Riflessioni sul cosiddetto «primato della coscienza»

By 10 Settembre 2018Attualità

Si sente oggi spesso parlare del «primato della coscienza» come di valore sommo e irrinunciabile. L’espressione sembra a tutta prima innocua e pare riflettere l’alta dignità della coscienza nel giudicare del valore delle nostre azioni e in tal senso parrebbe accettabile. Ma in questa materia così delicata non ci si deve abbandonare a una facile retorica o alla frase ad effetto, ma occorrono molta precisione e cautela, perché in questo campo sono frequenti e pericolose le insidie sotto l’apparenza della verità.

Quando sentiamo una frase come questa, dobbiamo chiederci: primato su che cosa? In quale ambito di realtà? Infatti questa frase, presa così in assoluto, sembra voler dire «primato della coscienza sulla realtà e su tutto l’orizzonte della realtà». Ora, bisogna dir subito che non è la coscienza a primeggiare sulla realtà, ma è la realtà la regola della verità dei giudizi della coscienza.

Nei giudizi morali non dobbiamo quindi ascoltare anzitutto la nostra coscienza come se essa fosse la regola suprema del nostro agire morale, ma dobbiamo invece ascoltare la coscienza e seguirla in definitiva, come regola immediata dell’agire hic et nunc, dopo aver consultato la legge morale e nell’intento non di superarla con un’arbitraria «etica personale», come crede Rahner, ma di applicarla nei casi concreti.

Non è quindi lecito e vantaggioso sottrarsi all’obbedienza alla legge morale col pretesto di ascoltare la propria singola coscienza. Infatti, la legge morale è universale ed obbliga tutti. Se la verità o norma morale variassero da coscienza a coscienza, sì da verificarsi il noto detto quot capita, tot sententiae, scomparirebbero l’uguaglianza e la comunicazione umana, sarebbe il trionfo della violenza dell’homo homimi lupuse per conseguenza la convivenza umana diventerebbe impossibile.

Ciò naturalmente non toglie legittimità e ragion d’essere alla varietà delle opinioni morali. Ma esse posseggono appunto tale legittimità e ragion d’essere, in quanto fondate sul bisogno e sulla ricerca di una verità universale, sia essa di ordine morale o speculativo.

Altra considerazione da fare è che il primato nell’orizzonte dell’essere non appartiene alla coscienza, che è ristretta al campo del pensiero umano, ma appartiene allo stesso essere reale, appartiene alla realtà, dalla quale dipende il pensiero e al vertice del quale non c’è la coscienza umana, ma Dio.

La coscienza non ha il primato neppure come principio della verità. Questo è stato l’errore del cogito cartesiano. E tanto meno essa dà origine all’essere, come credette Hegel.  La coscienza certo ha a che fare con la verità, ma in quanto la coscienza è adeguazione al reale, che è il principio ontologico della verità e della stessa coscienza.

Infatti, se oggetto immediato della coscienza è un dato interiore, è un pensato un concepito, non bisogna dimenticare che la conoscenza del reale non si esaurisce nella coscienza, come a dire che l’oggetto del conoscere o del sapere non è il pensato, ovvero il concetto, ma il pensabile, ossia la realtà esterna indipendente dalla coscienza, che esiste anche se non la pensiamo.

E lo stesso dato di coscienza non sarebbe possibile, se la coscienza non lo avesse ricavato dal contenuto della conoscenza che direttamente ha attinto al reale. Per questo, la conoscenza della legge morale non è un dato a priori della coscienza, come credeva Kant, ma si ricava dalla conoscenza oggettiva della natura umana, creata da Dio, indipendente dalla coscienza.

La falsa idea del primato della coscienza rispetto alla realtà, così come l’ho illustrata, genera tre principali concezioni sbagliate della coscienza, che distolgono l’agire umano dall’osservanza della legge morale e quindi dal conseguimento del suo fine di raggiungere Dio.

Tutte e tre pretendono di far dipendere la legge dalla coscienza, anziché la coscienza dalla legge: il soggettivismo, per il quale la legge è ciò che decide la coscienza del singolo soggetto, per cui non esiste una legge universale, ma la coscienza di ognuno decide per conto proprio secondo il suo comodo personale; il relativismo, per il quale la legge morale varia relativamente ai tempi e ai luoghi; lo storicismo, per il quale non esiste una legge morale immutabile, ma essa muta nel corso della storia.

La coscienza è atto riflessivo dell’intelletto, naturalmente orientato alla verità, anche se di fatto la coscienza umana è fallibile, sia che erri in buona fede o che erri volontariamente. La coscienza umana coglie infallibilmente il suo rapporto con Dio e la legge naturale, dato che ogni uomo deve rispondere davanti a Dio delle sue azioni. Ciò non impedisce che la coscienza morale possa oscurarsi a causa delle passioni o di una cattiva educazione ed abbia quindi a volte bisogno di essere corretta, in quanto i suoi contenuti non corrispondono alle vere esigenze della legge morale.

La dignità della coscienza può essere pienamente riconosciuta e rispettata senza bisogno di porla presuntuosamente in cima e all’origine di tutta la realtà e la verità. In ogni caso la coscienza ha il compito di intervenire in ogni atto del giudizio teoretico e morale, perché non possiamo giudicare della verità di qualcosa, se non sappiamo di esser nel vero, cioè se non ne abbiamo coscienza. Tuttavia la fallibilità della coscienza richiede che essa sia disposta ad istruirsi e rettificarsi in caso di errore. Dobbiamo sempre agire secondo coscienza, anche quando la coscienza è errante in un errore del quale essa non si rende conto.

Nessuno può costringere un altro o proibirgli di pensare o agire contro la sua coscienza. Dobbiamo lasciare liberi gli altri di pensare o fare secondo la loro coscienza, anche se errano nel pensare o nell’agire, salvo che la loro condotta non metta in pericolo il bene comune. Bisogna pertanto accogliere benevolmente l’obiezione di coscienza, a meno che non sia chiaro che essa si trova in mala fede e disprezza ciò che è tenuto a sapere.

Giudicare in ciò tuttavia non è facile e richiede somma prudenza, perché è buona regola pensare che gli altri siano in buona fede, salvo che diano chiara prova in contrario.

Un atto morale può essere oggettivamente peccaminoso in foro esterno, ossia in base alla scienza morale e a prescindere dalla coscienza che il peccatore possa averne. Ciò allora non vuol dire che il peccatore pecchi consapevolmente in foro interno. Certo le intenzioni degli altri possono venire alla luce; ma occorre esser sempre cauti nel giudicare dell’esistenza o dell’entità della colpa, date le attenuanti che possono sopravvenire o per l’ignoranza o per la fragilità del peccatore.

Padre Giovanni Cavalcoli

Libertà e Persona, 26 agosto 2018