INTERRIS – Recovery fund: ecco chi pagherà il conto

By 31 Maggio 2020Coronavirus

Non so quanti abbiano letto il libro di Robert E. Heinlein “La luna è una severa maestra”, che rappresenta uno dei capisaldi della letteratura fantascientifica mondiale, dove il motto delle colonie lunari è TANSTAAFL, l’acronimo di “there ain’t no such thing as a free lunch” che in italiano può essere reso con “non esistono pasti gratis”. Quando si sente, però, parlare di Recovery Fund e di sussidi a fondo perduto il primo pensiero deve sempre andare a questa massima.

Il punto di partenza di qualsiasi ragionamento, infatti, è che non esista nulla gratis, qualcuno dovrà sempre “pagare il conto”, nel caso del Recovery Fund, infatti, questo sarà pagato in primis dalle istituzioni europee e, in secundis, da tutti i cittadini dell’Unione poiché le risorse provengono dal bilancio europeo che è alimentato dai ristorni delle imposte esatte da ogni Stato membro e, quindi, alla fine provenienti dai redditi e dai risparmi di chiunque risieda all’interno dei confini dell’UE.

L’obiezione che sorge in molti, a questo punto, sarebbe sicuramente quella relativa al finanziamento di questo fondo che, come indicato nella proposta della Commissione, sarà cercato sui mercati emettendo delle obbligazioni con maturità differenziata per lotti tra il 2028 e il 2058. Volendo vedere sarebbe la prima emissione di Eurobond, sempre che venga avallata dal Consiglio, anche se questo nome non ha un grande appeal tra i paesi del nord del continente.

Proprio qui sta l’obiezione che molti, soprattutto tra i sostenitori del Governo che “vendono” questa proposta (che ancora non è definitiva, va sottolineato) come una vittoria italiana, potrebbero sollevare dicendo che se i fondi derivassero da un bond comunitario e fossero distribuiti a fondo perduto non ci sarebbe alcun bisogno di rimborsarli visto che sarebbero sostanzialmente gratis. Eh no!

Come già indicato il “conto” verrà pagato da tutti, tramite i trasferimenti a Bruxelles che, poi, non dovrà solo distribuirli nei vari progetti di sviluppo interni o usarli per pagare la struttura ma anche per accantonare il capitale da restituire agli investitori e pagare le cedole annue, esattamente come dovrebbe fare un qualsiasi stato con i titoli emessi di debito pubblico, quindi o aumentando la contribuzione da parte degli stati o tagliando costi e servizi oppure emettendo ancora debito comunitario per finanziare le scadenze finanziarie.

In verità, al di là degli importi che, sulla carta, sarebbero di competenza di ogni singolo stato e che vedrebbe l’Italia capofila con 172mld di cui 82 di sussidi a fondo perduto e gli altri 90mld di prestiti; la cosa più interessante è che se la proposta di Ursula von der Leyen e della Commissione da lei presieduta andasse in porto sarebbe il passo più concreto verso una vera federazione mai compiuto nella storia. Anche gli USA divennero uno stato vero e proprio con l’unificazione del debito pubblico e così l’Europa si avvierebbe a passi ben più decisi rispetto a prima verso una struttura federale. La solidarietà tra gli stati, finanziata a debito inizialmente e per via fiscale poi, costituirebbe, infatti, una pietra d’angolo della struttura europea futura, probabilmente, ben più della moneta unica stessa.

La scommessa è, ovviamente, quella di permettere la ripartenza della crescita economica in ogni parte del continente per spingere una ripresa repentina alla brusca “retromarcia” imposta dall’epidemia di legata al coronavirus e alle varie forme di contrasto messe in atto dai vari paesi europei che, in molti posti, sono sfociati in una lunga quarantena o “lockdown”, per chi preferisse i forbiti anglicismi.

Il periodo di chiusura, infatti, ha bloccato, di fatto, la produzione di ricchezza quasi ovunque spingendo una pesante recessione in ogni dove che potrebbe tramutarsi, credibilmente, in cali anche di due cifre percentuali rispetto al PIL dello scorso anno. Ovvio che una situazione simile potrebbe mettere in ginocchio i sistemi più deboli come fondamentali ma anche quelli che, come l’Italia, sono gravati da un alto tasso di debito pubblico (cosa che impedisce l’attuazione di misure veramente espansive) per poi andarsi a riflettere laddove sia, invece, il debito privato a primeggiare poiché il calo dei commerci di beni e servizi, potrebbe spingere a un crollo dei fatturati delle aziende che andrebbe ad alimentare una maggiore disoccupazione  o l’applicazione dei c.d. “contratti di solidarietà” contraendo così i redditi privati (e il gettito fiscale) cosa che potrebbe rendere difficoltoso onorare tutti gli impegni finanziari presi precedentemente trasformando gli attivi bancari in NPE e generando, in un circolo vizioso già visto, una crisi del settore creditizio che, per non bloccare il sistema economico, renderebbe necessaria una ricapitalizzazione delle banche da parte dello stato di appartenenza facendo lievitare il debito pubblico. Uno scenario da incubo dove nessuno possa sentirsi al sicuro?

Sì, esattamente, ma che potrebbe essere evitato “socializzando” i costi tramite i Recovery Fund che permetterebbero di ammortizzare nel tempo il conto da pagare, distribuendolo su tutti con quote ampiamente sostenibili soprattutto se veramente si riagguantasse velocemente un sentiero di crescita economica più rapido e robusto rispetto a quanto registrato finora.

Sia chiaro che questo ragionamento non è un’elegia al debito, sia mai, poiché questo ha già prodotto fin nel passato recente dei mostri che sarebbe meglio evitare ma a una gestione più oculata delle risorse come stimolo all’investimento e alla crescita economica, ricordando sempre la massima ricordata in incipit e diffidando di chiunque parli di servizi, prodotti o finanziamenti gratis.

Matteo Gianola

Maggio 31, 2020

Recovery fund: ecco chi pagherà il conto