Esiste un diritto a morire? A colloquio con il bioeticista Don Pablo Requena

By 14 Febbraio 2019Articoli Bioetica 2018

“La morte è sempre un evento tragico. Ma cosa significa una ‘buona morte’?” Piuttosto “bisogna lavorare perché le condizioni in cui la gente muore siano degne”.

Queste le parole di Don Pablo Requena, professore di bioetica della Pontificia Università della Santa Croce e delegato della Santa Sede presso la World Medical Association, in un’intervista rilasciata ad ACI Stampa su una delle tematiche più delicate e dibattute del nostro tempo: l’Eutanasia e l’esistenza o meno di un presunto “diritto a morire”.

Cosa significa “Eutanasia”? E in termini medici questo cosa comporta?

Effettivamente è importante chiarire i concetti perché altrimenti si fanno grandi confusioni. L’eutanasia è quella azione diretta a finire con la vita di un paziente per evitargli sofferenze. Un’altra cosa invece è la limitazione terapeutica che consiste nel non fare “tutto il possibile”.

Per molte malattie abbiamo sempre un maggiore “arsenale terapeutico” a cui non siamo obbligati a sottoporci. È vero che ci sono trattamenti in parte facili da seguire e che hanno un’efficacia dimostrata. Ma, per esempio, nell’ambito della cura dei tumori, ci sono tante possibilità di intervento che sono molto invasive e che spesso hanno degli effetti indesiderabili molto pesanti senza una certezza di guarigione. In questi casi, il malato può benissimo, dopo un’adeguata consultazione con il medico, rigettare un certo tipo di terapia. Questo però è totalmente diverso dall’eutanasia.

Queste distinzioni sono importanti, come ci mostra l’esempio del Canada, dove due anni fa hanno approvato una legge che permette l’eutanasia. Nei sondaggi era evidente che il cittadino medio canadese non avevano chiare queste differenze, manifestandosi così favorevoli a quest’ultima quando in realtà quello che molti volevano era solo la possibilità di limitare le terapie.

Oggi si parla molto di “dolce morte” come espressione di massima libertà personale. Si può parlare dunque di un diritto della “buona morte”? 

La morte è sempre un evento tragico. Che cosa significa una “buona morte”? È chiaro che c’è il diritto ad essere assistiti nel miglior modo possibile che può offrire la medicina oggigiorno per affrontare questo traguardo, ma non ha nessun senso l’equivalenza “eutanasia” = “buona morte”, e meno ancora “dolce morte”.

Bisogna lavorare perché le condizioni in cui la gente muore siano degne. E su questo versante è molto il lavoro che ha fatto la medicina attraverso le cure palliative; cure che purtroppo non arrivano ai tanti che potrebbero beneficiarne.

Perché la Chiesa vieta la possibilità di ricorrere all’eutanasia, anche se questa è la mia “volontà personale”? Perché negare anche la libertà di stipulare il cosiddetto “testamento biologico”?

Qui bisogna fare alcune distinzioni. In primo luogo, la valutazione morale che fa la Chiesa dell’eutanasia non è la stessa che fa delle cosiddette “direttive anticipate” o, come l’ha chiamato lei, il “testamento biologico”.

La seconda distinzione da fare è quella tra l’ambito pubblico e quello privato. Per il cristiano l’opzione eutanasica non è adeguata perché attenta contro la sacralità della vita, la coscienza di essere creature che hanno ricevuto la vita da Dio, e sono “amministratori” di quel dono. Ora, cosa dire del non credente? Per lui la vita è “sua” e se la gestisce come meglio crede. Questo è accettabile ma fino ad un certo punto perché non siamo delle monade indipendenti, ma membri di una società. Ed è qui che entra il discorso sul valore sociale di ogni vita umana. Non è un caso che per secoli le società abbiano lottato per tentar di eradicare la possibilità che un cittadino tolga la vita di un altro essere umano. E anche oggi vediamo come una grande conquista l’abolizione della pena di morte. Perché? Perché la vita umana è sempre degna, anche quella dei condannati da gravi delitti.

Detto ciò, è vero che all’interno della società uno non deve imporre al resto le proprie credenze. Ma in questo caso non si tratta di imporre la visione della Chiesa, ma di rispondere alla domanda: è un bene per la società, un bene comune della collettività, avere una legge che permette l’eutanasia? Su questo si può e si deve discutere molto, indipendentemente della risposta che uno abbia, a livello privato, sulla moralità di questa azione.

Un esempio eclatante è l’esperienza dell’Olanda, e di come alcuni dei promotori della legge a favore dell’eutanasia si sono oggi pentiti, facendoci comprendere come non sia un bene per la società aprire quella porta a livello legale.

Sulle “direttive anticipate” si potrebbe parlare a lungo. In linea di massima non hanno particolari problemi morali, ma l’esperienza che hanno negli Stati Uniti – dove hanno promosso per decenni questa pratica – ci fa vedere come questa pratica sia molto meno utile di quello che ci si aspettava.

La Chiesa al contempo però accetta moralmente il “lasciar morire” rigettando l’accanimento terapeutico. Ci potrebbe spiegare la differenza con la pratica dell’eutanasia?

Personalmente non mi piacciono questi termini, perché “lasciare morire” non si sa cosa significa, e “accanimento terapeutico” non è ciò che fa il medico, neanche quando esagera… perché “accanirsi” significa fare del male volutamente, e questo non lo fanno i medici.

Con quello che abbiamo detto prima sul chiarimento terminologico penso che sia più facile capire che nell’assistenza medica ci sono terapie molto comuni e di conosciuta efficacia, che si presentano come obbligatorie (tanto per il medico come per il malato). Poi ci sono altre che consideriamo esagerate o sproporzionate, che sono quelle che portano a quell’“accanimento terapeutico” e che non si devono nemmeno proporre al paziente. E infine, ci sono tante altre, trai due estremi, che sono terapie opzionali, che il medico deve proporre, ma che il malato non è obbligato a intraprendere. In questi casi, deve valutare personalmente l’opzione che egli ritiene opportuna.

Per anni, come del resto ancora oggi, soprattutto negli Stati Uniti, c’è un forte dibattito sulla pratica del “suicidio assistito”. Di cosa si tratta esattamente?

In realtà è una pratica sorella dell’eutanasia, giacché si tratta di facilitare, al malato che lo richiede, le sostanze che dovrebbe usare per porre fine alla propria vita. La differenza con l’eutanasia è che l’atto “uccisivo” qui viene realizzato dalla stessa persona malata – per questo “suicidio” – e non dall’operatore sanitario. Da un punto di vista morale la valutazione è molto simile. Invece dalla prospettiva legale certamente è molto più facile che ci siano abusi con una legge che permette l’eutanasia che con un altra che solo accetta il suicidio assistito.

Infine, ci sono tantissime tesi a favore della legalizzazione dell’eutanasia in Italia, come per esempio il costo per il mantenimento di una persona in uno stato vegetativo, l’inutilità della sofferenza del paziente e dei suoi cari ed ecc. Cosa dice la Chiesa a riguardo?

Penso che avremo bisogno di una maggiore informazione sul problema perché se viene ridotto a dei casi estremi è facile far passare l’idea che abbiamo bisogno di una legge che permetta l’eutanasia in Italia. Ma questo sarebbe un grande errore perché anche se quella legge potrebbe “beneficiare” alcuni pochi che sono convinti di voler morire, metterebbe molte persone vulnerabili nella situazione di dover giustificare il perché vogliono continuare a vivere e ad essere di peso a la famiglia e alla società quando potrebbero facilmente “farla finita”. Una società che ti porta in questa direzione è una società poco solidale.

Di Gianluca Teseo

28 gennaio 2019

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