“Questo stesso tema è riemerso con forza durante la Giornata per la Santificazione Sacerdotale a Collevalenza, lo scorso 5 giugno. Nell’omelia, il cardinale Angelo De Donatis ha detto parole che mi sono rimaste nel cuore: “Il prete oggi rischia di essere un uomo solo. Solo nelle decisioni, solo nei momenti difficili, solo nelle sue debolezze. E questa solitudine, se non è abitata dallo Spirito, può diventare isolamento, e l’isolamento, nel tempo, può diventare disperazione.” E ancora: “Abbiamo bisogno di una fraternità presbiterale più concreta, più vera, più semplice. Dove si possa respirare fiducia, e non solo efficienza.”
Ecco, da tutto questo nasce questa riflessione. Non come editoriale, né come reazione emotiva, ma come bisogno di dire una verità: il nostro ministero sacerdotale non si regge solo su strutture, programmi e ruoli. Si regge, in profondità, su relazioni vere, sante, umane, spirituali. E quando queste relazioni vengono meno, anche il cuore del prete si ammala.
La domanda che mi pongo, come sacerdote, è semplice e tremenda: si può ancora vivere da preti con relazioni vere? La risposta, forse, me la offre ogni giorno il Signore, nella vita quotidiana che condivido con un confratello di 96 anni.
Vivere insieme a un fratello tanto anziano, ancora lucido, è una grazia e, a tratti, una croce. La mente vigile in un corpo fragile è un dono che può diventare condanna. Lo vedo, nei suoi sguardi che chiedono libertà e nei suoi movimenti rallentati che gliela negano. Ma in questa situazione limite, abbiamo imparato a parlarci davvero, non solo con le parole, ma con la pazienza, l’ironia, la memoria, i silenzi.
Siamo due mondi lontani. Due binari paralleli, che, secondo natura, non dovrebbero mai incontrarsi. Eppure ci incontriamo, ogni giorno, nella verità nuda e concreta della nostra amicizia sacerdotale.
Un’amicizia che è padre e figlio, fratello e confidente, complice e anche, a volte, avversario.
Lui, figlio del ’68, spirito inquieto, sempre in ricerca, pungente, polemico, disilluso forse, ma mai disperato. Io, con le mie convinzioni teologiche più salde, con uno sguardo diverso sulla Chiesa, con la tensione tra istituzione e profezia che porto dentro come una ferita. Spesso discutiamo, ci pungiamo, ci mettiamo alla prova. Ma poi, arriva sempre quel momento in cui la logica si arrende e il cuore prevale.
Ci basta uno sguardo. Uno di quei sorrisi che spengono le parole e accendono la comunione.
Allora lui mi guarda e, con quella sua saggezza che viene da lontano, mi dice: “Noi possiamo vivere insieme, Don Mario, perché ci vogliamo bene. Nonostante tutto.” E poi, con un gesto che solo lui può permettersi, passa la mano sulle labbra, mi lancia un bacetto e conclude: “Tu non sarai mai un prete, perché sei troppo vescovo. E non sarai mai un vescovo, perché sei troppo prete.” E ci mettiamo a ridere, come due bambini disarmati davanti al Mistero.
Questa è la vita comunitaria quando funziona. Non l’assenza di differenze, ma il miracolo quotidiano di accogliersi nella differenza. Non l’armonia costruita, ma l’unità donata dalla grazia che ci fa sopportare, perdonare, camminare. È un grande sforzo, sì. Ma è anche l’unico modo per non morire dentro.
Se questo è possibile tra due preti tanto diversi, è possibile anche nella Chiesa più ampia. A patto che si smetta di temere la diversità e si impari ad amarla. A patto che si abbia il coraggio di creare relazioni vere, sante, umane, in cui si può dire con libertà: ‘Ti voglio bene’, anche se non la pensiamo allo stesso modo.
Se da un lato la comunione vissuta nella quotidianità dimostra che relazioni vere tra preti sono possibili, dall’altro non posso ignorare il clima difficile in cui oggi queste relazioni si trovano a vivere. C’è un’aria sottile, quasi impercettibile, ma che si fa pesante: l’impressione che ogni gesto possa essere frainteso, ogni parola registrata nella memoria di un sospetto diffuso, ogni manifestazione di affetto o vicinanza interpretata con malizia. Non è paranoia. È esperienza concreta. E molti confratelli, negli ultimi giorni, me lo hanno scritto chiaramente: ‘Non ho più il coraggio di essere me stesso. Temo sempre di oltrepassare un confine che non so più dove sia’. ‘Ogni relazione mi pare una zona a rischio’.
In questi anni, le ferite inflitte alla Chiesa da scandali reali e gravissimi, che non si possono né negare né sminuire, hanno però generato anche un effetto collaterale micidiale: hanno logorato la fiducia. E senza fiducia, nessuna relazione può sopravvivere, neppure quella tra fratelli nel sacerdozio.
Il prete oggi si muove spesso come un funambolo, in bilico tra il desiderio di amare e la paura di essere frainteso, tra la generosità del cuore e la prudenza del contesto. E quando si arriva a diffidare persino del proprio slancio, allora la solitudine diventa rifugio, ma anche prigione.
Ma forse ciò che più mi addolora è un altro aspetto: la trasformazione delle relazioni con la gerarchia. Non è una colpa da attribuire ai singoli vescovi, che anzi, spesso vivono sotto un carico di responsabilità e timori umanamente ingestibile, ma è un segno dei tempi che ci interpella. La figura del vescovo, così come è stata ridisegnata dalla pressione mediatica, dai vincoli normativi, dalle urgenze di trasparenza e controllo, ha finito per assumere tratti più amministrativi che paterni. Non lo dico per giudicare, ma per constatare: il vescovo, oggi, raramente può permettersi di essere padre. Spesso è costretto a essere funzionario della sicurezza ecclesiale. E così anche i preti, nel loro cuore, iniziano a vederlo non come pastore che accompagna, ma come dirigente che sorveglia. E questo è un dramma. Perché quando la relazione tra prete e vescovo si appiattisce su logiche burocratiche, perde il calore della comunione apostolica. Un vescovo dovrebbe poter vedere nei suoi preti non solo una variabile da controllare, ma una risorsa da amare, custodire, ascoltare. E il prete dovrebbe poter sentire il proprio vescovo non come un’autorità distante, ma come un padre a cui confidarsi senza paura.
Quando questo non accade, si rompe il circuito della fiducia, e la solitudine, ancora una volta, si insinua e cresce. Non è questione di lagnanza o nostalgia. È una questione ecclesiologica. Perché la Chiesa vive e cresce solo nella comunione vera, non nella semplice osservanza di ruoli.
Davanti a questo scenario, la tentazione più forte è quella del ritiro. Chiudersi, difendersi, fare il minimo sindacale, non esporsi, non rischiare. È umano, comprensibile. Ma è pericoloso. Perché la solitudine, quando diventa abitudine, uccide il cuore del prete.
Eppure, lo credo con forza, si può ricominciare a costruire relazioni vere. Non partendo da grandi progetti o da strutture sinodali, ma dalla vita quotidiana, lì dove si abita, si vive, si celebra, si condivide.
Per me, ad esempio, tutto comincia ogni mattina, quando mi affaccio nella stanza di don Peppino, dopo averlo sentito tutta la notte lamentarsi per i suoi inevitabili acciacchi, Nel dirgli: ‘Come va questa mattina?’ e sentirsi dire sempre la stessa cosa: ‘Male. Ma cosa vuoi farci. Ora inizio a carburare e riparto’. Che bello! Iniziare a ricarburarsi nelle poche forze del corpo e mettere volontà di ripartire. Anche se costa fatica, anche se occorre superare se stessi con immenso sacrificio. Un lavoro degno anche per l’anima che, nel mondo attuale, sembra un centenario costretto a vivere in un corpo troppo giovane. Oppure quando ricevo il messaggio di un giovane prete che mi scrive ‘ti leggo, e mi sento meno solo’. O ancora quando un confratello mi chiede di pregare per lui, senza spiegazioni, ma con quella fiducia muta che solo tra preti si può comprendere.
È da questi piccoli gesti che nasce una rete silenziosa di fraternità, forse fragile, ma reale. Una rete che non si basa sul pensare le stesse cose, ma sul volersi bene in Cristo, sul riconoscersi bisognosi gli uni degli altri, sul sapere che nessuno si salva da solo, neppure un prete. Per questo, oggi più che mai, ogni sacerdote dovrebbe sentirsi chiamato ad essere costruttore di relazioni: Non solo predicatore del Vangelo, ma ascoltatore della vita dell’altro. Non solo amministratore dei sacramenti, ma fratello che sa stare accanto nel silenzio. Non solo collaboratore in parrocchia, ma presenza umana, semplice, autentica, che si può chiamare per nome.
È inutile aspettare che la fraternità cada dall’alto, come decreto o programma. Ognuno di noi è chiamato a riaccendere questa speranza, con la propria parola, con la propria ospitalità, con il proprio tempo.
E anche i vescovi, lo dico con rispetto e con amore, hanno bisogno di essere aiutati a non cedere al ruolo, a non vivere nell’isolamento in cui anche loro rischiano di cadere. Serve il coraggio di dire al proprio vescovo: ‘Non ti chiedo favori. Ti chiedo solo se possiamo camminare insieme. Se possiamo parlare. Se possiamo guardarci come discepoli dello stesso Maestro’. Perché la Chiesa non si rigenera con i piani pastorali, ma con relazioni in cui si sperimenta la presenza viva del Signore. Lo disse bene Benedetto XVI: ‘La Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione’. E io aggiungerei: l’attrazione nasce da relazioni vere. Da volti che si vogliono bene. Da preti che si cercano, si sopportano, si aiutano. In fondo, non è forse questa la grande profezia del presbiterio? Essere un segno visibile di comunione tra uomini diversi, uniti da un amore più grande delle loro differenze? Questo oggi il mondo aspetta da noi. Non l’efficienza. Non la perfezione. Ma relazioni credibili, perché trasfigurate dalla carità.
A tutti voi, miei fratelli nel sacerdozio, che avete letto, condiviso, scritto, confidato, vi ringrazio uno ad uno. Ho percepito nei vostri messaggi non solo dolore, ma sete di verità, bisogno di ascolto, desiderio di comunione. So che non è facile. So che a volte si preferisce tacere per non complicarsi la vita. So che molti di voi hanno imparato a sorridere con le labbra, ma non riescono più a sorridere col cuore. A voi dico solo questo: non rassegniamoci alla solitudine. Non lasciamoci convincere che il sacerdozio sia un mestiere individuale o una funzione da compiere nella correttezza esteriore. Il nostro cuore ha bisogno di altri cuori, e questo non è debolezza: è Vangelo vissuto.
Non abbiate paura di cercare l’amicizia, anche se costa. Di offrire una parola, anche se non è ricambiata. Di invitare a pranzo un confratello, anche se non vi assomiglia. Non abbiamo bisogno di cloni, ma di fratelli. E anche quando non ci capiamo, possiamo volerci bene lo stesso, come due binari che, alla fine, conducono allo stesso Mistero.
Questa notte, però, alcune parole ricevute mi hanno scavato dentro. Una donna, lasciamo anonimo il nome, per rispetto, che ha vissuto tutta la vita accanto a don Matteo, mi ha scritto così: ‘Don Mario, com’è possibile che sia stato lasciato solo da parte di una Chiesa a cui lui ha dedicato la sua vita? Non riesco a trovare pace. Non è possibile perdere una persona di quella caratura così…’.
Come si fa adesso a credere che ‘nessuno viene lasciato solo’? Le ho risposto con rispetto e tremore. Non c’era da replicare, ma da stare. Ho sentito in quelle parole non uno sfogo, ma una supplica. Non un’accusa, ma un grido d’amore. Ed è proprio l’amore che oggi ci chiede di non restare muti. Perché se la Chiesa non ascolta i suoi figli quando gridano, smette di essere madre. Questa mattina, anche un confratello ha scritto pubblicamente parole forti, senza livore ma senza veli. Don Fabrizio ha parlato di una Chiesa sempre più istituzione fredda e disumana, che rischia di precipitare nella ‘banalità del male’, secondo l’espressione di Hannah Arendt. E ha aggiunto, con lucidità profetica: ‘Don Matteo è l’epifenomeno di un disagio immenso che attraversa diffusamente la vita sacerdotale, il più delle volte inespresso per timore di dover guardare in faccia la miseria della realtà in cui si abita’. Parole che mi hanno fatto riflettere a lungo. E che mi spingono non a un’accusa, ma a un desiderio. Desidero, e mi pare di condividerlo con molti, che le nostre relazioni con i vescovi possano tornare ad avere un volto umano, semplice, paterno. Non chiedo riforme né strategie. Solo un rapporto più fraterno, dove un prete possa sentirsi guardato, accolto, stimato, senza il filtro del sospetto o del codice disciplinare.
Vorrei, e lo dico con timidezza ma sincerità, che anche i vescovi si sentissero meno soli, meno schiacciati dal timore, più liberi di essere padri tra fratelli. Non serve molto: una telefonata non prevista, una parola buona, un gesto che dica “ti vedo”, anche quando non ci sono problemi da gestire. Perché la comunione non nasce per decreto, ma per attenzione reciproca.
Alla Chiesa tutta, a voi fratelli e sorelle, che, a volte, anche giustamente, avete sempre da sottolineare qualcosa dei vostri preti. A voi, amici, chiedo, infine, di non risparmiarli dalle vostre critiche, ma anche di non dimenticare i vostri sacerdoti. Non vedeteli solo come simboli o potenziali problemi, ma come uomini veri, che ogni giorno donano se stessi in silenzio, spesso senza essere compresi. Uomini, d’altronde, che non chiedono privilegi, ma solo di non essere lasciati soli nella fatica del cammino.
Don Matteo non c’è più. E questo dolore, per molti, non passerà facilmente. Ma se restasse solo la sua assenza, sarebbe ingiusto. Dovrebbe invece restare la sua domanda, quella che ora è anche la nostra. La domanda di chi, piangendo, continua ad amare. E allora oggi non concludo. Invoco. Che il Signore ci doni una Chiesa più madre e meno procedura, più sguardi e meno incartamenti. Che ci doni una fraternità vera, che non fa rumore ma che sostiene la vita. Che ci doni il coraggio di non farci abituare al male, né assuefare alla freddezza. Che ci doni vescovi padri, preti fratelli, popolo credente e vicino.
E se oggi qualcuno ancora ci chiede, come è stato fatto a me: ‘Come si fa a parlare di Chiesa, dopo questo?’ Allora possiamo solo rispondere: si ricomincia dal pianto. E da chi, piangendo, ancora ama”.
Grazie don Mario per questa profonda e squisita riflessione. (Dal web)