Repubblica ha potuto esaminare un dossier preparato dal ministero della Salute in cui, ben prima dello scoppio del contagio, si analizzano le disponibilità in tutta Italia di terapie intensive, posti letto, medici e operatori sanitari, per poi formulare le contromisure. Sono state perse settimane preziose, permettendo al virus di portare avanti la sua strage senza ostacoli
A gennaio il ministero della Salute aveva già preparato un piano di emergenza per contrastare il coronavirus. Ma è stato tenuto segreto, perché ipotizzava anche uno scenario ritenuto talmente drammatico da provocare il panico. Eppure quella previsione è simile a quanto poi è accaduto, con una grande differenza: il Covid-19 è stato estremamente più veloce.
Repubblica ha potuto esaminare la seconda versione di quel documento top secret, realizzata il 20 febbraio: il giorno prima della scoperta a Codogno del “paziente uno”. In una quarantina di pagine si analizzano le disponibilità in tutta Italia di terapie intensive, posti letto, medici e operatori sanitari, per poi formulare le contromisure: le strategie da adottare per reclutare e formare il personale. Ci sono le indicazioni pratiche: i modelli per isolare e trasportare i contagiati, come sanificare gli ambienti, come monitorare l’evoluzione della risposta al coronavirus. Un piano di battaglia completo di tabelle, cifre, progetti di riorganizzazione e di intervento: si evidenzia la necessità di individuare le strutture ospedaliere da riconvertire, la realizzazione di centri di riferimento regionali, la suddivisione in macroaree territoriali. Si sottolinea l’importanza dei ventilatori polmonari. E ancora la riduzione dell’attività chirurgica; la realizzazione di posti letto riservati alle vittime del virus; l’importanza di fare scorta e distribuire, mascherine, tute e ogni dispositivo necessario per proteggere infermieri e dottori. Tutto messo nero su bianco prima che l’epidemia esplodesse. Tutto rimasto segreto.
Dal ministero della Salute spiegano che comunque quelle pagine hanno ispirato le scelte del governo: non ci sono stati ritardi, perché anche senza diffondere il documento tutte le direttive sono state impartite alle Regioni. E quelle terribili previsioni hanno permesso di guidare Palazzo Chigi verso la decisione di chiudere il Paese.
Nel dossier venivano ipotizzati tre scenari. Il peggiore, quello occultato nel timore di generare allarmismo, aveva però una tempistica fin troppo ottimista: il picco era previsto dopo un anno dal primo caso. Un contagio lento: dopo cinque mesi si prevedevano mille pazienti ricoverati, poi in 243 giorni si sarebbe arrivati a occupare il 75 per cento delle terapie intensive. In quel momento al Paese per fronteggiare l’epidemia sarebbero serviti oltre 18mila posti letto, con la mobilitazione straordinaria di un numero di medici compreso tra 18 e 37 mila a cui aggiungere altri 55mila infermieri di rinforzo.
Anche con queste misure, in due anni si sarebbe arrivati a totalizzare 646 mila casi di contagio, 133 mila dei quali avrebbero richiesto il ricovero in terapia intensiva. Una prospettiva che a febbraio pareva terrificante. Il virus invece è andato più veloce. Gli scienziati del ministero l’avevano detto: la valutazione dei tempi di diffusione è assolutamente teorica, perché non abbiamo modelli di riferimento sulla situazione italiana. E speravano ancora di bloccare la trasmissione del morbo dalla Cina: quel 20 febbraio la minaccia pareva ancora lontana. Un paio di settimane dopo il bollettino quotidiano dei decessi ha superato quota 800. L’ondata si accanisce sulla Lombardia, con le terapie intensive vicine al tracollo e le colonne di camion militari che trasportano le bare via da Bergamo.
Se le previsioni del ministero fossero state diffuse, sarebbe cambiato qualcosa nella reazione delle Regioni? Solo il primo marzo, dieci giorni dopo, viene trasmesso il primo documento governativo che sprona all’azione: “è necessario che nel minor tempo possibile” sia attuato nelle strutture pubbliche e private un modello di cooperazione “coordinato a livello nazionale per un incremento delle disponibilità di posti letto del 50 per cento nelle unità di terapia intensiva e del 100 per cento in quelle di pneumologia e malattie infettive”. Prima che comincino gli acquisti di ventilatori, l’unico strumento in grado di evitare il collasso delle terapie intensive, bisogna aspettare il 7 marzo. Sono state perse settimane preziose, permettendo al virus di portare avanti la sua strage senza ostacoli.
Floriana Bulfon
La Repubblica
9 Settembre 2020