Pillole di saggezza

APPUNTI DI PASTORALE DELLA SALUTE (5) – I soggetti della Pastorale della Salute: il malato (seconda parte).

 Che cosa attende il malato?

Dopo aver illustrato la scorsa settimana alcune caratteristiche del malato, oggi ci chiediamo che cosa attende dal cappellano, dai religiosi/e, dai diaconi permanenti, dai ministri straordinari della comunione eucaristica e da coloro che da cristiani lo visitano, poiché il paziente necessita di chi lo curi, lo riabiliti e riduca il dolore,  ma ciò è insufficiente dato che potrebbe organicamente migliorare ma non “essere guarito psicologicamente o spiritualmente”.

A queste figure chiede: i significati, la compassione, la consolazione e la speranza.

 I SIGNIFICATI

A fianco dell’ “essere curato” o riabilitato è presente nel sofferente l’esigenza di “essere preso in cura” da persone che lo accolgano, lo accompagnano e lo amano. Con la loro presenza, il cappellano, i religiosi/e, i diaconi permanenti, i ministri straordinari della comunione eucaristica, i laici cristiani, non rispondono ad una necessità medica, infermieristica, psicologica e sociale cui sono deputate altre figure, ma ad una esigenza spirituale ed esistenziale a cui prestiamo, a volte, scarsa attenzione: “la ricerca dei significati” e la richiesta di essere accompagnati con amorevolezza e tenerezza. Dobbiamo quindi evitare di accostare il malato fornendogli l’ impressione di “sentire pena” poichè è solo o perché sta soffrendo. La pena non è un sentimento; disturba, infastidisce e provoca una duplice afflizione. Si offre il servizio con uno stato d’animo errato, e se il sofferente lo avverte, sperimenta disagio e una solitudine maggiore. La medicina, oggi, conosce quasi tutto sul “come”: come si nasce, come si vive, come si muore…; ma questa onniscienza sul “come” ha fatto dimenticare il “perché”. Di fronte alla malattia e alla disabilità, l’interrogativo più esigente riguarda il “perché” di quanto è accaduto. Il tentativo di riposta, impone come premessa, un rapporto interpersonale fondato “sull’autentica solidarietà” che consenta una graduale “riappropriazione” dell’evento morboso. Solo così, la malattia o l’invalidità, si trasformano in “eventi esistenziali”, cessando di essere “qualcosa che si ha” ma divenendo “qualcosa che si è”. La sofferenza è sempre una crisi che può assumere un doppio senso: quello di opportunità e quello di pericolo. Da come è vissuta diviene una esperienza positiva o negativa; cioè favorisce un processo di maturazione o, viceversa, può condurre alla disperazione. Il contributo nella “ricerca di senso” impegna chi accosta il malato a camminare insieme verso il primo obiettivo.

LA COMPASSIONE

Cos’è la compassione? Quando si è compassionevoli? Chi è l’ “Esempio” dell’autentica compassione?

Il vocabolo “compassione” deriva dalla parola latina “compassio” (in inglese “to care”) ed esprime il comportamento sollecito e premuroso nei confronti del dolore altrui. Potremmo tradurre il termine anche in “soffrire con”, infatti, la compassione, non indica la presenza a fianco del malato per offrire consigli, poiché rischiamo che mentre riflettiamo sulla risposta da proporre ci estraniamo dalla sua afflizione, essendo arduo assistere un sofferente. Non è neppure l’attitudine a intuire e comprendere il vissuto del bisognoso d’aiuto penetrando nel suo mondo simbolico per decifrarne i messaggi. La compassione “è la capacità di sentire e soffrire con la persona ammalata, di sperimentare qualcosa della sua malattia, le sue paure, ansietà, tentazioni, i suoi assalti sull’intera persona, la perdita di libertà e di dignità e la sua assoluta vulnerabilità e le alienazioni che ogni malattia comporta” (E. D. Pellegrino, Ogni malato è mio fratello, in Dolentium hominum 7/1988). Di conseguenza è la disponibilità a sostenere il prossimo anche sacrificandosi per lui, come ammoniva H. Nouwen: “Nessuno può aiutare qualcun altro senza entrare con la sua persona nelle situazioni dolorose; senza assumere il rischio di soffrire, ferirsi o anche essere distrutto nell’operazione” (The wounded healer, Ed. Ny Doubleday)..

L’ “Esempio per eccellenza” della compassione è “Dio” che inviò nel mondo il proprio Figlio, non per eliminare le afflizioni dell’uomo o per sanare tutte le fragilità, ma per “condividere” la condizione umana, farne esperienza, soffrirla con l’uomo fino alla morte (cfr.: Fil. 2,1-11). Tutta la narrazione biblica è una testimonianza della compassione di Dio nei riguardi della persona. Nell’Antico Testamento, Dio ha condiviso la sofferenza del suo popolo: “con affetto perenne ho avuto compassione di te” (Is. 4,13). (Passi biblici relativi: Gen. 16,11; Es. 3,8; Dt. 32,36; Gdc. 10,16; 2 Re 13,23;  2 Mac.  7,6). Anche il Signore Gesù ha vissuto l’esperienza intima della compassione, descritta dai vari evangelisti mostrandoci i Suoi sentimenti. Vedendo le folle stanche e sfinite “ne sentì compassione” (Mc. 6,34); di fronte alla morte di Lazzaro “si commosse profondamente” (Gv. 11,33) e non rimandò nessun infermo senza avergli elargito la sua compassione (cfr.: Mt.  15,22; 17,15; 20,30-31). Inoltre, nel Vangelo, è presente il termine greco “splanchnizomai” che possiamo tradurre con “provare qualcosa nelle proprie viscere” (cfr.: Mt.  9,36;  14,14;  15,32; Mc. 10,51; Lc. 7,13; 13,12; Gv. 11,36). Il vocabolo “splaghnòn” indica anche le interiora, le viscere…, e la Bibbia parla di “viscere di misericordia” di Dio. Anche oggi, nella lingua italiana, troviamo traccia di questa derivazione nel linguaggio embriologico (splancnopleura, plancnocranio…).

La “compassione” è dunque il “prendersi cura” e il “prendersi a cuore” l’altro!   Nell’ambito ospedaliero, questo atteggiamento, stravolge l’abituale rapporto operatore sanitario-paziente e la metodologia di accompagnamento del malato poichè richiede di trasferire l’ interesse dalla patologia o dalla terapia alla persona. Molti, clinicamente “guariti”, si riconoscono feriti, ancora “malati” ad un livello più profondo, poichè non sono stati presi in adeguata considerazione dagli altri: non è stata riconosciuta la loro reale situazione, non si è prestata attenzione alle loro sofferenze ed emozioni. Talvolta, alcuni malati, non saranno “guariti” ma si riconosceranno “trasformati” avendo sperimentato la compassione. Ciò avviene mediante la presenza  perspicace  e  articolata  del medico,  dell’ infermiere, dello psicologo, del sacerdote… E, anche quando non notiamo risultati terapeutici, tutti possiamo divenire “strumenti della compassione di Dio”. Osserviamo il rapporto di amicizia tra due persone. L’autentico amico è colui che afferma: “Anche se io non so cosa fare, tu puoi essere sicuro di una cosa: io sono con te. Ogni volta che tu avrai bisogno di qualcuno, non importa in quale momento o in quale luogo, tu puoi contare su di me”. Ma per raggiungere questo elevato obiettivo dobbiamo  ascoltare, comunicare che vogliamo ascoltare, conoscere una storia cioè una persona. E, “ascoltare”, significa “prendere sul serio l’altro”, e di conseguenza, porci accanto a lui con “deferente rispetto”.

 LA CONSOLAZIONE

Il consolare è “un dono di Dio” come risposta alle situazioni umane di desolazione essendo Lui ad agire nel cuore dell’uomo, manifestando quello che egli è: “consolazione infinita”.

Cosa significa “consolare”? “Il ‘sostantivo consolare’ e il ‘verbo consolare’ sono la traduzione italiana rispettivamente delle parole greche ‘paraclesis’ e ‘parakaleo’ che significa anche incoraggiare, esortare, confortare, procurare gioia a una persona o a una comunità che si trovi in una situazione umana di tristezza, angoscia, desolazione. Consolare significa, perciò, compiere un gesto di carità concreta verso una persona o più persone che si trovano nell’afflizione. Non a caso nella plurisecolare tradizione della Chiesa ‘consolare gli afflitti’ è sempre stata considerata un’opera di misericordia suggerita a tutti i cristiani” (B. L. Papa, Il ministero della consolazione, in Insieme per servire).

Un “essenziale” testo di riferimento è la seconda Lettera di san Paolo ai Corinzi. Esaminiamo alcuni passaggi. “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio. Poiché, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale vi dà forza nel sopportare le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è salda: sappiamo che, come siete partecipi delle sofferenze, così lo siete anche della consolazione” (1,3-7).

Nella Lettera è evidente che l’origine della consolazione è il Padre, ma dopo aver vissuto l’ esperienza della consolazione di Dio, anche noi diveniamo “collaboratori” della consolazione dell’Onnipotente. San Paolo, dopo molteplici afflizioni, ansie e preoccupazioni, afferma di essere beneficiario della consolazione di Dio, perciò è “abilitato da Dio” a consolare. Nel caso particolare, Tito era giunto in Macedonia da Corinto per annunciare all’ “Apostolo delle Genti” “buone notizie” sul successo della sua opera di correzione di quella comunità (cfr.: 2 Cor. 7.4,6), e ciò aveva procurato a Paolo gioia e conforto. Pure noi, a seguito di esperienze di consolazione del Padre Celeste, possiamo con autorevolezza consolare come afferma Paolo commentando la visita di Tito. “Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione. Infatti, da quando siamo giunti in Macedonia, la nostra carne non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, timori al di dentro. Ma Dio che consola gli afflitti ci ha consolati con la venuta di Tito, e non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi. Egli ci ha annunziato infatti il vostro desiderio, il vostro dolore, il vostro affetto per me; cosicché la mia gioia si è ancora accresciuta” (2Cor. 7,4-7). E’ così che Dio si avvale di noi; ci offre l’esperienza di conforto nelle difficoltà per trasmettere ad altri lo stesso incoraggiamento. Le nostre parole ai sofferenti, allora, non saranno “banali consolazioni”, ma il frutto dell’esperienza “di afflitti e di consolati”. Dunque, l’essere consolato e il consolare, vanno ricondotti alla “Grazia di Dio” operante in noi mediante Cristo che consolando a nome del Padre, si manifesta come il “Dio della consolazione” (Rm. 15,5); infatti con la sua risurrezione ha arrecato sollievo a tutti gli uomini!

Paolo, evidenzia dunque che cos’è “la consolazione divina”. Lui, abbiamo affermato, fu consolato da Dio “essendo stato liberato”, cioè salvato da un minaccioso pericolo, e riferendosi alla comunità di Corinto parla del suo apostolato spesso intessuto di afflizioni e di sofferenze. La “consolazione divina” offre forza d’animo, lucidità e totale consapevolezza nell’affrontare le varie situazioni dolorose dell’esistenza!  Ma, la consolazione che noi doniamo, è congiunta a una “profonda comunione” con Cristo crocefisso e alla effettiva partecipazione alle Sue sofferenze. E’ la comunione profonda ed autentica con il Signore Gesù che ci autorizza a consolare l’altro! Per questo non sono rilevanti le parole o le argomentazioni, ma la “comunione con il Maestro”. Tutto ciò vale anche per lo Spirito Santo definito il “Paraclito”: colui che trasforma la desolazione in letizia e la tristezza in gioia. Da quanto affermato deduciamo che l’esperienza della consolazione necessita della preghiera e dell’invocazione; un’orazione per noi personalmente in quanto già soggetti della consolazione di Dio e per chi consoliamo. Chi ha vissuto periodi complessi, se ha saputo fare tesoro dell’esperienza della consolazione divina, è di enorme supporto al fratello nell’ invocare Dio “come consolatore”.

 LA SPERANZA

Il malato implora speranza!

Per comprendere la rilevanza della “speranza cristiana” dobbiamo inquadrarla nel contesto delle virtù. Il vocabolo “virtù” è interpretato in svariati modi. Per la “concezione teologica”, un punto di riferimento è la parte terza del “Catechismo della Chiesa Cattolica” che la presenta nella prospettiva del rapporto tra fede e vita, nella tendenza al bene che si realizza nella professione, nella celebrazione della fede e nella coerenza quotidiana alla vocazione cristiana in Cristo secondo lo Spirito. La virtù, di conseguenza, non è la caratteristica di persone devote o protese al perfezionismo spirituale, quale frutto di una presunta autosufficienza, ma è I’agire e I’operare di colui che è totalmente e responsabilmente radicato nel Signore Gesù.

La “speranza cristiana” è “la certezza” che l’esistenza oltrepassa il contingente essendo in tensione verso I’Assoluto e, di conseguenza, è impossibile disgiungere “vita” e “speranza”. Libera I’uomo dall’angoscia e dalle disperazioni conseguenti alle delusioni dell’esistenza, dalla sofferenza, dall’incapacità di cogliere la realtà nella sua bellezza e nella sua ricchezza. “La cristianità quando parla di ‘speranza’ parla del futuro del mondo, dell’umanità, della natura nella cui storia è coinvolta” (J. Moltamann, La Chiesa nella forza dello Spirito, Ed. Queriniana). Allora, l’oggetto della speranza cristiana, è “I’escatologia” che si fonda sulla Paternità di Dio (cfr.: Ef. 2; 1 Cor. 1,9).  La sollecitudine di ogni operatore pastorale è di essere messaggero della speranza cristiana tra i “dis-sperati”, rammentando che l’etimologia “dis-sperato” non è sinonimo di assenza di speranza ma di un alterato significato ad essa attribuito.

La “speranza cristiana” è:

-“la tensione”, ricca di attesa nel futuro;

-“la fiducia” che il futuro si realizzerà;

-“la pazienza” e “la perseveranza” nell’attenderlo.

Tutto ciò, ovviamente, è un “dono di Dio”, essendo l’origine della speranza presso il Creatore, e pone le “fondamenta” sulla Sua fedeltà e nell’ “abbandono” nelle sue braccia di Padre. Possiamo quindi concludere affermando che il “traguardo” e il “punto di arrivo” della “speranza cristiana” è il Signore Gesù che “di nuovo verrà, nella gloria per giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine” (dal Credo Niceno-Costantinopolitano). Questo evento, consentirà ad ogni uomo, di accedere alla gloria di “figlio” accanto al Padre (cfr.: 1 Cor. 4,5).

Per il cristianesimo, come già affermato, la sofferenza non è una benedizione e una predilezione ma neppure un castigo e una maledizione, essendoci una credenza in Dio che germoglia anche dal dolore. Questo significa che per il discepolo del Signore Gesù l’ incontro con il patire acquista un significato originale se sviluppa e intensifica il rapporto con il Padre che afferma: “La fede che preferisco è la speranza. La fede non mi stupisce (…). Ma la speranza, ecco quello che mi stupisce. E sperare è difficile. Quello che è facile è disperare, ed è la grande tentazione (…). Noi sotto I’influsso dello Spirito, aspettiamo la speranza promessa dallo Spirito” (Ch. Peguy, Il mistero della seconda virtù, Ed. Jaka Book), La visione pessimistica e rassegnata della storia personale e societaria non è cristiana; è peculiare del “di-sperano”, ma con un’osservazione: “È proprio la speranza in Dio che ci fa soffrire per l’assurdità del dolore con cui impedisce di venire a patti; che rinnova in noi la fame di un significato, la sete di giustizia per tutti, per i vivi e per i morti, per coloro che sono stati e per coloro che verranno e impedisce che ci adattiamo e ci rassegniamo” (Sinodo Nazionale di Germania, Speranza. Una confessione di fede nel nostro tempo, Monaco 1988).

(fine quinta parte)

 

 

 

3 novembre 2017

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