Cos’è l’unità dei cattolici secondo don Giussani

By 3 Marzo 2018Attualità

Che i cattolici siano sparsi è un bene? «È un dolore», diceva il fondatore di Cl. Qualche spunto per alimentare un dibattito.
Un breve excursus storico.

Come giudica le divergenze tra cattolici che si manifestano sul terreno sociale o politico?
Idealmente noi dobbiamo tendere all’unità anche in politica, perché i cristiani debbono tendere all’unità in tutto, dato che sono un corpo solo. Perciò è un dolore non trovarsi dello stesso parere, non un diritto conclamato sconsideratamente. È dolorosa, anche se tante volte inevitabile, la diversità, e bisogna essere tutti tesi a scoprire il perché il fratello la pensa diversamente e comunicargli nel modo migliore i motivi della propria convinzione, nella ricerca dell’unità.

Per molti invece il pluralismo è un valore in sé…
È esattamente questo che noi combattiamo. Il Sinodo, parlando dei cristiani, non ha usato la parola “pluralismo”, ma “multiformità”: multiformità è, per esempio, la presenza nella Chiesa del movimento dei Focolari, dell’Azione Cattolica, di Cl, che sono diverse modalità di sperimentare la stessa cosa che è il fatto cristiano; così fra loro c’è un’affinità, una parentela profonda. Uno è contento di vedere che l’altro ha una fantasia diversa dalla propria…

E il pluralismo?
Il pluralismo invece è l’esito dell’impatto della fede sul campo culturale: che ci sia, per esempio politicamente, diversità fra cattolici, è umanamente comprensibile, ma non è l’ideale. L’importante che almeno, pur avendo opinioni diverse, ci si senta dentro la stessa cosa, ma spesso questo non avviene: in molto associazionismo cattolico e anche in molte parrocchie, pesa di più essere della stessa parte politica piuttosto che della stessa fede. La posizione giusta, secondo noi, è quella opposta: siccome è più forte la nostra fede, anche se la pensiamo diversamente siamo protesi a imparare l’uno dall’altro, a cercare di capire senza ostilità. Ma non è un valore il pluralismo, il valore è la libertà.
Intervista a A. M. Baggio, 1986, in Luigi Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti.
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Cl e la politica. Un rapporto molto discusso in questi anni, almeno a partire dal 1974. Qual è la concezione di fondo che ha animato questo rapporto e che, in diverse forme, lungo diverse vicende, si è manifestata?
È la fedeltà alla concezione dell’uomo e della società implicita nell’esperienza cristiana e nella prassi della Chiesa, concezione che trova una sua perspicua esplicitazione nella dottrina sociale del Papa. La fedeltà a questa visione è stata sempre vissuta fino alla difesa di essa a livello sociale e politico, attraverso l’impegno convergente di tutti i cattolici. La posizione di Cl risponde a questa concezione di fondo: come ha detto il Papa a Loreto, c’è la necessità di un’unità dei cattolici, che non deriva soltanto da una convenienza politica o da una convergenza sentimentale di chi ha lo stesso titolo di cristiano, ma nasce da un fatto. Il fatto è che la comunione battesimale lega così l’individuo a tutta la realtà ecclesiale che il confronto ultimamente obbediente con l’espressione autorevole di questa realtà diventa forma del criterio del singolo. Dunque siamo per l’unità dei cattolici e per la posizione politica che, almeno teoricamente, vuole essere fedele alla tradizione cristiana. Ma con un atteggiamento particolare, avendo presente che la Dc è un partito molto articolato, dove la presenza delle sensibilità e delle elaborazioni culturali è ampia, la nostra preoccupazione sarà quella di scegliere e di appoggiare i candidati che maggiormente diano affidamento nel senso che a noi interessa.
“La politica, per chi, per cosa”, supplemento a “Il Sabato”, n. 22 del 30 maggio 1987, p. 13-21. Intervista a monsignor Luigi Giussani a cura di Alessandro Banfi.
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Ruini lo hanno attaccato tutti…
È un fatto gravissimo. Mai il Corriere della Sera si era permesso di trattare oltraggiosamente in prima pagina il leader dei vescovi italiani. Ho in mente quel titolo: “Cardinale, lasci stare”. Quasi un ordine insolente a un servo. Ruini difende l’incarnazione, il centro dell’esperienza cristiana, oggi minacciato più che mai. È tanto semplice: Cristo con il battesimo ti assume, così che siamo membra gli uni degli altri. È una cosa dell’altro mondo, ma questa è l’unità cristiana. Se tutti siamo una cosa sola non possiamo non cercare di esprimerci concordemente. E perciò ci raduniamo in azione unitaria. Se uno non se la sente o non ci fossero le condizioni, è un dolore non poterlo fare, non un diritto da sbandierare! C’è un altro criterio che viene oltraggiato, ed è invece così umano: l’obbedienza. È il criterio supremo dell’azione cristiana. Il criterio della verità è ultimamente fuori di noi – e questo fa imbestialire i nemici del cristianesimo. Sì: obbediamo! Ci toglie dalla balìa del potere che occupa e dirige le coscienze illudendole della loro autonomia e invece, credendo di essere liberi, obbediscono a uomini. L’obbedienza cristiana pesca nel mistero. E invece chi si dipinge come autonomo obbedisce a quella ridicola menzogna che ha come criterio di base la valutazione morale dell’altra persona. Una cosa atroce, disumana.
Intervista a Renato Farina, Il Sabato, n. 17, 25 aprile 1992, pp. 14- 15
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Lei ritiene che sia un bene la fine dell’unità politica dei cattolici?
Non so se è un bene. È un fatto, perfettamente previsto dall’autorità della Chiesa e prevedibile nel fatto di libertà della coscienza cristiana. Anche se, là dove l’unità che i cattolici hanno come oggetto di fede – membra di un solo Corpo per la comunione battesimale – quando si realizzasse anche a un livello socio-politico, sarebbe sempre per la società umana, qualunque posizione uno avesse, un esempio confortante. Unità in funzione della Chiesa e non di un partito politico o di uno schieramento. Lo ha ribadito il Papa a Palermo e al Te Deum del 31.
Intervista a P. Battista, La Stampa, 4 gennaio 1996
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Ciò che emerge nella impostazione del pensiero di don Giussani è la scelta semplice ed intelligente dell’obbedienza, quando richiesta anche sul terreno politico, dall’autorità della Chiesa.
Ancor più travolgente e attuale mi pare il brano tratto da una conferenza fatta alla fondazione Adenauer per i dirigenti del Movimento Cristiani Lavoratori nel 1986 dal titolo “La crisi dell’esperienza cristiana come trionfo del potere”.
Quest’ultimo intervento in particolare mi sembra essere un grande suggerimento per il compito che spetta ai cristiani impegnati in politica nel loro rapporto col potere, al di là della questione partitica. Perché ieri come oggi (ieri gli studenti, oggi i cinquestelle) non ci si può unire in base alle domande, alle esigenze, alle recriminazioni, ma in base alle «risposte», come insegna appunto Giussani.
«Più acuto è il corollario circa l’unità della gente, l’unità del popolo, di una folla. L’unità, in un simile contesto di potere, deriva dalla identità delle esigenze. Insomma, uno è considerabile per le esigenze che ha, per le domande che fa, per le domande in cui traduce delle esigenze.
Ma l’unità deve essere fatta sulle esigenze, sulle domande che le esprimono, o piuttosto sulle risposte che a queste domande si riconoscono? L’unità può essere fatta sulle e sigenze? No, e questo è il punto esatto in cui il potere gioca tutto. L’unità, infatti, può essere costruita solo sulle risposte che si riconoscono.
Pensiamo al Pascoli, la bella poesia I due fanciulli, oppure a Il focolare: l’unità è fondata sul bisogno comune, sullo smarrimento comune, ma ciò non può impedire che molti si stacchino dagli altri e vadano via bestemmiando i compagni. Una unità fondata sulle esigenze, sulle domande, e non sulle risposte conosciute non è un’unità che unisca.
Peggio, una unità fondata, dunque ricercata, sulle incertezze e sulle indigenze, sulla necessità di far fronte a un potere avverso, di superare certe circostanze, una unità fondata sul riconoscimento di limiti che bisogna oltrepassare: ecco, il potere si costruisce a questo punto.
Vediamo un esempio di attualità: gli studenti. Dicono: uniamoci, perché abbiamo tutti le stesse esigenze, manchiamo tutti delle stesse cose. E questo diventa un motivo globale, totalizzante. Chi interviene con una sinergia mestatrice più forte, domina tutto, dà la sua risposta.
Vorrei aggiungere una osservazione che mi sembra importante. Il potere che uno si riconosce fra le mani coincide con una appartenenza. È una appartenenza che dà la soggettività che la definisce, che le dà densità.
La vaghezza pascoliana del «comun destino» dà una appartenenza ben da poco. Ma la appartenenza di un popolo a chi sembra far giustizia è forte, anche se estremamente provvisoria. L’appartenenza della gente a chi è più forte, a chi dalle circostanze è fatto vincente, è evidente. Questi infatti viene criticato mentre si fa strada rubando e massacrando, ma appena giunge al potere tutti lo onorano».

Antonio Simone
Tempi.it, 25 febbraio 2018