Archivio bioetica

Osservatore Romano, 10 luglio 2017

Intelligenza artificiale. «Costruire un mondo migliore, ma a quale prezzo?»

Intervista a Luciano Floridi, docente di filosofia ed etica dell’informazione a Oxford: «La tecnologia porterà sviluppo. Molti però resteranno indietro e dovremo occuparcene».

«La tecnologia a nostra disposizione ci dà una leggera spinta verso il mondo migliore. Siamo davanti a un bivio in cui c’è una strada leggermente più facile da prendere. Ma è possibile che si prenda l’altra, ossia quella sbagliata». Così Luciano Floridi, docente di filosofia ed etica dell’informazione all’università di Oxford, riassume la questione delle sfide etiche che le rapide innovazioni dell’intelligenza artificiale pongono al nostro mondo. Su questo tema il filosofo è intervenuto il 6 luglio al convegno del Cortile dei gentili tenutosi all’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, alla presenza del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la cultura. In quest’intervista concessa all’Osservatore Romano a margine dell’incontro, Floridi si sofferma sui grandi benefici che l’uomo potrà trarre da tali progressi tecnici, a patto di non cedere alla tentazione di credersi solo nell’universo.

Il Cortile dei gentili ha affrontato il tema dell’intelligenza artificiale (ia) con entusiasmo ma anche con grandi riserve. Nella sua relazione il cardinale Ravasi ha parlato del passaggio dall’“homo faber” all’“homo creator” che, insieme alla possibilità di superare i limiti biologici, fa nascere anche il rischio che l’uomo si creda così potente da sostituire Dio. Da laico esperto in intelligenza artificiale condivide queste preoccupazioni?
Dalla mia prospettiva laica, che non è alternativa ma è complementare rispetto a quella del cardinale Ravasi, ritengo che queste preoccupazioni siano del tutto giustificate. Sono anche moderatamente — questa è una parola importante — ottimista sulla possibilità di risolverle, ma ci vuole tanta buona volontà. Innanzitutto dobbiamo preoccuparci di questa nuova forma di agenti autonomi, in grado di apprendere da soli. In secondo luogo dobbiamo chiederci di chi sia la responsabilità di quello che sta succedendo. La risposta è semplice: è tutta nostra; è umana e resterà umana. L’ultima domanda è: saremo in grado di risolvere questi problemi? Penso di sì, però ci vuole l’impegno e l’intelligenza che abbiamo messo oggi in quest’incontro: la mia paura riguarda non tanto le difficoltà in sé, quanto il fatto che se ne sottovaluti l’importanza, che non si investa intellettualmente in questa direzione e quindi che qualche disastro si possa produrre. Solo dopo che ciò sarà avvenuto, si cercherà di correre ai ripari dicendo che avremmo dovuto pensarci prima. È già successo tante volte nella storia della vita umana: è successo con l’ambientalismo, col nucleare, con la schiavitù e i campi di concentramento. Abbiamo fatto degli errori orrendi, mostruosi, ma non serve arrivare a un completo e totale disastro per poi ripensarci. Questa volta ci stiamo ripensando in tempo. Solo così si potrà prendere la direzione giusta.

Molti filosofi cristiani vedono nell’emergenza della modernità rinascimentale anche l’espressione di una crisi dell’uomo e del suo rapporto con il creato: l’uomo è divenuto il centro dell’universo, arrivando a voler dominare la natura. Si può evitare che l’IA esasperi tale dinamica, divenendo invece un’opportunità per ripensare il nostro rapporto con la “casa comune” e con il creato?
Direi che siamo un po’ ambigui. Entrambe le alternative sono possibili. Forse la tecnologia a nostra disposizione ci dà una leggera spinta verso il mondo migliore. Siamo davanti a un bivio in cui c’è una strada leggermente più facile da prendere. Ma è possibilissimo che si prenda l’altra, ossia quella sbagliata. C’è una tecnologia che ci invoglia oggi a essere più altruisti, ma questo non vuol dire che lo saremo; che ci invoglia a essere più attenti alla natura, ma non vuol dire che lo saremo. Il punto che lei solleva mi sembra molto importante, quello della modernità dal Rinascimento in poi in un mondo che diventa sempre più secolarizzato. Nella mia prospettiva, è come se ci fossero due ingredienti, invece di uno soltanto. In un mondo completamente ateo, avviene una cosa bruttissima: l’umanità non è in grado di essere riconoscente a nessuno. È come se ci fosse una bellissima festa in cui tutto è perfetto, ma ci sono soltanto io. C’è poco da divertirsi. Nei momenti di gioia, non possiamo essere grati a nessuno. Manca l’ultima forma di alterità, che è quella di Dio. E questo l’ateo non lo capisce, non lo coglie completamente. Al contempo se ci sono soltanto io, mi posso davvero mettere al centro dell’universo? Da un lato si può dire «che bello ci siamo soltanto noi, allora dominiamo la natura, questo pianeta è un limone, lo spremiamo, ne creeremo un altro!». Quante volte sentiamo dire che si deve civilizzare e trasformare Marte perché questo pianeta sta per finire: ma così ci spostiamo e ne andiamo a consumare un altro. Sono cose catastrofiche. Lo stesso ragionamento è quello che ci dice che la vita non è tanto bella se siamo da soli in mezzo all’universo. Nell’assenza dell’altro c’è questo doppio problema: la mancanza di riconoscenza e l’intento costante di mettersi al centro. Ma noi al centro non siamo! Se ci poniamo invece in un contesto di fede, allora c’è un grande Altro, un’alterità totale che non è aliena ma che è legata a noi, e che ci permette anche di metterci in periferia. In questo modo possiamo essere partecipi della festa invece di comportarci come un teenager che pensa che la festa sia sempre la sua. Questi due vantaggi — e lo dico da laico, dunque dall’esterno — li trovo assolutamente cruciali per pensare il futuro. Mettendoci in periferia e provando riconoscenza nei confronti di qualcosa che ci è stato dato e che non è nostro è come se avessimo due strumenti fondamentali che ci insegnano come risolvere le presenti sfide. Due strumenti di cui avremo bisogno per non ricadere nei vecchi errori.

In un recente articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, lei scrive che l’IA sta passando da fantascienza a forza sociale. Ma come è possibile metterla oggi al servizio concreto della persona?
In molto contesti fantascientifici abbiamo piccoli robot che fanno le cose al posto nostro, meglio di noi. Oggi, ad esempio, le lastre sono lette meglio dall’ia che da un radiologo; l’operazione della cataratta viene eseguita da un robot e non invece dalla mano tremolante di qualcuno che magari, quel giorno, è un po’ stanco; esattamente come l’aereo viene pilotato e atterra meglio con un sistema artificiale piuttosto che da un pilota. Abbiamo robot su Marte che autonomamente raccolgono e mandano informazioni a noi qui sulla terra. Sono cose che da ragazzi negli anni Settanta vedevamo nei film di fantascienza in bianco e nero: eppure queste cose che sembravano allora assolutamente futuristiche oggi fanno parte del nostro quotidiano. Le aree interessate da questi benefici sono tre. La prima è la realizzazione di cose che non dovremmo fare noi, ma che dovrebbero invece fare i robot e l’intelligenza artificiale. Abbiamo trovato un modo per non lavare più i piatti, domani faremo tagliare i giardini, non c’è bisogno che lo facciamo noi. La seconda è il crollo dei costi di tante cose, come ad esempio i viaggi aerei divenuti molto più economici grazie alla digitalizzazione. In terzo luogo, direi che ci rimane ora da pensare l’impensabile, e cioè cose che noi fino a qui non abbiamo mai pensato di fare: sappiamo che le grandi possibilità tecnologiche ci permetteranno di fare cose magiche che non abbiamo ancora inventato. In questo contesto, tuttavia, è fondamentale riconoscere che cosa significa essere arrivati a una meccanizzazione dell’azione privata dall’intelligenza. Molti pensano che l’attuale contesto sia un matrimonio tra intelligenza e azione: in realtà invece si tratta del divorzio tra l’azione e l’intelligenza. Oggi il mio telefonino gioca meglio a scacchi di chiunque, eppure l’intelligenza non gli serve. Abbiamo creato una frattura tra queste due cose e la preoccupazione è grande.

A conclusione del suo intervento, ha detto che la società dovrà farsi carico dei costi immediati dell’IA. Cosa intende? Si pone in una prospettiva schumpeteriana di “distruzione creativa”?
Esattamente. Lei ha colto quello che intendevo tra le righe. Quando c’è una trasformazione socioeconomica così profonda e veloce, è quasi impossibile per la generazione attuale adattarsi allo stesso passo. Molti resteranno indietro. Dobbiamo assicurarci che chi resta indietro non sia la classe sociale che paga il costo di uno sviluppo meraviglioso. Chi verrà dopo di noi nella migliore ipotesi usufruirà di questo straordinaria invenzione umana, ed è bellissimo. Ma non è giusto che chi oggi si trova spiazzato in termini di perdita di ruolo, lavoro e reddito debba pagarne tutte le conseguenze. La civiltà ne trarrà beneficio e quindi è giusto che tutta la società si faccia anche carico dei costi che questo beneficio comporterà.

Quali categorie saranno coinvolte per prime?
Molti dei lavori che sono strutturati in termini di interfaccia. Si pensi a chi fino all’altro ieri faceva le fotocopie, a chi lavora in segreteria o chi controlla i biglietti all’aeroporto: sono tutti lavori che in realtà servono a mettere noi in connessione con la macchina o la macchina in connessione con noi. Sono lavori d’interfaccia, quindi sono destinati a sparire. È meglio che troviamo una soluzione.

 

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