QUESITO – Mostruoso l’amore che uccide

By 13 Settembre 2019Pillole di saggezza

Da pochi mesi è morto mio marito; 47 anni, ucciso in breve tempo da un pauroso tumore allo stomaco. L’ho sempre assistito con premuroso amore, ma nelle ultime settimane, travolto da dolori atroci, mi ha chiesto più volte di farlo morire. Se avessi avuto più coraggio l’avrei fatto perché anch’io non riuscivo più a supportare quella situazione. Peccato che in Italia non ci sia l’eutanasia. Anche se sono cattolica, mi chiedo perché non esaudire una richiesta comune del malato e dei famigliari? Gabriella.

Esprimo profonda solidarietà e comprensione umana a Gabriella, e rispondo agli  interrogativi ponendomi dalla parte del malato e dei familiari.

Le attese del malato.

La maggioranza dei medici che lavorano in reparti di oncologia o in hospice, e anch’io che per oltre un decennio ho operato come cappellano presso l’ospedale san Giuseppe di Milano, seguendo il reparto di oncologia, testimoniano la faziosità e la falsità della motivazio­ne principale evidenziata dai fautori della legge che liberalizzi l’eutanasia e purtroppo, fatta propria, anche da Gabriella: la richiesta del malato. Di più: l’agguerrita truppa anti-vita ha trasformato, indegnamente, questa tematica in terreno di scontro politico ed ideologico. Anche la sup­plica di alcuni: «fatemi morire», riportata nel quesito, espressa in momenti di dispera­zione racchiude, implicitamente, un’invocazione d’aiuto più che un desiderio di morte; perciò significa: «Occupatevi di me e alleviate il mio dolore, perché non ce la faccio più». Quando al malato terminale si offre una valida vicinanza ed adeguate cure palliative, la domanda di eutanasia scompare, anzi, vari pazienti, riprendono a progettare il futuro.

L’eutanasia legale suonerebbe come un silenzioso invito ad alcuni malati a togliere il disturbo. Ivan Il’ic, gravemente malato, «scoprì che tutto l’interesse che la sua persona rappresentava per gli altri si riduceva alla scadenza, vicina o lontana, nella quale avrebbe sgomberato il posto, liberando i vivi dall’impaccio della sua presenza e se stesso dalla propria sofferenza» (L. Tolstoj, La morte di Ivan Il’ic, Garzanti 1978, 54).  Dunque, questi malati, attendono dal medico, dagli operatori sanitari e dai famigliari un valido accompagnamento terapeutico e relazionale, dato che la finalità della medicina non è unicamente di guarire, ma anche di curare e di consolare. Ribadiva la beata madre Teresa di Calcutta, che nella sua vita di religiosa assistette centinaia di malati terminali, che nessun morente, accolto ed accompagnato con amore, le aveva mai domandato di accelerare la propria fine.

Da ultimo, ricordo che la legittimazione dell’eutanasia, comprometterebbe irreparabilmente il già complesso rapporto medico-paziente, minandone la fiducia ed introducendo un comprensibile clima di sospetto, che solleciterebbe il paziente a chiedersi: questo medico sta curandomi o sta accelerando la mia fine? L’eutanasia, capovolge il significato primario dell’atto medico, il tutelare la vita, ben riassunto nel Giuramento di Ippocrate: «Giammai, mosso dalle premurose insistenze di alcuno, propinerò medicamenti letali, né commetterò mai cose di questo genere». Il medico, «non è mai autorizzato a decidere sul valore o sul disvalore di una vita. La società gli ha conferito semplicemente l’incarico di guarire il malato e di lenirgli le sofferenze, se non è possibile la guarigione» (V. Frank, Logoterapia e analisi esistenziale, Queriniana 1977, 87).

 Le motivazioni dei famigliari.

Accompagnare un parente nell’ultimo periodo dell’esistenza affinché muoiano con dignità, è un atto autentico di  amore!

Questa visione si scontra con quella dei fautori dell’eutanasia, che la giustificano stravolgendo la nobile affermazione del «morire con dignità», insinuando la quasi certezza, in molti, che affrettare la morte del loro caro sia la migliore modalità per dimostrargli affetto. Per questo, a volte, implorano con insistenza i medici affinché il malato non soffra più. Non possiamo scordare che questo atteggiamento è spesso determinato dall’angoscia che alcune patologie provocano anche nei fa­migliari. Da ciò deduciamo che l’eutanasia è la tentazione dei sani che temono il confronto con la propria sofferenza e la propria morte. Se lo sconforto è comprensibile, è inaccettabile una scelta di morte per sbarazzarsi velocemente da qualcosa che viceversa è qualcuno. Affermò il cardinale C.M. Martini, nell’omelia di Sant’Ambrogio del 1981: « “Mostruosa” appare la figura di un amore che uccide, di una compassione che cancella colui del quale non si può sopportare il dolore, di una filantropia che non sa se intenda liberare l’altro da una vita divenuta soltanto di peso, oppure se stessa da una presenza divenuta soltanto ingombrante».

Le aspettative del malato terminale sono il conforto dei parenti nella comune ricerca del senso della malattia; il loro supporto per affrontarla con dignità perché, mentre i dolori fisici sono efficacemente sedati, resta terribile la soffe­renza psicologica nel presagire l’approssimarsi del termine della vita.

Il comportamento richiesto al cristiano, presente nella Sacra Scrittura, ed attualizzato dal Magistero della Chiesa, è molto chiaro: l’eutanasia va sempre rifiutata. Ma, oggi, alcuni suppongono che il cattolico la possa condividere. L’intuizione professionale di mostrare più volte accanto al letto di Welby il crocifisso, sta producendo i suoi risultati.

don Gian Maria Comolli