidi corporei di un persona infettata.

Si sottolinea che il virus non si trasmette attraverso l’aria, però potrebbe trasmettersi nella forma cosiddetta aerosol: starnuti, colpi di tosse, eccetera.

In base a tutto quello che sappiamo fino ad ora, non sembra che si trasmetta attraverso l’aria. Negli Stati Uniti il Cdc di Atlanta (Centre for disease control, la massima autorità americana in materia di malattie infettive, ndr) ci ha invitato a prendere precauzioni contro la possibile generazione di infezioni per via aerosol. Stiamo attrezzandoci di conseguenza. Ma tutte le evidenze scientifiche non fanno pensare che la trasmissione per via aerea sia una modalità di contagio importante.

Quali animali sono maggiormente sospettati di essere all’origine dell’epidemia in questo caso? Si è parlato molto dei pipistrelli della frutta.

Non lo sappiamo ancora con certezza. Negli episodi del passato i principali indiziati erano i grandi primati, scimpanzé e gorilla. Animali braccati e cacciati da molti cacciatori. Si dice che stavolta abbiamo a che fare coi pipistrelli come vettori animali dell’infezione, ma la cosa non è ancora chiara. Non è chiaro se i pipistrelli sono coinvolti o no.

Premesso tutto questo, cosa dobbiamo veramente fare per fermare l’epidemia? C’è la possibilità che si arresti spontaneamente da sola, come è accaduto in passato?

I paesi colpiti hanno bisogno di aiuto da parte della comunità internazionale per fermare questa epidemia. È improbabile che si fermi da sé spontaneamente. C’è urgente bisogno di personale e di know-how relativo alla sanità pubblica soprattutto per effettuare il “contact tracing” al fine di limitare l’ulteriore diffusione della malattia. Bisogna migliorare l’igiene e la gestione dei rifiuti ospedalieri. Sommando insieme miglioramenti nell’infrastruttura ospedaliera e un’accresciuta attenzione al controllo di base dell’infezione e ai princìpi dell’igiene, l’epidemia può essere fermata.

Che cos’è il “contact tracing”?

Se noi ci troviamo di fronte a un caso di infezione, le persone che stanno abitualmente intorno al paziente sono tutte esposte al contagio. Potenzialmente possono tutte ammalarsi. Se permettiamo loro di continuare ad avere relazioni sociali fuori dalla casa, esponiamo un’intera comunità al contagio. Se noi abbiamo un caso di Ebola in una famiglia dove ci sono anche altre quattro persone, e a queste imponiamo di non uscire di casa per i successivi 21 giorni, il massimo pericolo di contagio riguarda solo quelle quattro persone. Ma se quelle quattro persone continuano a uscire di casa e ciascuna di loro ne incontra altre dieci, subito abbiamo un gruppo di 40 persone a rischio. Il “contact tracing” dunque consiste nell’identificare quelle quattro persone che sono state esposte al virus che ha colpito il loro familiare, e nell’evitare che entrino in contatto con altri. Altrimenti l’infezione si diffonde in cerchi concentrici. È proprio ciò che deve essere evitato.

 Conosciamo il numero esatto delle infezioni avvenute nel corso di quest’ultima epidemia fino ad oggi? Si tratta di cifre affidabili?

L’Oms aggiorna settimanalmente il conteggio dei casi appurati, ma riconosce che la cifra esatta resta sconosciuta e che i numeri registrati probabilmente rappresentano una sottostima delle dimensioni dell’epidemia.

Dobbiamo continuare a scrivere che non c’è nessuna cura, nessun farmaco, nessun vaccino per Ebola? Cosa pensa di questo ZMapp, il farmaco sperimentale che è stato somministrato ad alcuni pazienti? Può essere indicato come l’origine di alcune guarigioni? Quanto siamo lontani da un vaccino anti-Ebola?

Fino ad oggi non esiste nesun trattamento efficace contro Ebola. Lo ZMapp è stato usato solo con un pugno di pazienti e non ne esiste nemmeno una quantità sufficiente anche solo per prendere in considerazione una sperimentazione farmacologica sotto controllo clinico. Siamo lontani ancora parecchi anni da un vaccino efficace contro Ebola.

Una persona guarita dalla malattia per quanto tempo resta ancora infetta e contagiosa?

Quando una persona guarisce la sua infettività diminuisce fino a un livello che rende non più trasmissibile la malattia. Però nel caso dei maschi il virus rimane presente ancora per molto tempo nello sperma, e nuovi contagi potrebbero avvenire per via sessuale ancora per quasi tre mesi.

Lei è la responsabile delle malattie infettive alla Mayo Clinic. Quali programmi conducete a questo riguardo?

La Mayo Clinic è uno dei più importanti istituti clinici, di ricerca e per l’insegnamento del paese. È stata indicata come il migliore ospedale di tutti gli Stati Uniti. Non abbiamo un programma di ricerca dedicato ad Ebola, ma abbiamo un eccellente programma relativo alla prevenzione delle infezioni e lavoriamo a stretto contatto con le autorità sanitarie pubbliche in materia di focolai di epidemie e sulle modalità di intervento per limitare la trasmissione delle malattie infettive.

Rodolfo Casadei

Tempi. it, 8 settembre 2014

Comments are closed.