Gratuito il “farmaco gender” che blocca la pubertà

By 14 Aprile 2018Gender

La triptorelina arresta lo sviluppo sessuale negli adolescenti in attesa del “cambio di sesso”. L’Aifa sta per varare il provvedimento. I dubbi degli esperti.

Esistono motivi terapeutici per bloccare lo sviluppo puberale a un adolescente facendo ricorso a un farmaco come la triptorelina? Una molecola sintetica che, se somministrata in modo prolungato, inibisce l’ormone che regola le funzioni testicolare e ovarica? Maurizio Bini, ginecologo e andrologo che da anni dirige l’ambulatorio per la “transizione di genere” dell’Ospedale Niguarda di Milano – oltre al Centro per la fertilità – scuote la testa. «Lavoro in questo settore da trent’anni e ho trattato migliaia di casi. Ebbene, in una sola occasione ho ritenuto in coscienza di fare ricorso a questo farmaco. Quindi…». Tradotto in termini statistici vuol dire un’incidenza dello “zero virgola”. Cioè talmente bassa da risultare quasi irrilevante. Niguarda è il centro d’eccellenza in Lombardia per questo tipo di disturbi. E Bini è esperto riconosciuto a livello internazionale. «L’utilizzo della triptorelina è così delicato che, con i direttori degli altri tre centri lombardi di interesse nazionale – prosegue l’esperto – abbiamo deciso di farvi ricorso solo dopo un consulto comune. Nessuno può prendersi da solo la responsabilità di bloccare lo sviluppo sessuale di un adolescente se non per motivi davvero gravi e importanti».
Invece si stanno creando le condizioni perché avvenga proprio il contrario. L’Agenzia italiana del farmaco sta infatti per dare il via libera all’utilizzo ordinario della triptorelina per i disturbi della cosiddetta disforia di genere. Quando il provvedimento sarà pubblicato in Gazzetta Ufficiale, l’utilizzo del farmaco sarà a carico del Servizio sanitario nazionale. Vuol dire che un trattamento di sei mesi – il minimo per ottenere gli effetti desiderati – costerà 1.152 euro.
Ma, visto che nei casi più complicati e controversi, si arriva a bloccare lo sviluppo della pubertà anche per due, tre o più anni, i conti sono presto fatti. Ma è questa davvero l’unica terapia per affrontare i problemi legati alla disforia di genere? La questione è controversa e tutt’altro che appianata. Nella definizione rientrano le patologie della differenziazione sessuale – circa un neonato su 5mila – per cui gli organi genitali non risultano pienamente sviluppati o presentano gravi difetti nello sviluppo anatomico. Una gamma molto ampia di varianti che in alcuni casi si può risolvere chirurgicamente, in altri presenta complessità tali da rende necessari accertamenti cromosomici e ormonali accurati. I pediatri – pochissimi – esperti di queste patologie non esitano a definirle “malattie rare”.
E poi ci sono i disturbi dell’identità di genere, sindrome dalle cause incerte – si oscilla dalle teorie biologiche a quelle psicosociali – che colpisce una persona su 9mila. Nell’80 per cento dei casi si risolve al momento della pubertà. Quando la sofferenza è così vasta e profonda da non lasciare altre possibilità terapeutiche, quando una persona si sente davvero ingabbiata in un sesso biologico che avverte diverso rispetto a quello psicologico, la legge – quella italiana risale al 14 aprile 1982 – prevede la possibilità della cosiddetta “transizione sessuale”. Percorso di grande sofferenza perché investe, oltre a quelli organici, aspetti psicologici, etici, religiosi. Fino a pochissimi anni fa un Centro d’eccellenza come quello di Niguarda trattava poche decine di casi l’anno. Oggi le richieste sono decuplicate e, purtroppo, i giovanissimi sono in prima linea. Lo stesso capita negli altri ambulatori, da Nord a Sud, dove si offre la possibilità di questa terapia.
Quanto pesino in questa corsa alla fluidità sessuale le suggestioni legate alle teorie del gender è difficile da accertare, ma molto probabile. Come è facile immaginare che siano sempre più numerose le persone affette da sofferenze psichiche di vario genere che si illudono di risolverle con la “transizione sessuale”. Per evitare questi rischi la legge prevede sbarramenti costituiti da accertamenti psicologici molto severi e verifiche prolungate. «Ecco perché bloccare lo sviluppo puberale in attesa che arrivi il momento per la transizione – conclude Bini – non solo non ha senso ma presuppone la convinzione che quell’adolescente cambierà sicuramente sesso.
Nessun medico, tranne appunto in casi rarissimi, può affermarlo con certezza uno o due anni prima». Il farmaco in questione non sembra aver effetti collaterali e avrebbe il vantaggio della reversibilità. Ma fino a che punto è lecito giocare con la salute sessuale degli adolescenti? E chi può escludere che un utilizzo su vasta scala non finirà per rivelare aspetti finora inattesi e magari sgradevoli? Da qui tutti gli interrogativi legati all’utilizzo della triptorelina e, soprattutto, all’ipotesi di inserirla tra i farmaci a carico del Servizio sanitario nazionale.

Luciano Moia
Avvenire.it, 5 aprile 2018