Ruanda. Maguy Barankitse mamma di tutsi, hutu e di trentamila bimbi

By 18 Ottobre 2019Testimoni

Nel 1993, in pieno conflitto inter-etnico in Burundi, la donna cristiana salva da un massacro 32 orfani.

Un anno dopo nasce «Maison Shalom», un luogo dove far crescere una nuova generazione che saprà interrompere la catena della violenza «È sempre l’amore che ha l’ultima parola, tra i bambini passati per la casa, so che molti non rinunceranno mai a studiare, sono piccole candele nell’oscurità È sempre la luce che scaccia il buio, non il contrario» «Mi sono attirata l’odio di tutti. Un giorno un giovane ribelle mi voleva sparare Aveva un’arma e un rosario Mi sono inginocchiata e gli ho detto: recitiamo il rosario insieme. Metti via l’arma e vieni con me. È diventato l’autista della nostra casa»

Marguerite Barankitse è una signora tutsi del Burundi, elegante, bella, allegra e piena di umorismo, con una fede solida e profonda e un’eccezionale vitalità organizzata. In Burundi la chiamano «Maguy la folle ». «E forse hanno ragione», dice Marguerite. «Ho sempre amato la canzone “Imagine” di John Lennon, immaginare e poi agire. Da quando era bambina volevo migliorare il mondo, correggere le sue innumerevoli storture». Nell’autunno del 1993 scoppia in Burundi una violenta guerra civile. Viene ucciso Melchior N’Ndadaye, il primo presidente hutu nella storia del Paese e il primo eletto democraticamente.

Gli hutu, l’84 per cento della popolazione, si vendicano dando la caccia ai loro vicini tutsi, il conflitto provocherà 300mila morti. Maguy ha 36 anni, vive a Ruyigi, nel sud est del Paese, non lontana dalla frontiera con la Tanzania dove si concentrano gli hutu in rivolta. Non si è mai voluta sposare, ma ha adottato sette bambini orfani hutu e tutsi. Con loro si rifugia nella diocesi, dove lavora come segretaria del vescovo di Ruyigi. Il 24 ottobre 1993 un manipolo di tutsi armati di machete irrompe nell’edificio. Maguy nasconde i suoi bambini nella sacrestia, poi parla agli assalitori : «Anche se qui ci fossero persone che hanno ucciso, voi non potete uccidere a vostra volta i vostri fratelli, come Caino. Io non vi darò le chiavi. Non ho scelto di essere tutsi, ma di essere cristiana sì».

Gli uomini la spogliano, la legano a una sedia e appiccano fuoco all’edificio per costringere gli hutu che vi si nascondono a uscire. Saranno tutti uccisi sotto gli occhi di Maguy: settantadue persone. Lei viene risparmiata perché la credono una suora, i figli degli uccisi barattati da Maguy con denaro e viveri. Tra i bambini sopravvissuti ci sono Lisette e Lydia, le figlie di Juliette, un’amica d’infanzia di Maguy, una tutsi sposata a un hutu, entrambi decapitati. In segno di disprezzo gli assassini appoggiano la testa mozzata di Juliette sulle sue ginocchia. Maguy scappa con i suoi trentadue bambini, tra vecchi e nuovi orfani. Si ripara in un cimitero, poi ospite di un amico cooperante tedesco, infine in una vecchia scuola abbandonata prestatale dalla diocesi. Nel maggio del 1994 nasce «Maison Shalom», negli intenti di Maguy, un luogo dove far crescere una nuova generazione che saprà interrompere il circolo vizioso della violenza e dell’odio fra hutu e tutsi, illuminare le tenebre in cui è immerso il Paese. Presto si sparge la voce che «una matta di Ruyigi» accoglie tutti gli orfani che bussano alla sua porta senza fare distinzioni fra hutu, tutsi e perfino twa, la minoranza pigmea, malvista da entrambi.

«Mi sono attirata l’odio di tutti, i tutsi mi davano della traditrice, gli hutu mi attaccavano. Un giorno un giovanissimo ribelle hutu mi ha fermato nella foresta e mi ha detto inginocchiati! Mi inginocchio solo di fronte a Dio, ho risposto. Ah non vuoi inginocchiarti? Allora sparo. Aveva 17 anni, in mano un’arma e un rosario. Mi sono inginocchiata e gli ho detto: recitiamo il rosario insieme, perché hai un rosario e un’arma insieme? Vai a riportare l’arma a chi te l’ha data e vieni con me, sarai un ragazzo della Maison Shalom. È diventato l’autista della casa, per noi si butterebbe nel fuoco».

Di ogni orfano Maguy cerca di ritrovare il villaggio e i parenti sopravvissuti, finanzia loro l’acquisto di semi e attrezzi perché lavorino la terra ereditata dagli orfani. A chi non ha niente Maguy regala qualche pezzo di terra della sua famiglia su cui in pochi mesi vengono costruite più di 80 case, ognuna assegnata a una famiglia ricostituita di bambini e ragazzi accompagnati da figure di educatori e psicologi che condividono il lavoro nei campi, la scuola e il tempo libero. I «suoi» bambini sono rifiutati nella piscina dell’albergo della città? Maguy gliene costruisce una, insieme al cinema, alla sala informatica, al salone di bellezza e al parrucchiere che danno lavoro. I bambini della Maison Shalom diventano migliaia: malati di Aids, feriti, violentati, bambini soldato e di strada. Dopo la guerra civile, in Burundi il dieci per cento dei bambini non ha i genitori.

Moltissimi sono oggi laureati o studiano, in Burundi e all’estero, in Belgio, in Canada, chi è rimasto vicino a lei è diventato un suo stretto collaboratore. Nel 2010 Maguy ha inaugurato l’ospedale Rema, il più attrezzato del Paese, con reparti di neonatologia e di ortopedia che non ha nessun altro ospedale, una scuola per personale paramedico e apparecchiature avanzate donate dai tanti «amici della Maison Shalom» sparsi nel mondo. Maguy ha investito i soldi vinti in premi importanti, l’ultimo l’Aurora Prize for Awakening Humanity, un milione di dollari donati da magnati americani discendenti di armeni scampati al genocidio del 1915. Un giorno l’opera di Maison Shalom costruita poco per volta con grande fatica e molti aiuti, va in pezzi. Il governo del dittatore Pierre Nkurunziza reprime nel sangue le manifestazioni di protesta contro la proposta di modificare la Costituzione per permettergli un terzo mandato. Maguy è tra i giovani e le donne che si sdraiano in piazza.

Le milizie Imbonerakure, («coloro che si vedono da lontano»), arruolate dal presidente, polizia e servizi segreti, sparano alla schiena, incarcerano, torturano. A migliaia i burundesi fuggono in Ruanda, Uganda, Tanzania, Congo. Maguy protesta, cura i feriti, porta da mangiare ai ragazzi in carcere finché anche lei è costretta a fuggire, il presidente ha emesso una taglia su di lei. «Le attività di Maison Shalom in Burundi sono state chiuse», racconta con dolore. «Anche l’ospedale, i neonati o i malati che non possono essere accolti da altri ospedali muoiono. Il latte che ci aveva dato la cooperazione svizzera, 22 tonnellate, è rimasto lì. Il governo ha bloccato i nostri conti, ha preso anche i soldi dei contadini, 27 cooperative agricole nate con il nostro aiuto». Maguy si rifugia in Ruanda, il Paese vicino, e ricomincia da zero.

«I rifugiati sono persone normali piombate in una situazione anormale, ora che lo sono anche io so di cosa hanno bisogno. Chiedono di mettere a frutto i loro talenti, di guadagnarsi da vivere con dignità. Continuo a sognare di crescere insieme una nuova generazione di hutu e tutsi, è un problema politico, non etnico». Nel campo modello di Mahama, costruito dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, gli abitanti coltivano, le donne cuciono le divise per gli allievi delle scuole, è una formula di “win-win”, lavorano, sono pagati e almeno in parte autonomi. Maguy ha stabilito accordi con università europee perché gli studenti dei campi possano studiare online. «È sempre l’amore che ha l’ultima parola, tra i trentamila bambini passati per la Maison Shalom, so che molti non rinunceranno mai, sono piccole candele nel buio. È sempre la luce che scaccia il buio, non il contrario».

Maria Pace Ottieri

29 settembre 2019

https://www.avvenire.it/mondo/pagine/maguy-barankitse-mamma-di-tutsi-hutu-e-di-trentamila-bimbi