Il Sessantotto non è irreversibile

By 22 Aprile 2018Attualità

Nel 1923 presso l’Università Johann Wolfgang Goethe di Francoforte sul Meno sorse l’Istituto per il Marxismo, poi denominato Istituto per la Ricerca Sociale, ma noto come Scuola di Francoforte, diretto dal 1930 al 1958 da Max Horkheimer. Suoi rappresentanti significativi riuscirono ad occupare posti-chiave in importanti università americane come Harvard, Columbia e, in California, Berkeley e San Diego, dove insegnò Herbert Marcuse, ricercatore dell’istituto di Horkheimer: i suoi libri Eros e civiltà (1955) e L’uomo a una dimensione (1964) sono diventati la “bibbia” del Sessantotto.

L’idea qui espressa è quella di liberare l’uomo dai vincoli della morale tradizionale per costruire una “civiltà non repressiva”, in cui l’energia erotica possa liberamente esprimersi in una nuova creatività sociale. Il Sessantotto fu, prima di tutto, una “rivoluzione dei costumi”; Agnes Heller, l’allieva più famosa del filosofo György Lukács, lo ha espresso in questi termini: «Il Sessantotto non è stato una rivoluzione politica, anche se naturalmente ha avuto molte implicazioni politiche, ma ha rivoluzionato in modo permanente la vita quotidiana. E dopo, nulla è stato più come prima». In un’intervista sul quotidiano L’Unità, apparsa il 29 aprile 1998, Heller ha precisato ancora: «Ciò che è cambiato non sono né i sistemi politici né gli assetti economici, ma i modi di vivere. Certo – riflette – è successo in modo diverso da come lo avevamo immaginato: ma è accaduto. E di lì vengono la rivoluzione sessuale e il cambiamento dei sistemi educativi». Rivoluzione sessuale e cambiamento dei sistemi educativi: la famiglia e la scuola, i due pilastri su cui si regge l’educazione, serbatoi di valori morali non negoziabili, sono le principali vittime del Sessantotto.

Il Sessantotto non fu, dunque, una rivoluzione fallita. Solo oggi, a quarant’anni di distanza, ci rendiamo conto di come la sua filosofia di vita abbia permeato, lentamente ma progressivamente, i costumi e la mentalità della società occidentale. Questo risultato va al di là del fatto che molti fra i protagonisti del Sessantotto occupino oggi importanti posti di potere, all’interno di quello stesso “sistema” che avevano accesamente contestato. Alcuni di loro hanno rinnegato le posizioni giovanili, ma la rivoluzione culturale da essi innescata ha seguito inesorabile il suo corso. Basti pensare all’ecologia o al new age, ma soprattutto al relativismo culturale e morale che caratterizza la società contemporanea. Un relativismo, che discende direttamente dal Sessantotto.

Il “Sessantotto”, in questa prospettiva, è stato il tentativo di portare il concetto di rivoluzione dalla società all’uomo stesso, in interiore hominis. È stato un nichilismo messianico, un edonismo escatologico, un relativismo utopico e visionario. Oggi la dimensione messianica è caduta ed è rimasto soltanto, come eredità del ’68, il nichilismo postmoderno.

Il Sessantotto e i cattolici

Dieci anni erano passati dalla morte di Pio XII, avvenuta l’8 ottobre 1958. La scomparsa di Pio XII fu presentata dalla teologia progressista, condannata nel 1950 dallo stesso Papa con l’enciclica Humani generis, come la fine di un’epoca, definita di volta in volta “tridentina” o “costantiniana”. La Chiesa – si diceva – avrebbe dovuto farsi “povera” ed “evangelica”, porsi in ascolto del mondo. La storia, si pensava, volta pagina. L’ottimismo era incarnato dalle tre figure di Krusciov, Kennedy e Giovanni XXIII. Il Concilio Vaticano II, aperto da Giovanni XXIII, fu presentato come l’evento di radicale frattura tra due epoche. Si iniziò a parlare di Chiesa pre- e post-conciliare.

Fu in questo clima che si inserì il Sessantotto. Alcuni tra i principali esponenti del movimento come Mario Capanna e Marco Boato provenivano dagli ambienti cattolici; Mario Capanna, dell’Università Cattolica di Milano, ricorda: «Passavamo nottate a studiare e a discutere i teologi ritenuti allora di frontiera: Rahner, Schillebeeckx, Bultmann, insieme ai documenti del Concilio».

Un altro esponente di Lotta Continua di quegli anni, Paolo Sorbi, scrive: «Eravamo interpreti del pensiero di don Milani, di don Mazzolari, di padre Balducci, di don Camillo Torres. Persone che ci hanno trasmesso il sogno di un’utopia, che abbiamo cercato di realizzare in terra. Ora, le parole sono come pietre. Noi abbiamo preso sul serio quelle parole, le abbiamo radicalizzate».

Oggi alcuni studiosi, come Giuseppe Alberigo e la sua scuola, sostengono la tesi della “discontinuità” del Concilio con la tradizione precedente, fondandola soprattutto sulla distinzione fra lettera e spirito. Ma, nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, papa Benedetto XVI ha affermato che la giusta ermeneutica del Concilio Vaticano II non è quella della «discontinuità e della rottura», ma quella della riforma e della continuità con la tradizione precedente.

Sul piano storico e fattuale, però, al di là della valutazione dottrinale sui documenti conciliari, che spetta al Magistero, non c’è dubbio che il Concilio Vaticano II apparve e fu vissuto da molti, anche in posizioni importanti, come una “svolta epocale”, una vera e propria “rivoluzione” nella Chiesa. Nel corso di una celebre omelia del 1972, papa Paolo VI, riferendosi alla situazione della Chiesa, affermava di avere la sensazione che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. È entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce». Allo stesso modo si pronunciò nel 1986 l’allora prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, card. Joseph Ratzinger: «I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti. Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è trovati invece di fronte a un processo progressivo di decadenza».

Queste allarmate affermazioni riassumono il quadro che offriva la Chiesa cattolica negli anni immediatamente successivi al Concilio: l’abbandono del sacerdozio e della vita religiosa da parte di migliaia di sacerdoti e di religiosi e l’allontanamento della pratica religiosa di milioni di fedeli. Molti cattolici, sull’onda del Sessantotto, abbandonarono la Dottrina tradizionale della Chiesa per abbracciare le posizioni del terrorismo rivoluzionario o della nascente “teologia della liberazione”: «La distruzione della teologia – ricorda ancora il cardinale Ratzinger – avveniva attraverso la sua politicizzazione in direzione del messianismo marxista».

La presenza cristiana si trasformò in azione mondana, in utopia politica, dissolvendo la dimensione metafisica della stessa Chiesa. La Rivoluzione del 1968 ebbe certo un impatto nella Chiesa, oltre che nella società, ma la “svolta conciliare” favorì a sua volta l’esplosione del Sessantotto.

Come uscire dal Sessantotto

C’è un’eredità del Sessantotto, ma c’è anche un’eredità dell’anti-Sessantotto, che consiste innanzi tutto nel difendere l’esistenza di una legge naturale, assoluta e immutabile, in ogni tempo e in ogni latitudine, fondata sulla permanenza e la stabilità della natura umana.

Conoscere e amare la legge naturale e vivere secondo natura è necessario, ma non è sufficiente. Per seguire la legge naturale è necessaria la vita soprannaturale della Grazia, perché solo il Cristiano può portare, nella propria vita, la natura alla sua perfezione. Il Cristiano dunque non può accontentarsi di una società fondata sulla legge naturale: deve desiderare la conversione della società al Cristianesimo.

I frutti del Sessantotto oggi si toccano visibilmente nell’instabilità e nella precarietà che avvolge la nostra vita quotidiana. L’instabilità e la precarietà nascono dal primato dell’effimero, dalla perdita del permanente. I giovani oggi sono spiritualmente più poveri. Siamo stati defraudati di un’immensa ricchezza da avventurieri intellettuali e da pirati politici. Eppure l’autentica ricchezza non può essere espropriata, perché non tramonta. I beni non negoziabili possono essere traditi, ma non perdono il loro carattere di bene, di bene permanente e immodificabile.

I profeti del Sessantotto annunziavano la morte e della famiglia e la famiglia oggi è in crisi, ma non sono riusciti ad estirpare il desiderio naturale, che è nel cuore umano, di formare una famiglia che duri sempre, caratterizzata dalla permanenza e dalla fecondità.

I profeti del Sessantotto annunziavano la morte dello Stato e lo Stato è in crisi, ma non sono riusciti a dissolvere il desiderio che è nella natura umana, di un’appartenenza nazionale, di un’identità culturale che si radichi in una Nazione e in uno Stato.

I profeti del Sessantotto annunziavano la morte della religione, ma Dio non è morto, Dio è tornato o meglio non si è mai allontanato: siamo noi che stiamo tornando a Lui.

Questi sono i capisaldi di una lettura critica del Sessantotto che sia base di un desiderio di uscire dal Sessantotto, di capovolgere il Sessantotto per rimettere dritta, in piedi, la società in cui viviamo.

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Questo testo di Roberto de Mattei è stato tratto dal periodico Radici Cristiane –  www.radicicristiane.it