Il professor Sergio Alfieri, il coordinatore dell’équipe medica che ha avuto in cura papa Francesco al Policlinico Gemelli, in un’intervista al Corriere della Sera del 25 marzo, ha rivelato che papa Francesco al 14°giorno di ricovero, fu colpito da un broncospasmo che gli provocò una intensa fame d’aria. Ed Alfieri, ha affermato nell’intervista, che quello è stato il momento peggiore della sua degenza perché tutti capirono che poteva anche non farcela. Quindi, la giornalista gli ha chiesto: «Che cosa avete fatto?». Così ha risposto il medico: «Dovevamo scegliere se fermarci e lasciarlo andare oppure forzare e tentare con tutti i farmaci e le terapie possibili, correndo l’altissimo rischio di danneggiare altri organi. E alla fine abbiamo preso questa strada». Ma, don, questo non è accanimento terapeutico? Beatrice
LA RISPOSTA DEL DON
Assolutamente no! I medici potevano percorrere due strade. Quella di arrendersi e quella sarebbe stata “eutanasia omissiva”, oppure quella che hanno intrapreso con interventi salvavita, anche con il rischio di danneggiare altri organi, ed è stata la soluzione vincente poiché papa Francesco, pur rimanendo molto fragile, è potuto tornare in Vaticano. In questo caso, ma anche di fronte ad ogni paziente, il probabile effetto positivo della salvezza deve prevalere su eventuali rischi. Nel seguito dell’intervista lo ha ribadito anche il professor Alfieri, affermando che quando c’è anche solo una possibilità di salvare una persona questa va perseguita.
La sua domanda mi offre l’occasione anche di chiarire due concetti etici sui quali circola molta confusione: quello di accanimento terapeutico e la differenza tra “terapia” e “cura”.
L’accanimento terapeutico posticipa la morte con interventi terapeutici inutili, penosi e sproporzionati in relazione all’obiettivo. E’ il tentativo di bloccare artificialmente un esito finale naturale, prolungando il processo biologico e l’agonia, non acconsentendo una morte dignitosa. L’eccesso di tecnicismo, l’approccio altamente specialistico, la volontà di non arrendersi e il rifiuto della morte, sono le principali cause che inducono a praticare, a volte, interventi sproporzionati. Ad esempio nel secolo XX, alcuni personaggi famosi, furono mantenuti in vita artificialmente varie settimane, per motivazioni politiche e sociali: il generale Franco (Spagna), il maresciallo Tito (Jugoslavia) e l’imperatore Hirohito (Giappone). Mentre, esaminando gli ultimi giorni di vita di san Giovanni Paolo II, a vent’anni dalla sua morte, possiamo affermare che rifiutò questo approccio. Di fronte alle insistenze dei medici per un ulteriore ricovero al Policlinico Gemelli di Roma che forse gli avrebbe prolungato di poco l’esistenza, ma con sofferenze atroci ed in un ambiente asettico, il Papa decise di rimanere in Vaticano.
E’ impossibile, però, fornire dei protocolli per evitare l’accanimento terapeutico dato che l’equivalente terapia può essere «ordinaria» o «straordinaria» a secondo della situazione del paziente. Anche una trasfusione di sangue, somministrata ad un malato in fase agonica, può configurarsi come accanimento terapeutico. Quindi, è difficoltoso per il medico determinare quando un’azione terapeutica è adeguata, e quando da «atto medico» dovuto potrebbe trasformarsi in accanimento terapeutico. Certamente, per il medico, è sempre un atroce dilemma stabilire la continuazione o la sospensione della terapia; dovrà agire in «scienza e coscienza».
Importante però è anche definire la distinzione tra «mezzi proporzionati e non proporzionati», tra «trattamento ordinario e straordinario» e tra i vocaboli “terapia” e “cura” che non sono sinonimi. La “terapia” è finalizzata alla stabilizzazione, al miglioramento o alla guarigione del paziente. La “cura” è l’insieme dei provvedimenti, sia di ordine medico che psicologico, atti a mantenere le condizioni psicofisiche del malato nella situazione migliore fino alla morte. E’ il «farsi carico» globalmente del paziente, come ricorda l’articolo 37 del Codice di Deontologia Medica: «In caso di malattie a prognosi sicuramente infauste o pervenute alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all’assistenza morale o alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato trattamenti appropriati a tutelare, per quanto possibile, la qualità di vita». Nella cura rientrano la nutrizione artificiale, l’idratazione e l’igiene, indispensabili per salvaguardare la dignità della persona. Se queste fossero sospese, il paziente morirebbe, non a causa della malattia, ma per la sottrazione dei mezzi di ordinaria sussistenza. In Italia è avvenuto per Eluana Englaro e negli Stati Uniti per Terry Schiavo, la giovane donna di quarantuno anni, in stato vegetativo persistente, morta il 31 marzo 2005, dopo quattordici giorni d’agonia, privata del cibo, dell’acqua e della presenza dei genitori che disperatamente avevano bussato alle porte di tutti i tribunali, andando in cerca di un giudice che notificasse il diritto di vivere anche per la loro figlia. Dare da mangiare e da bere, anche forzosamente, non è un atto medico o terapeutico, ma unicamente un’opera di misericordia.
Ebbene, la terapia può essere sospesa, la cura no, rientrando nel contesto delle opere di solidarietà reciproca.
Osservando i volti sorridenti di Terry e di Eluana, nella mia mente si è presentato un altro viso, quello di san Massimiliano Maria Kolbe, il frate francescano morto disidratato nel campo di concentramento ad Auschwitz il 14 agosto 1941, dopo quattordici giorni di violente sofferenze. Accettò di morire per salvare un padre di famiglia. E mi sono chiesto: «La storia, non ci ha insegnato nulla?».
Don Gian Maria