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 Una giornalista inglese scrive un articolo per descrivere, al di là di ogni stucchevole sentimentalismo, cosa significhi essere fratelli di un Down. Dando così una risposta convincente al filosofo che non li vorrebbe sulla faccia della terra.

«Non dovremmo difendere il diritto alla vita delle persone con la sindrome di Down perché sono angeli coraggiosi. Piuttosto, dovremmo farlo semplicemente perché sono esseri umani come noi». Così Madeleine Teahan, collaboratrice del Guardian e redattrice del Catholic Herald, è intervenuta nel dibattito seguito alle parole di quello che lei definisce il «truculento Richard Dawkins», che «ha provocato l’indignazione di Twitter dicendo a una delle sue seguaci che se avesse scoperto che era incinta di un bambino Down avrebbe dovuto “abortire e riprovare”. Aggiungendo che “sarebbe immorale farlo nascere, se puoi scegliere”».

UN ALTRO PUNTO DI VISTA. La tesi della giornalista nasce dall’esperienza della sorella Anna, 23enne, affetta da trisomia 21. «Quando avevo sei anni – racconta Teahan – la mia maestra delle elementari ci lesse una storia su un anello magico che esaudiva il tuo desiderio quando lo strofinavi. (…) Non ho dovuto pensarci su molto. Mia madre era parecchio giù di morale da quando mia sorella era nata un anno prima. Perciò seppi da subito qual era il mio desiderio: che mia sorella Anna non fosse più affetta dalla sindrome di Down». Affinché «si dissolvesse» quella che Teahan definisce senza romanticismi «la nube grigia che sovrastava casa nostra».

IL PROBLEMA NON E’ LA FELICITA’. Resta l’utilitarismo feroce di Dawkins che, secondo la giornalista, «è scioccante, ma non sorprendente». Infatti, se si facesse un sondaggio, la media degli inglesi sosterrebbero che «abortire un bambino con la sindrome di Down è un atto di misericordia». Ma Teahan sostiene che anche chi è contro questa visione spesso si mette sullo stesso piano dell’utilitarismo, controbattendo che «molte persone con la sindrome di Down hanno superato tutte le aspettative mediche, vivendo felicemente, raggiungendo uno stato di vita indipendente». Purtroppo così «stiamo mancando il punto» ed «è conveniente dimenticarci di questo aspetto», perché «mentre molti bambini con la sindrome di Down frequenteranno le scuole tradizionali, avranno un lavoro e si gestiranno da soli, altri invece no. Mia sorella Anna faceva parte di questa categoria più promettente nei primi anni della sua vita (…). Ma ad Anna fu diagnosticata una rara forma di epilessia (…). Il mese scorso ha compiuto 23 anni, ora è sulla sedia a rotelle e dipende interamente dall’amore e dalla buona volontà di altre persone (…) ed viene idratata con un tubo». Inoltre «guardare una persona cara soffrire di un attacco epilettico può lasciarti fisicamente indolenzita dalla tristezza, in aggiunta allo sforzo nelle cure dei miei genitori a volte inimmaginabile».

OLTRE LE APPARENZE. Quello disegnato da Teahan sembrerebbe il ritratto desolante di una giovane donna malata e della sua famiglia. Ma solo «a prima vista», sostiene la giornalista, che descrive così di che cosa sia capace l’esistenza di una persona, per malata che sia: «Ciò che è altrettanto inimmaginabile è quello che Anna ha fatto per ogni persona che ha avuto il privilegio di conoscerla. Le persone come Anna rendono santi gli altri. E non manca mai di commuovermi quando vedo qualcuno – a volte una persona che ho escluso o sottovalutato – avvicinarsi a lei e parlarle con cura e rispetto (…). Niente mi rende più felice delle rare volte che la porto al centro di assistenza pomeridiano e vedo la faccia dei membri del personale illuminarsi al suo arrivo, dicendomi quanto amano mia sorella».

UN PRIVILEGIO PER POCHI. Che poi non ci sia differenza anche fra un genitore in attesa di un figlio sano o di uno malato, Teahan lo spiega ricordando che, «come ogni bambino, Anna ha portato ai miei genitori sia pena sia felicità. In fondo, sappiamo tutti che i mentalmente abili e i normodotati possono anche causare notevoli dolori ai genitori». Anzi, spesso le persone malate possono offrire qualcosa di più delle altre a chi le accoglie. «Mi rendo conto a quasi trent’anni – confessa la giornalista – che mentre i genitori di molti miei coetanei stanno divorziando o si allontanano quando i loro figli escono di casa, Anna rafforza il matrimonio dei miei genitori, in un modo in cui il resto di noi figli non sarebbe capace». Ma la gratitudine è anche dei fratelli. Infatti, «un bambino disabile richiede l’amore incondizionato e il sostegno di entrambi i suoi genitori e io ho il privilegio di essere testimone non solo del miglior esempio di ciò che sono una madre e un padre, ma anche di un marito e una moglie».

IL BENE ALIMENTATO. Pur ammettendo che, come da bimba, chiederebbe ancora la salute di Anna «risparmiandole il dolore sofferto», Teahan, si rende conto «ora che se Anna non avesse la sindrome di Down allora non sarebbe la sorella minore che, per grazia di Dio, nutre senza sforzo tutto il bene che c’è in me». Perciò, pur credendo che la sorella «sia più felice della maggioranza delle persone che conosco», la giornalista ripete che il valore della vita non va discusso tramite «una lista di attributi fisici e mentali (…). Il modo di contrastare l’atteggiamento agghiacciante di Dawkins non è quello di convincerlo di quanto le persone con la sindrome di Down possano essere fisicamente o mentalmente abili, ma di affermare che il diritto alla vita è inalienabile, indipendentemente dalla capacità».

«DAWKINS MI FA PENA». Sopratutto «il nostro punto di partenza deve essere quello di affermare la loro comune umanità», perché «quando Anna soffre o vive, io sono colpita per il fatto che lei è un essere umano. Ed è perché lei è proprio come me – non perché è diversa – che mi chiede silenziosamente di essere migliore e più coraggiosa». È il motivo per cui Dawkins «mi fa pena», perché non può «comprendere il valore inestimabile delle persone come Anna e perché lei non potrà mai cambiare la sua vita nel modo in cui ha cambiato le vite di altri».

Benedetta Frigerio

Tempi.it, 7 settembre 2014

 

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