EDITORIALE – Riprendiamo a parlare con onestà intellettuale

By 15 Settembre 2018Attualità

La vita di ognuno di noi è intessuta da “parole” che ci accompagnano come il respiro. Ma, la parola, è sempre “una sfida”. Non è nostra intenzione proporre una disquisizione linguistica ma solo riaffermare il “peso” e il “potere” del linguaggio, poiché possiamo scrivere o pronunciare parole giuste o sbagliate, che aprono delle ferite oppure guariscono, che costruiscono oppure distruggono, che creano unione o che aprono divisioni, che infondono timore o emanano pace, parole di vita o di morte, parole che specificano degli eventi oppure li strumentalizzano.

Per questo è sempre obbligatoria l’“onestà intellettuale” da parte di chi parla e di chi scrive, poiché oggi siamo abituati a svuotare di contenuti anche termini altamente valoriali da libertà ad amore, da diritti a responsabilità… Come pure ci stiamo abituando a mutare i nomi di alcuni eventi, usando perifrasi costruite con parole in se stesse innocenti o con termini ingannevoli. Ciò significa modificare la realtà degli avvenimenti, soprattutto nei confronti di azioni da sempre percepite nella coscienza comune come abiette ed esecrabili. Questo è profondamente errato, poiché come affermava Nanni Moretti in “Palombella rossa”, le parole sono importanti, hanno un senso, devono assumere uno specifico significato che sappiano superare la velata dittatura del “politically correct”.

Ciò avviene prevalentemente nella trattazione delle problematiche riguardanti la vita, definite “tematiche eticamente sensibili” e sui suoi valori primari, avendo l’impressione di camminare sulla lama di un rasoio.

Facciamo degli esempi per comprenderci.

Oggi, la parola “aborto” sta scomparendo lasciando spazio all’espressione: “interruzione volontaria della gravidanza” come afferma la legge 194/1978. E questa è “una sostituzione tutt’altro che innocente; è un modo elegante per creare una cortina fumogena attorno alla tragica realtà in questione. ‘Interruzione’ è un termine per nulla drammatico. S’interrompe una conversazione, una trasmissione televisiva per riprenderla poco dopo, e il carattere omicida dell’azione si dissolve dietro un termine pacifico e innocente”*. Dal contenuto di questa normativa, i legislatori, avrebbero dovuto denominarla per quello che è: “Norme che regolano l’aborto volontario e il suo pubblico sovvenzionamento”.

Lo stesso vale per la conclusione della vita, dove si stanno trasformando “il suicidio assistito” e l’ “eutanasia”, cioè l’uccisione intenzionale di un malato in  “interruzione volontaria della vita” o “aiuto medico alla morte”. Ma, “aiutare a morire”, significa alleviare il dolore al morente, sostenerlo e confortarlo nella sofferenza e accompagnarlo fraternamente e amicalmente nel cammino al destino eterno.

Ammonì san Giovanni Paolo II nel Messaggio per la XIII° Giornata Mondiale per la Pace: Restaurare la verità significa innanzitutto chiamare con il loro nome gli atti di violenza, quali che siano le forme che assumono”.

E, come dar torto al Ministro della Famiglia e della Disabilità Lorenzo Fontana, che appena assunto l’incarico ha voluto restituire alle parole il loro significato affermando: “L’unica famiglia è quella con mamma e papà. Le famiglie arcobaleno? Per la legge non esistono”. E ha ragione, perché la legge n. 76 del 20 maggio 2016 (cosiddetta Legge Cirinnà) ha come titolo: “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, e nel testo non è presente il termine “famiglia”.

Quello delle parole non è un fatto banale poiché le manipolazioni del linguaggio con il trascorrere del tempo modificano anche il “modo di pensare”!

 

 

 

* L. Ciccone, La vita umana, Ares, Milano 2000, pg. 102.