I PERSEGUITATI E I CRISTIANI “DA PASTICCERIA”

I CRISTIANI PERSEGUITATI

Nella Settimana Santa ho avuto la grazia e la fortuna di passare molte ore in confessionale donando, nonostante la mia povertà di uomo e di sacerdote, “il perdono dei peccati” a nome del Signore Gesù. Quella della confessione è una delle esperienze più belle della vita sacerdotale.

In confessionale incontri  situazioni di ogni genere; cristiani adulti e autentici che testimoniano nella quotidianità con impegno la loro fede; cristiani convinti dell’importanza del sacramento della riconciliazione che preparano con serietà e lo vivono come fatto esistenziale. Ma, ti imbatti  anche in uomini e donne che papa Francesco ha definito “cristiani da pasticceria” (4.10.2003),  completamente assorbiti dalla mondanità e, di conseguenza, vivono la loro religiosità superficialmente, non si confessa mai o al massimo una volta all’anno per adempiere  a un precetto della Chiesa.

E COSA TI RACCONTANO I “CRISTIANI DA PASTICCERIA”?

I più sono convinti che il peccato non appartenga alla loro vita: “Io penso di non aver peccato; non ho ucciso nessuno, non ho rubato, non ho fatto del male agli altri… Penso agli affari miei e gli altri non mi interessano… Mi sento in coscienza a posto con Dio  ”.

Ascoltandoli, mi sono ricordato di Salem Matti Kourk aveva 43 anni.

“Era cristiano, abitava a Bartalah, una cittadina situata nella piana di Ninive, in Iraq. Quando l’8 agosto del 2014 Bartalah è stata conquistata dai miliziani dello Stato Islamico, il Califfato di Abu Bakr al Baghdadi, la maggior parte dei cristiani aveva già lasciato la città, aggiungendosi alle centinaia di migliaia di profughi incalzati dall’avanzata delle milizie jihadiste. Salem è stato uno dei pochi a rimanere. Non era stato in grado di affrontare il viaggio con il resto della famiglia perché affetto da problemi cardiaci.
Da quel giorno è rimasto nascosto in casa. Ne è uscito il 1° settembre per la prima volta, spinto dalla fame, per procurarsi cibo e acqua, avendo finito tutte le scorte. Ma i jihadisti lo hanno fermato e arrestato a un posto di blocco nel centro della città, di fronte alla chiesa della Vergine Maria. I miliziani volevano che si convertisse all’Islam, gli hanno ingiunto di abiurare il Cristianesimo. Salem ha rifiutato. Lo hanno torturato a morte, ma non ha ceduto. Hanno poi gettato il suo cadavere per strada dove è rimasto finché dei passanti l’hanno raccolto e sepolto”*.

Altri, penitenti, si dichiaravano “cristiani ma non praticanti”. Frase difficile da comprendere; forse interpretavano secondo le proprie comodità e i propri gusti  le parole di Gesù.

E allora passava davanti ai miei occhi il volto di Asia Bibi.

Quando nel 2009 la polizia è andata a prenderla, Asia Bibi, giovane cristiana cattolica madre di cinque figli, subito non ha capito. Aveva avuto una discussione con delle compagne di lavoro musulmane, niente di serio, così credeva. Invece loro l’avevano denunciata, accusandola di aver detto parole offensive contro Maometto: un’accusa gravissima in Pakistan, dove Asia vive e dove la legge punisce la blasfemia –offendere la fede con parole e azioni – anche con la morte. Nel 2010 Asia è stata condannata a morte mediante impiccagione. Nel 2014 la sentenza è stata confermata in secondo grado. Si attende ora l’esito del ricorso presso la Corte Suprema, terzo e ultimo grado di giudizio. Dal 2009 Asia è in prigione. Il giudice Naveed Iqbal, che per primo l’ha condannata, un giorno le ha fatto visita per offrirle la revoca della sentenza, a condizione che si convertisse all’Islam. “Io l’ho ringraziato di cuore per la sua proposta – racconta Asia – ma gli ho risposto con tutta onestà che preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana. Sono stata condannata perché cristiana – gli ho detto – credo in Dio e nel suo grande amore. Se lei mi ha condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui”*

Non pochi penitenti hanno affermato di pregare poco e quasi mai.

Ed ecco che si presentava il ricordo di Kim Sang-Hwa.

“Kim Sang-Hwa è la figlia del capo di una chiesa clandestina della Corea del Nord. Ha saputo che i suoi genitori erano cristiani quando, all’età di 12 anni, ha scoperto per caso una Bibbia in un cassetto nascosto. “Incominciai a tremare – racconta – ero terrorizzata. La scoperta poteva costarmi la vita. Che cosa dovevo fare, mi domandavo. Dovevo parlare con il mio insegnante? Oppure andare dal funzionario di sicurezza? Rimisi la Bibbia al suo posto e per 15 giorni non feci che pensarci. Sapevo che era mio dovere denunciare il libro illegale. Ma d’altra parte si trattava della mia famiglia”. Alla fine Kim ne ha parlato con suo padre. Così ha scoperto di essere cristiana. I suoi genitori da allora le hanno fatto leggere la Bibbia e le hanno insegnato a pregare, raccomandandole sempre di non parlarne con nessuno. “Pregavamo bisbigliando per timore che qualcuno sentisse. Neanche i miei fratelli maggiori sapevano la verità”. Qualche volta si riunivano con altri fedeli per pregare e leggere la Bibbia, ma sempre con la paura che qualcuno facesse la spia. Adesso Kim vive nella Corea del Sud. È riuscita a fuggire, è libera, ma al prezzo di essere separata per sempre dal resto della famiglia”*.

Poi ho incontrato gli “assenti” alla Messa della domenica ritenuta un optional. Ma subito si giustificavano: “quando ho tempo”, “quando ho voglia”, “quando me la sento”… partecipo!

Di fronte a questi “tanti” che per partecipare alla Messa della domenica dovrebbero compiere solo poche centinaia di metri il mio ricordo andava a chi rischiava la vita per non mancare all’ incontro settimanale con il Signore Risorto; al pastore Zakaria Jadi.

“Il pastore Zakaria Jadi stava partecipando nella propria chiesa a un incontro con altri sacerdoti quel 16 gennaio del 2015 quando in Niger è esplosa incontrollata la violenza popolare contro i cristiani. Padre Jadi, al verificarsi dei primi attacchi,  è corso ad avvisare i colleghi di portare al sicuro le famiglie. Quando è tornato indietro, ha trovato la chiesa e casa sua devastate. Quel giorno e il giorno successivo sono state saccheggiate e incendiate 45 chiese e si è scatenata una vera e propria caccia ai cristiani, con 10 vittime, una delle quali trovata carbonizzata in una chiesa cattolica. Tornata la calma, i sacerdoti dell’arcidiocesi della capitale Niamey hanno partecipato a una cerimonia simbolica davanti alla statua della Vergine Maria danneggiata nel rogo della chiesa di Sant’Agostino. La domenica successiva tutti i parroci hanno celebrato messa pur senza i paramenti, andati perduti, in chiese riallestite sotto teloni, con sedie affittate e tavoli come altari. Molti fedeli hanno donato parte dei loro salari, tutti si sono offerti per ripulire, liberare dalle macerie, rimediare ai danni e, appena possibile, ricostruire le chiese”*.

I miei penitenti annuali o quasi, rimanevano stupiti quando domandavo loro se fossero testimoni nella quotidianità dei valori evangelici. “Oh no!”, mi rispondevano. Per loro essere cristiani è un fatto strettamente privato; cristiani in chiesa, poco in famiglia, per nulla sul luogo di lavoro o nel sociale.

Di fronte alle loro riposte mi sono ricordato di sei famiglie del Laos.

In Laos, nell’estate del 2014, sei famiglie cristiane di etnia Hmong, circa 25 persone tra adulti e bambini, sono state costrette a forza a lasciare il loro villaggio, Ko Hai. Senza più casa e mezzi di sussistenza, partiti con quel poco di indumenti e suppellettili che hanno potuto mettere insieme e trasportare, da allora hanno trovato provvisoria accoglienza in un altro villaggio del loro stesso distretto. Le sei famiglie si sono inimicate il resto della comunità per il loro persistente rifiuto di tornare alla religione tradizionale, animista, praticata dalla maggior parte degli abitanti di Ko Hai e dei dintorni. I capi del loro villaggio, con il sostegno delle autorità locali, a luglio avevano arrestato due di loro e, in carcere, avevano tentato di indurli ad abiurare. Vista la loro resistenza, dopo un mese li avevano liberati, ma continuavano ad esercitare pressioni e intimidazioni sulle famiglie finchè, non ottenendo che rinunciassero alla fede cristiana, le hanno espulse. Altri due cristiani Hmong sono in carcere da novembre per la stessa ragione: il rifiuto di abiurare. Fanno parte di un gruppo di sette cristiani, tra cui un ragazzino di 14 anni, arrestati nel nord ovest del paese”*.

I cristiani uccisi a causa della loro fede nel 2014 sono stato oltre 4000 più i perseguitati. E anche nei primi mesi del 2015 sono parecchi, troppi per essere elencati tutti. Ricordiamo solo alcuni episodi recenti.

Nella notte di Pasqua in Egitto un commando ha preso di mira una chiesa copta e alcune persone sono rimaste ferite in un attacco armato contro una chiesa di Alessandria, città costiera del Nord dell’Egitto .

Nel giorno di Pasqua, gli jihadisti del Califfato hanno completamente raso al suolo la chiesa della Vergine Maria nel villaggio cristiano siriano di Tel Nasri che fa parte del gruppo di villaggi dei cristiani siriani attaccati e occupati dall’Isis il 23 febbraio scorso. In quell’occasione furono uccisi 21 cristiani e altri 373 rapiti. Di loro solo 23 sono stati rilasciati, mentre è ignota la sorte di tutti gli altri.

Il Giovedì Santo, 147 cristiani sono trucidati dalla furia jihadista degli estremisti somali in un campus universitario del Kenya. Si è trattato di un chiaro massacro religioso: i terroristi hanno separato i cristiani dagli altri studenti prima di ucciderli.

È uno sterminio” ha ricordato il cardinale A. Bagnasco nella Veglia Pasquale. “La barbarie fanatiche e feroci continuano ad esibirsi senza fermarsi davanti a nulla e a nessuno”.  E tutto questo nel “silenzio generale”, ha continuato il cardinale Bagnasco, “mentre il mondo sta a guardare, occupato dai propri interessi, paure e incapacità di governare: regna una colpevole inettitudine. La follia fanatica, cieca e iconoclasta sta azzerando patrimoni che appartengono alla storia umana; ma soprattutto sta cancellando minoranze etniche, religiose e culturali fatte di uomini e donne, anziani, bambini e giovani che sono privati non solo di futuro, ma anche della vita”.

Il cardinale ha tentato poi di identificare le cause: “È indifferenza davanti al dolore e all’ingiustizia? È paura vile verso chi semina terrore e minaccia rappresaglie? È timore di compromettere i propri affari con chi si condanna flebilmente di giorno e si fanno commerci di notte? È la ricerca di espandere la propria influenza geopolitica attraverso alleanze variabili e sostegni segreti?”.

Emblematico è l’episodio accaduto alcuni giorni fa nella “Francia laicista” dove tre sacerdoti cantanti hanno organizzato per il 14 giugno un evento all’ Olympia di Parigi. Sul manifesto per pubblicizzare l’evento appariva la scritta “Au profit des chrétiens d’Orient”, che segnalava cioè che gli incassi sarebbero stati devoluti in favore dei cristiani d’oriente. Ma è scomparsa la scritta con la destinazione dell’incasso con la seguente spiegazione dei vertici dei servizi metropolitani (Ratp): “il metrò è uno spazio laico, dove non sono ammesse prese di posizione né politiche né religiose”. Un episodio così commentato da C.  Martinetti sulla Stampa: “Di integralismo si può morire per le fucilate degli uomini del Califfo,  ma si può morire anche per la stupidità di quelli che hanno fatto della laicità un nuovo integralismo e non una difesa da esso” (2 aprile 2015).

“Cristiani da pasticceria” e “stupidi timorosi” ricordatevi la parola del Signore Gesù: “ la verità vi farà liberi” (Gv 8,32), il tutto accompagnato dalla coerenza di cui un cristiano dovrebbe essere il primo testimone come quelli  del Kenya di cui riportiamo la testimonianza.

“Quando i terroristi al Shabaab hanno incominciato a sparare, Douglas Ochwodho si è finto morto. È stato così l’unico a salvarsi dei 29 cristiani – oltre a lui, 19 uomini e nove donne – che viaggiavano con altre 30 persone su un pullman attaccato nel novembre del 2014 nel nord del Kenya. “Erano somali, una decina, pesantemente armati – ha raccontato un altro superstite, un islamico – Quando ci hanno fatti scendere, hanno ordinato a tutti di leggere alcuni versi del Corano in arabo. A quelli che non sono stati capaci di farlo, hanno ingiunto di stendersi per terra e poi li hanno uccisi sparando loro in testa a bruciapelo. Anche un anno prima, durante l’assalto a un centro commerciale della capitale Nairobi, gli al Shabaab avevano individuato i musulmani facendo recitare alla gente presa in ostaggio versi del Corano e preghiere in arabo e li avevano fatti uscire sani e salvi dall’edificio. Le vittime erano state 67. Nel 2014 sono morti in questo modo, individuati come cristiani e per questo uccisi, 36 operai di un cantiere, 48 abitanti di una cittadina e 15 residenti in due villaggi in cui sono state anche rapite 12 donne. E’nell’agosto del 2014, che per la prima volta, in Kenya, gli al Shabaab hanno sequestrato e decapitato un cristiano”*.

(*Le testimonianze sono prese da una Via Crucis svoltasi a Ivrea)

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