TEMPI.IT – La magistratura in un «mare di melma». E con lei l’Italia intera

By 15 Giugno 2020Attualità

Altro che Stati Generali. La prima emergenza è arginare l’unico vero potere assoluto che c’è nel nostro paese: quello delle toghe. La lezione del caso Palamara (e di Paolo Mieli).

Paolo Mieli, principe indiscusso del giornalismo italiano, ha recentemente notato che «l’Italia – appena uscita dall’epidemia – non ha avuto il tempo per accorgersi del mare di melma che sta sommergendo l’ordine giudiziario». La citazione si riferisce a quell’Ordine di cui tutti conosciamo la centralità nella società, politica ed economia italiana. Dunque, perché invece di divagare in chiacchiere autocelebrative i partiti di governo e il premier Conte non hanno “convocato” il tema della “melma” a Villa Pamphilj?

Quando Paolo Mieli fece la grande ammissione a Tempi («ci ho creduto, ma adesso capisco che Mani pulite non è il nuovo… Perché ci sono voluti tanti anni per capire che anche il Pci-Pds non era estraneo al sistema di Tangentopoli?… Con Berlusconi abbiamo esagerato, mentre con l’Ulivo siamo stati troppo cortigiani» eccetera) in una intervista datata 1 aprile 1998 che provocò a Giorgio Bocca uno sversamento di bile, Luca Palamara aveva solo 29 anni. Ma doveva essere già un bel fenomeno visto che da un anno era già sostituto procuratore a Reggio Calabria. «Dove si è tra l’altro occupato di reati contro la pubblica amministrazione e di procedimenti di competenza della direzione distrettuale antimafia» (così il sito del Csm, Scheda Consigliere).

Molti anni dopo che da direttore del Corriere della Sera intonò la danza funebre intorno ai partiti della Prima Repubblica (1992) per poi cantare il de profundis (1994) anche al governo Berlusconi I, eccoci a ragionare a freddo sull’editoriale del 5 giugno che Paolo Mieli ha dedicato alle vicende connesse al magistrato fenomeno che da Reggio Calabria ha preso un treno lungo lungo che lo ha portato ai vertici della rappresentanza giudiziaria (Csm, Anm, sindacato). Divenendo infine il referente di una vasta rete di potere (e non solo). Tant’è che, osserva Mieli, «le pagine in cui sono state verbalizzate le chiacchiere dei tessitori di trame sarebbero sessantamila».

Ricordiamo che, come scrivemmo in tempi non sospetti, a nostro avviso il caso Palamara è un incidente da bulimia del potere. È infatti noto che la notizia dell’inchiesta per corruzione all’ex rais dell’Anm e del Csm (inizialmente la procura di Perugia ipotizzò che Palamara si fosse venduto una poltrona di capo procuratore per 50 mila euro, poi, due settimane orsono, l’accusa è caduta) esplode nel maggio del 2019 in un contesto di lotta all’arma bianca tra le correnti sindacali interne alla magistratura per accaparrarsi le poltrone più ambite nelle diverse procure. In particolare, il posto di capo procuratore a Roma che Giuseppe Pignatone lascia scoperto il 9 maggio dello scorso anno.

Esattamente un anno dopo, mentre Pignatone diventa editorialista di Repubblica (ancora in epoca De Benedetti) e il 3 ottobre 2019 viene chiamato da papa Francesco al vertice del tribunale Vaticano, quasi in concomitanza con la chiusura dell’inchiesta su Palamara, il “nodo” della procura di Roma è pacificamente sciolto, trovandosi un capo procuratore «in linea di continuità con la gestione Pignatone» (Liana Milella, Repubblica 4 marzo 2020, leggi: stessa corrente di Pignatone e nome indicato dallo stesso Pignatone). «Lo scontro tra le correnti però è stato durissimo». (Liana Milella ibidem).

Vale a dire: dato che la sinistra giudiziaria ha perso molti consensi, nell’ultimo giro di nomine ha subìto molte sconfitte. Rischiava di perdere anche Roma. Comprensibilmente l’antica nobiltà rossa di Md – Magistratura democratica: tanto per intenderci, quella dello scomparso ex procuratore capo di Milano e poi senatore Pd Gerardo D’Ambrosio – non avrebbe certo digerito l’affronto. Ed ecco che un “incidente” abbatte l’uomo forte delle trattative e spiana la strada alla soluzione «in linea di continuità con Pignatone».

La faccenda dovrebbe chiudersi lì, con quest’ultima sofferta e molto contrastata nomina. In realtà, depositati agli inizi del maggio scorso gli atti di inchiesta e le 60 mila pagine di intercettazioni, iniziano a uscire sui giornali le conversazioni captate a Palamara in un anno di generoso trojan. Dopo di che, hai voglia a esibire mea culpa, promesse di redenzione o anche solo la spavalderia dei congiunti che fanno le star tv (magistrati e direttori di giornali). Come saggiamente segnala Mieli, con 60 mila pagine di brogliacci «possiamo immaginare che le indiscrezioni continueranno ad essere distillate a lungo».

Naturalmente, a partire dagli inizi di maggio, ciascuno ha iniziato a pubblicare le intercettazioni buone per la propria linea editoriale. Ciò non toglie che nelle 60 mila pagine di chiacchiere intercettate si mostri «la melma che sommerge l’ordine giudiziario». Dove sta “la melma”? Sono sufficienti anche solo mozziconi di frasi per intendere che si tratta di una rete di magistrati (e non solo) che se ne fregano della Costituzione e sembrano a tal punto faziosi che non hanno alcun ritegno a manomettere la democrazia («Salvini ha ragione ma bisogna attaccarlo lo stesso»). Magistrati che si pensano in estrema confidenza col Quirinale («Bisogna parlarne con Mattarella»). E chissà come mai, magistrati che sembrano intimiditi dal nome di un direttore di giornale («Guarda che lo dico a Marco Travaglio»).

Insomma, ci vuole poco al giornalista che è stato il pivot mediatico-giudiziario di Tangentopoli e il propulsore dell’affaire Berlusconi, per capire dove va a parare il caso Palamara. Così, nell’editoriale da capitano di lungo corso in cui Mieli si riserva anche il piacere di ricostruire puntualmente i passaggi del caso Bonafede-Di Matteo, le conclusioni sono talmente degne di nota che meritano di essere qui riportate integralmente:

«E qui siamo giunti al punto: le correnti della magistratura che sono diventate qualcosa di assai anomalo. Non se ne conoscono più i motivi di differenziazione ideologica. Appaiono centri di potere e come tali si muovono. Sono fortissime, si alleano, si combattono. Si sa di pochi magistrati che abbiano fatto carriera senza aver preso parte a questa particolare forma di vita associativa. Ricorrono, le correnti, al linguaggio della politica – “destra”, “sinistra” – ma è un’evidente finzione.

A questo punto è chiaro che il problema non è più, come in passato, quello di porre rimedio a una subalternità alla politica. La politica è con le spalle al muro. Il potere sono loro, i magistrati che hanno in mano le correnti. Della crescita di questo potere hanno dato prova negli ultimi venticinque anni contribuendo non marginalmente a far saltare in aria i governi di Silvio Berlusconi e di Romano Prodi; mettendo alle corde Matteo Renzi e Matteo Salvini; infilzando una gran quantità di politici di calibro minore. Pochissimi tra questi uomini di partito piccoli e grandi hanno resistito, quando se ne è presentata l’opportunità, alla tentazione di approfittare dei guai giudiziari dei propri avversari. Tutti, allorché sono stati investiti dalle inchieste, si sono aggrappati alla tenda e hanno pronunciato orazioni che, nei loro intenti, avrebbero dovuto lasciar traccia nei libri di storia. Ma, di quei discorsi, nei libri di storia ne resterà solo uno: quello di Bettino Craxi del 3 luglio 1992».

Altro che “Stati Generali”. Paolo Mieli sottolinea una volta per tutte (e da una posizione completamente disinteressata, fuori da ogni logica e calcolo politici) che l’Italia è un paese che va alla malora perché «la politica è con le spalle al muro». Mentre «il potere sono loro, i magistrati che hanno in mano le correnti».

Come se ne esce? Per Mieli

«un cambiamento virtuoso della giustizia italiana si avrà solo quando un magistrato darà battaglia al sistema degenerato delle correnti. A testa alta, mentre è ancora in servizio. Mettendo nel conto che subirà l’ostracismo dei colleghi. Tutti. O quasi».

A noi queste ultime righe paiono un po’ deboli. Davvero la fuoriuscita dal «mare di melma che sta sommergendo l’ordine giudiziario» può venire dall’atto di eroismo di un magistrato (come Giovanni Falcone che fu tra i primi a sostenere la necessità di riformare il Csm e la separazione delle carriere)? Riflettiamo. Dopotutto, Luca Palamara non è affatto una “mela marcia”. Al contrario. Egli ha rappresentato al meglio le dinamiche del sistema di rappresentanza dell’ordine giudiziario italiano. Tanto è vero che, se non fosse incorso nell’”incidente” e nel seguito che ha condotto a conoscere le 60 mila pagine di chiacchiere, il sostituto procuratore Palamara e poi giudice e poi sindacalista e poi vertice dell’Anm e poi membro togato del Csm… sarebbe ancora lì, con i suoi colleghi e i suoi sodali (giornalisti) a gestire strategie, posizioni, interessi e potere.

D’altra parte, così funzionano le cose in Italia da venticinque anni a questa parte. E così, di conseguenza, ha agito Luca Palamara, comportandosi da efficiente, determinato e spregiudicato rappresentante della corporazione sindacal-giudiziaria. Siamo stati i primi qui a Tempi a parlare di “Stato profondo”. Oggi tutti giochicchiano con l’inglesismo “deep state”. In quelle 60 mila pagine c’è la conferma (o perlomeno il riscontro più superficiale, perché la Norimberga italiana deve ancora venire) di un potere che è consapevole di avere gli strumenti per comandare e piegare tutto – dalla politica all’economia, dal costume alla cronaca nera (chissà, magari ne sentiremo ancora delle belle sulla saga del Mostro di Firenze) – alla misura delle proprie strategie, interessi, determinazioni.

Chiaro che c’è una maggioranza di magistrati che non è attiva al livello di Luca Palamara. Ma è altrettanto evidente che l’intera categoria è al corrente di chi sono i referenti da cui si deve passare se si vuole ottenere un posto, un passaggio di carriera, un emolumento economico, un insabbiamento di procedura, un favore da contraccambiare… eccetera. Cioè, né più e né meno, tutto il peggio che per anni abbiamo sentito narrare e condannare dei politici. Con l’aggravante che i controllori si fanno beccare a sguazzare in «un mare di melma».

Che fine può fare, al dunque dei nessi e connessi del caso Palamara, la famosa “fiducia nella magistratura”, ora che si trova anche documentato in 60 mila file il tutt’altro che professionale connubio tra sistema giudiziario e sistema mediatico?

Adesso è più chiaro in che modo giornali monotematici (e monomaniacali) sono diventati ricche imprese commerciali invece di morire di fame: la loro fortuna è stata supportare le carriere di alcuni magistrati e avere in cambio le soffiate giuste al mercato delle notizie. Insieme, magistrati e giornalismo incorporato alla magistratura, hanno diretto l’orchestra mentre vanamente si agitavano la politica, l’economia o anche solo la semplice testimonianza civile di un italiano impegnato.

Ecco infine di quali Stati Generali avrebbe bisogno l’Italia, visto e considerato che è del tutto irrealistico immaginare la ribellione a questo sistema da parte di qualche eroico magistrato. Non servono grandi riforme, basterebbero solo due mosse per cominciare a svuotare il pozzo nero che da venticinque anni fa navigare il paese nel «mare di melma» descritto da Mieli, rendendo gli italiani materialmente sempre più poveri e sempre più arretrato ogni comparto della società.

Prima mossa: bisogna abolire l’obbligatorietà dell’azione penale, il grande alibi in cui sguazza la discrezionalità delle procure e che titilla la politicizzazione dei procuratori. Avremmo già un cambiamento radicale se si stabilissero ogni anno delle priorità circa i reati più gravi e di maggiore allarme sociale da perseguire al posto dell’astratta obbligatorietà che finge di perseguire tutto, cioè milioni reati (che poi, tradotto nei fatti, significa milioni di faldoni impolverati e totale discrezionalità, perché qualsiasi pubblico ministero può aprire il fascicolo che vuole e indagare chi vuole giacché non deve misurarsi con alcun controllo e rispondere a nessun superiore).

Seconda mossa: separazione delle carriere creando un muro invalicabile tra la carriera del pubblico ministero e quella del giudice. Abbiamo più volte ricordato il motto sapienzale dell’insospettabile ex grande inquisitore Luciano Violante: «Il magistrato deve essere un leone, ma un leone sotto il trono». Oggi i magistrati sono al tempo stesso il leone e il trono. Un potere che non esiste neppure nelle monarchie assolutiste. E che piuttosto ha una inquietante analogia col ruolo che hanno i mullah, gli esperti di teologia e legge islamica in repubbliche quali l’Iran. “Mullah”, come si vede nel «mare di melma» esposto in pubblico dal caso Palamara, che si proteggono vicendevolmente e trafficano diuturnamente all’ombra di un Consiglio superiore della magistratura che più che essere un “organo di autocontrollo” è una istituzione sacrilega dove si pratica il traffico delle carriere e delle poltrone. La separazione delle carriere taglierebbe alla radice il sindacalismo corporativo e, quindi, restituirebbe il Csm alla sua originaria funzione.

Naturalmente, separazione delle carriere e lotta alla simonia giudiziaria comportano analoga separazione tra magistratura e giornalismo e contrasto alla simonìa. Anche qui serve un muro invalicabile, visto che sono due mestieri diversi ma che in Italia – e solo in Italia – si sono talmente identificati da diventare un unico «mare di melma» insopportabile.

Luigi Amicone

15 giugno 2020

La magistratura in un «mare di melma». E con lei l’Italia intera