DAL BRASILE/ “La mia vita nelle favelas, dove muoiono due minorenni a settimana”

By 2 Settembre 2018Testimoni

Ragazzini ammazzati per strada, droga, prostituzione minorile: è la vita quotidiana nelle favelas brasiliane. Ce ne parla PAOLA CIGARINI, che qui porta avanti un programma di risanamento.

“Essere felici si può”. Messa giù così, senza nemmeno un punto di domanda, la frase sembra più una provocazione pubblicitaria. Per intenderci, una di quelle che offre illusioni per cercare di vendere qualcosa. Se però a parlare di felicità sono una ragazzina di 14 anni disabile e una donna europea che vive in una favela brasiliana in cui vengono ammazzati per strada due ragazzi alla settimana, c’è il caso che l’imbroglio non ci sia. Paola Cigarini, modenese, dopo tredici anni di lavoro nel sociale con disabili, malati psichiatrici e donne straniere, si trasferisce a Salvador Bahia. Qui comincia ad occuparsi di malnutrizione infantile nell’ambito di un progetto più ampio di risanamento urbano delle periferie degradate della città realizzato dalla Ong italiana Avsi, in collaborazione con il Governo della Bahia e la Banca Mondiale. Per dare continuità alla cura dei bambini seguiti da piccoli, nasce il Centro Educativo João Paulo II, che oggi dirige. Il Centro, situato in un’estesa area di favelas chiamata Súburbio Ferróviario, accoglie ogni giorno 500 bambini e ragazzi, tra i 6 e i 17 anni, ai quali offre attività di tipo scolastico, educativo, culturale e sportivo. “Stando in un ambiente così difficile ho imparato che il mio cuore può andare allo stesso ritmo della realtà”, ha detto al Sussidiario.

“Essere felici si può”: il titolo dell’incontro è impegnativo… Pensa di essere felice? Che cosa è per lei la felicità?

Così di primo acchito non è facile rispondere. Bisognerebbe quantomeno contestualizzare. A caldo direi che si può essere felici spendendo la vita per qualcosa che vale la pena. Sono convinta comunque che sempre ci sia la possibilità di vivere in accordo con il proprio cuore.

Cosa fate esattamente con il Centro João Paulo II?

Il Centro è un doposcuola gratuito (sostenuto da donazioni di privati provenienti soprattutto dall’Italia) che nella realtà è una scuola a tutti gli effetti perché qui l’istruzione pubblica non funziona. Al primo e secondo anno delle elementari facciamo corsi di alfabetizzazione (insegniamo a leggere e scrivere, perché non è ovvio che venga fatto a scuola); in terza, quarta e quinta facciamo fare i compiti e in più continuiamo a dare lezioni di portoghese e matematica; dal sesto al nono (le medie), proponiamo lezioni di portoghese, matematica, scienze, informatica e formazione umana (un aiuto alla riflessione su di sé e sulla relazione con gli altri, anche questo per nulla ovvio). Dalle 16,30 alle 22 ci sono gli allenamenti di cinque specialità sportive: calcetto, pallamano, basket, capoeira e karate. Offriamo anche molte attività extra, come ad esempio gite fuori porta.

Perché non avete fondato direttamente una scuola?

All’inizio ci siamo posti la stessa domanda, ma poi abbiamo pensato che una scuola avrebbe delle regole più stringenti, di comportamento e rendimento, e quindi obbligherebbe a selezionare. E diventeremmo come tutti, mentre noi vogliamo cercare di non escludere nessuno.

Come è capitata in Brasile?

Avevo deciso di cambiare lavoro e un amico mi consigliò di venire in Brasile a vedere ciò che faceva una sua amica medico che, nell’ambito di un progetto dell’Ong Avsi, si stava occupando di seguire i bambini malnutriti. Rimasi colpita da quanto quel lavoro incidesse in quella realtà, quanto margine per operare ci fosse. Era il 2001, ma l’occasione di tornare qui stabilmente si presentò solo nel 2004 quando seppi che serviva qualcuno che lavorasse a quegli stessi progetti che avevo visto. Così mi offrii.

Come fu l’impatto con la nuova vita?

Dico sempre che ho impiegato tre anni ad atterrare veramente. Se non sei presuntuoso capisci presto che il migrante sei tu. Ho iniziato a lavorare in favela senza sapere la lingua e senza avere in mente come fare. Io, bianca e bionda, in un ambiente in cui il 90% è afro-discendente. Mentalità, modi di esprimersi, sensibilità completamente diverse. In più, con enormi tensioni sociali e razziali, perché le zone poverissime sono a ridosso di zone ricchissime.

Come ha affrontato queste difficoltà? Cosa l’ha convita a restare?

Ero un’immigrata armata solo della volontà di capire. Paradossalmente, il fatto di essere in una situazione così aspra, da tanti punti di vista, mi ha fatto scoprire di più chi sono e che posso “dialogare” con situazioni tanto diverse da me. Ho sentito questa una tenerezza per me. Avrei potuto anche rimanere qui con un certo distacco, con una via d’uscita pronta. Ma ho sentito che fosse conveniente comprendere questa umanità che avevo intorno, per scoprire anche come è la mia.

Ma qui non sparano per strada? Le è mai successo di essere coinvolta in una sparatoria?

Sì, quello in cui siamo immersi è un contesto di guerriglia urbana e lotta tra trafficanti che girano armati. Qui abbiamo due ragazzi morti per strada alla settimana. La prima volta che è accaduto vicino a me, stavo lavorando all’asilo e sulla strada di fronte hanno ucciso un ragazzo di 16 anni alle 4 del pomeriggio. È un ambiente senza tutele e senza gratuità. È proprio vero che nelle società in cui fiducia reciproca, dialogo e gratuità non sono più affermati come valori si va in giro con le pistole. E non si risolve alcun problema ma lo si incrementa.

Ma non ha paura?

È una domanda che mi sono fatta tante volte perché in realtà – anch’io ne sono stupita – non ho paura. Ci vuole una certa prudenza e umiltà, poi con il tempo impari come muoverti.

Cosa ha imparato?

Ad esempio, quando ero ancora per lo più un’estranea, ho capito che non dovevo espormi più del necessario. All’inizio sono andata molto lenta nel costruire legami. Anche se c’erano sempre molti ragazzi che giravano intorno al Centro, non mi fermavo mai oltre l’orario di lavoro. Soprattutto mi rendevo conto che non dovevo essere invasiva in uno spazio che non è il mio. Poi ho scoperto che in questi quartieri esiste forte una vita comunitaria e che i legami personali hanno un peso effettivo. Conoscersi, fermarsi per strada a raccontarsi ciò che riguarda la quotidianità, ma anche solo dirsi “buongiorno” e “buonasera”, ha permesso la costruzione di rapporti. Il lavoro fatto con il doposcuola ha fatto il resto.

In che senso?

Nel senso che mi ha aperto in modo naturale al rapporto con la comunità in cui è inserito il Centro. Volendo o no, ospitando tanti ragazzi (e io li conosco uno a uno), parlando con i loro genitori, mi sono ritrovata di fatto dentro la vita del quartiere. Da questo rapporto ho ricevuto tanto, tutto, compresi insegnamenti decisivi, alcuni veri e propri punti di svolta.

Ad esempio?

Ad esempio, di fronte al problema della sicurezza, un padre mi ha detto: il miglior modo per difendersi è includere. Questo ha cambiato completamente il mio modo di vedere. Ho capito che ci dobbiamo muovere come un corpo, tenendo conto ad esempio di tutto il vicinato. Tutto quello che faccio per il Centro lo condivido con un gruppo di genitori, con alcune persone di riferimento per il quartiere, oltre che con gli insegnanti. Questo mi dà modo di imparare continuamente. Come quando si è trattato di decidere se costruire la copertura del campo di calcio.

Cosa è successo?

Ero preoccupata perché la costruzione avrebbe reso più evidente il Centro, più esposto. Così ho mostrato il progetto a un gruppo di genitori e ho chiesto loro cosa ne pensassero. Uno mi ha detto: guarda che qui tu ospiti tanti ragazzi legati in qualche modo ai trafficanti, fratelli, cugini, nipoti. Questo è il primo fattore di protezione per noi. Mi hanno fatto capire che il nostro Centro è percepito “per” il quartiere e che quindi lo protegge. Un altro genitore è stato ancora più radicale.

Cosa ha detto?

Mi ha detto: abito qui da trent’anni, questi fenomeni di violenza sono come bolle: le bande nascono, si sciolgono, alcuni muoiono, altri vanno in prigione. Ma questo non mi ha impedito di costruire la mia vita, la mia famiglia, la mia casa. Quindi non vedo perché dovremmo fermarci di fronte a ciò che succede e forse succederà sempre. E poi esiste una forma di rispetto che vige qui: madri di famiglia e padri lavoratori non si toccano, quindi i genitori che vanno a prendere e a portare i figli sono una garanzia.

Ma i ragazzi non portano la violenza dentro al Centro?

Siamo sempre riusciti a mantenere la situazione sotto controllo. Primo perché ho stabilito una regola: chi si picchia è sospeso. Poi perché dedichiamo moltissimo tempo alla mediazione del conflitto. Quando ci sono contrasti convoco gli interessati e li faccio parlare, raccontare la loro versione dei fatti e poi ragiono insieme a loro: “hai ragione su questo particolare, ma hai pensato anche a quest’altra possibilità di vedere le cose?”. In realtà, molto del mio tempo e di tutti i professori è speso in questo sforzo di argomentazione. Speriamo in questo modo di creare, nel tempo, una mentalità che vive il conflitto come un invito al dialogo e non come uno scontro.

Come viene visto il vostro essere cattolici in un ambiente protestante? Come giocate il vostro essere cattolici?

Noi non siamo una realtà confessionale, ma se non esistesse la grande storia e presenza del cattolicesimo non saremmo qui. La mamma di un nostro bimbo, evangelica, mi ha detto: mi piace venire qui perché non fate proselitismo, ma insegnate le cose della vita, quelle che vanno bene per tutti. D’altra parte conta più come tratti le cose che non quello che dici. Tutti i giorni recitiamo una preghiera, il Padre Nostro, che dicono anche i protestanti. Ci tengo che ci sia almeno qualche secondo in cui tutti ci fermiamo di fronte a un’altra cosa. Una presa di coscienza del fatto che la terra sotto i piedi non la facciamo noi, che le bellezze naturali mozzafiato che ci sono qui ce le dà qualcun Altro. Ho imparato che ci sono piccoli gesti semplici che formano una sensibilità, danno una forma di pensiero.

Che nel vostro caso cambiano tanto l’ambiente in cui siete… 

Io penso che se c’è qualcosa di vero in ciò che fai non hai bisogno di dirlo tu. Semmai saranno gli altri a vederlo. L’unica cosa che posso dire è che sono una poveretta che ci prova. Niente e nessuno può toglierti quell’istante in cui ti senti tu di fronte a un’alterità che ti fa essere. E che ti si fa prossima. Così che cominci a sentire che la realtà va al tuo stesso ritmo e il tuo cuore va allo stesso ritmo della realtà. L’intensità con cui oggi sento la realtà, prima di venire qui non l’avevo.

Silvia Becciu

www.ilsussidiario.net. 21/08/2018