Cosa si attende da noi il sofferente?

By 11 Febbraio 2023Attualità

Celebriamo oggi 11 febbraio la “Giornata Mondiale del Malato”. quindi l’editoriale che propongo questa settimana vuole rispondere all’interrogativo: “Cosa si attende da noi il sofferente?” poiché a fianco dell’ “essere curato” o riabilitato è presente nel malato l’esigenza di “essere preso in cura” da persone che lo accolgano, lo accompagnano e lo amano con compassione offrendogli consolazione e speranza.

Compassione

Cos’è la compassione? Quando si è compassionevoli? Chi è l’ “Esempio” dell’autentica compassione?

Il vocabolo “compassione” deriva dalla parola latina “compassio” (in inglese “to care”) ed esprime il comportamento sollecito e premuroso nei confronti del dolore altrui. Potremmo tradurre il termine anche in “soffrire con”, infatti, la compassione, non indica la presenza a fianco del malato per offrire consigli, suggerimenti o per esortarlo.

La compassione «è la capacità di sentire e soffrire con la persona ammalata, di sperimentare qualcosa della sua malattia, le sue paure, ansietà, tentazioni, i suoi assalti sull’intera persona, la perdita di libertà e di dignità e la sua assoluta vulnerabilità e le alienazioni che ogni malattia comporta» (E. D. Pellegrino, Ogni malato è mio fratello, in Dolentium hominum 7, 1988, pp. 60-61. Di conseguenza è la disponibilità a sostenere il prossimo anche sacrificandosi per lui, come ammoniva il teologo Henri Nouwen: «Nessuno può aiutare qualcun altro senza entrare con la sua persona nelle situazioni dolorose; senza assumere il rischio di soffrire, ferirsi o anche essere distrutto nell’operazione»( The wounded healer, Ny Doubleday, pg. 72).

L’ “Esempio per eccellenza” della compassione è “Dio” che inviò nel mondo il proprio Figlio, non per eliminare le afflizioni dell’uomo o per sanare tutte le fragilità, ma per “condividere” la condizione umana, farne esperienza, soffrirla con l’uomo fino alla morte (cfr.: Fil. 2,1-11). Anche il Signore Gesù ha vissuto l’esperienza intima della compassione, descritta dai vari evangelisti mostrandoci i Suoi sentimenti. Inoltre, nel Vangelo, è presente il termine greco “splanchnizomai” che possiamo tradurre con “provare qualcosa nelle proprie viscere” (cfr.: Mt.  9,36;  14,14;  15,32; Mc. 10,51; Lc. 7,13; 13,12; Gv. 11,36). Il vocabolo “splaghnòn” indica anche le interiora, le viscere…, e la Bibbia parla di “viscere di misericordia” di Dio. Anche oggi, nella lingua italiana, troviamo traccia di questa derivazione nel linguaggio embriologico (splancnopleura, plancnocranio…).

Ciò avviene mediante la nostra presenza perspicace e articolata come avviene in ogni autentico rapporto di amicizia L’autentico amico è colui che afferma: «Anche se io non so cosa fare, tu puoi essere sicuro di una cosa: io sono con te. Ogni volta che tu avrai bisogno di qualcuno, non importa in quale momento o in quale luogo, tu puoi contare su di me». Ma per raggiungere questo elevato obiettivo dobbiamo ascoltare, comunicare che vogliamo ascoltare, conoscere una storia cioè una persona.

Consolazione

Cosa significa “consolare”? «Il sostantivo “consolare” e il “verbo consolare” sono la traduzione italiana rispettivamente delle parole greche “paraclesis” e “parakaleo” che significa anche incoraggiare, esortare, confortare, procurare gioia a una persona o a una comunità che si trovi in una situazione umana di tristezza, angoscia, desolazione. Consolare significa, perciò, compiere un gesto di carità concreta verso una persona o più persone che si trovano nell’afflizione. Non a caso nella plurisecolare tradizione della Chiesa “consolare gli afflitti” è sempre stata considerata un’opera di misericordia suggerita a tutti i cristiani» (B. L. Papa, Il ministero della consolazione, in Insieme per servire, 98/2013, pg. 14).

Un “essenziale” testo di riferimento è la seconda Lettera di san Paolo ai Corinzi. Esaminiamo alcuni passaggi. «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio. Poiché, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale vi dà forza nel sopportare le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è salda: sappiamo che, come siete partecipi delle sofferenze, così lo siete anche della consolazione» (1,3-7).

Nella Lettera è evidente che l’origine della consolazione è il Padre, ma dopo aver vissuto l’ esperienza della consolazione di Dio, anche noi diveniamo “collaboratori” della consolazione dell’Onnipotente. San Paolo, dopo molteplici afflizioni, ansie e preoccupazioni, afferma di essere beneficiario della consolazione di Dio, perciò è “abilitato da Dio” a consolare. Nel caso particolare, Tito era giunto in Macedonia da Corinto per annunciare all’ “Apostolo delle Genti” “buone notizie” sul successo della sua opera di correzione di quella comunità (cfr.: 2 Cor. 7.4,6), e ciò aveva procurato a Paolo gioia e conforto.

Pure noi, a seguito di esperienze di consolazione del Padre Celeste, possiamo con autorevolezza consolare come afferma Paolo commentando la visita di Tito (cfr.  2Cor. 7,4-7). E’ così che Dio si avvale di noi; ci offre l’esperienza di conforto nelle difficoltà per trasmettere ad altri lo stesso incoraggiamento. Le nostre parole ai sofferenti, allora, non saranno “banali consolazioni”, ma il frutto dell’esperienza “di afflitti e di consolati”. Dunque, l’essere consolato e il consolare, vanno ricondotti alla “Grazia di Dio” operante in noi mediante Cristo che consolando a nome del Padre, si manifesta come il “Dio della consolazione” (Rm. 15,5); infatti con la sua risurrezione ha arrecato sollievo a tutti gli uomini!

Paolo, evidenzia dunque che cos’è “la consolazione divina”. Lui, abbiamo affermato, fu consolato da Dio “essendo stato liberato”, cioè salvato da un minaccioso pericolo, e riferendosi alla comunità di Corinto parla del suo apostolato spesso intessuto di afflizioni e di sofferenze. La “consolazione divina” offre forza d’animo, lucidità e totale consapevolezza nell’affrontare le varie situazioni dolorose dell’esistenza!

Ma, la consolazione che noi doniamo, è congiunta a una “profonda comunione” con Cristo crocefisso e alla effettiva partecipazione alle Sue sofferenze. E’ la comunione profonda ed autentica con il Signore Gesù che ci autorizza a consolare l’altro! Per questo non sono rilevanti le parole o le argomentazioni, ma la “comunione con il Maestro”. Da quanto affermato deduciamo che l’esperienza della consolazione necessita della preghiera e dell’invocazione; un’orazione per noi personalmente in quanto già soggetti della consolazione di Dio e per chi consoliamo. Chi ha vissuto periodi complessi, se ha saputo fare tesoro dell’esperienza della consolazione divina, è di enorme supporto al fratello nell’ invocare Dio “come consolatore”.

Speranza

Il malato implora, infine, speranza!

La “speranza cristiana” è “Ia certezza” che l’esistenza oltrepassa il contingente essendo in tensione verso I’Assoluto e, di conseguenza, è impossibile disgiungere “vita” e “speranza”. Libera I’uomo dall’angoscia e dalle disperazioni conseguenti alle delusioni dell’esistenza, dalla sofferenza, dall’incapacità di cogliere la realtà nella sua bellezza e nella sua ricchezza. «La cristianità quando parla di “speranza” parla del futuro del mondo, dell’umanità, della natura nella cui storia è coinvolta” (J. Moltamann, La Chiesa nella forza dello Spirito, Queriniana, Brescia 1977, pg. 184). Allora, l’oggetto della speranza cristiana, è “I’escatologia” che si fonda sulla Paternità di Dio (cfr.: Ef. 2; 1 Cor. 1,9).

La “speranza cristiana” si concretizza anche “nelle relazioni” poiché ogni battezzato è “membro” del “Corpo di Cristo” che è la Chiesa. Perciò, in virtù di questi rapporti, evidenzia una linea di tendenza in cui i rapporti dialogico-relazionali possono conseguirla o disattenderla. Le relazioni, non inquadrate in questo orizzonte di speranza, entrano in contraddizione, si affievoliscono e generano conflitti come spesso avviene all’uomo post-moderno che, il più delle volte, è proteso alla ricerca dell’avere e alla rincorsa del successo.

La sollecitudine di chi accosta il sofferente è di essere messaggero della speranza cristiana tra i “dis-sperati”, rammentando che l’etimologia “dis-sperato” non è sinonimo di assenza di speranza ma di un alterato significato ad essa attribuito.

La “speranza cristiana” è:

-“la tensione”, ricca di attesa nel futuro;

-“la fiducia” che il futuro si realizzerà;

-“la pazienza” e “la perseveranza” nell’attenderlo.

Tutto ciò, ovviamente, è un “dono di Dio”, essendo l’origine della speranza presso il Creatore, e pone le “fondamenta” sulla Sua fedeltà e nell’ “abbandono” nelle sue braccia di Padre. Possiamo quindi concludere affermando che il “traguardo” e il “punto di arrivo” della “speranza cristiana” è il Signore Gesù che “di nuovo verrà, nella gloria per giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine” (dal Credo Niceno-Costantinopolitano). Questo evento, consentirà ad ogni uomo, di accedere alla gloria di “figlio” accanto al Padre (cfr.: 1 Cor. 4,5).

Concludendo

Per il cristianesimo la sofferenza non è una benedizione e una predilezione ma neppure un castigo e una maledizione, essendoci una credenza in Dio che germoglia anche dal dolore. Questo significa che per il discepolo del Signore Gesù l’ incontro con il patire acquista un significato originale se sviluppa e intensifica il rapporto con il Padre che afferma: «La fede che preferisco è la speranza. La fede non mi stupisce (…). Ma la speranza, ecco quello che mi stupisce. E sperare è difficile. Quello che è facile è disperare, ed è la grande tentazione (…). Noi sotto I’influsso dello Spirito, aspettiamo la speranza promessa dallo Spirito» (CH. Peguy, Il mistero della seconda virtù, Jaka Book, Milano 1984, pg: 161.).

La visione pessimistica e rassegnata della storia personale e societaria non è cristiana; è peculiare del “di-sperano”, ma con un’osservazione: «È proprio la speranza in Dio che ci fa soffrire per l’assurdità del dolore con cui impedisce di venire a patti; che rinnova in noi la fame di un significato, la sete di giustizia per tutti, per i vivi e per i morti, per coloro che sono stati e per coloro che verranno e impedisce che ci adattiamo e ci rassegniamo»( Sinodo Nazionale di Germania, Speranza. Una confessione di fede nel nostro tempo, Monaco 1988, pg. 440).