LA REPUBBLICA – Coronavirus, tutto quello che sappiamo sull’origine della pandemia

By 6 Giugno 2021Coronavirus

Biden ha chiesto all’intelligence un report entro fine agosto. Nelle mani dell’intelligence ci sono ancora una serie di dati ancora da analizzare: prove di cui s’ignora la natura, finora classificate come top secret. Allo studio anche l’ipotesi della fuga dal laboratorio di Wuhan

Novanta giorni per scoprire la verità. Tre mesi per far luce sulle origini della pandemia che in un anno e mezzo ha provocato oltre 170 milioni di contagi nel mondo, uccidendo tre milioni e mezzo di persone. Il presidente americano Joe Biden ha chiesto mercoledì all’intelligence un report esaustivo entro fine agosto: dove gli 007 dovranno indicare “possibili direzioni di indagine e domande specifiche da rivolgere alla Cina” tenendo “sempre informato il Congresso”.

L’ordine di Biden arriva dopo la lettera pubblicata su Science alla vigilia dell’Assemblea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dove 18 scienziati chiedono una nuova indagine “obiettiva e imparziale” lamentando le troppe carenze del rapporto di 313 pagine pubblicato a marzo dagli esperti dell’Oms dove solo quattro pagine sono dedicate all’ipotesi del virus fuggito dal laboratorio di Wuhan, la città dove tutto è cominciato, possibilità definita “altamente improbabile”.

Il laboratorio BSL-4

I sospetti sull’Istituto di virologia di Wuhan, l’unico in Cina a contenere un laboratorio di biosicurezza di massimo livello (Bsl-4), a qualche chilometro di distanza dal mercato dov’è emerso il primo grappolo di contagi, sono vecchi quanto la storia del virus.

E a ben guardare i primi ad averne avuti sono stati gli stessi scienziati cinesi che in quel laboratorio lavorano, a cominciare da Shi Zhengli, detta Batwoman, la scienziata cinese che più di tutti ha lavorato sui coronavirus dei pipistrelli. Il 30 dicembre del 2019, quando dagli ospedali della città arrivarono le prime segnalazioni su una nuova misteriosa forma di polmonite virale simile alla Sars, il primo pensiero di Shi fu che il patogeno potesse essere scappato dal laboratorio.

Lo ha detto lei stessa in una intervista – onesta o forse ingenua – in cui racconta di “non aver dormito per giorni”, finché con il genoma di Sars-Cov-2 alla mano non ha potuto verificare che il nuovo virus non corrispondeva a nessuno di quelli contenuti nel suo sterminato archivio, costruito campionando per anni i virus dei pipistrelli nelle grotte della Cina meridionale. Nel corso dei mesi sia lei che il capo dell’Istituto di virologia, Yuan Zhiming, lo hanno ripetuto alla nausea: nessuna fuga di materiale pericoloso dal laboratorio, l’epidemia non è cominciata così.

La “visita guidata” di febbraio

Tra gennaio e febbraio di quest’anno un team di 17 esperti internazionali scelti dall’Oms, tra cui anche molti cinesi, ha indagato su quattro ipotesi. Il rapporto finale privilegia l’origine naturale del virus, definita “molto probabile”, mentre classifica un incidente di laboratorio come “estremamente improbabile”.

La trasparenza e l’oggettività di quell’indagine però sono subito state messe in discussione dagli Stati Uniti e da alcuni Paesi alleati, considerato che gli esperti – pur avendo visitato anche il laboratorio di Wuhan – non hanno avuto accesso ad alcun dato grezzo, ma solo a quelli già raccolti e compilati dai colleghi cinesi. Una specie di “visita guidata”, senza reale possibilità di approfondire le ricerche.

A marzo lo stesso Tedros Adhanom Ghebreyesus, cioè il capo dell’Oms, spesso accusato di essere succube di Pechino, ha ammesso che la teoria dell’incidente di laboratorio richiedeva “ulteriore investigazione”.

La teoria del “lab leak”

Dopo la pubblicazione del rapporto Oms, è arrivato l’appello su Science per chiedere nuove indagini senza spingere verso la teoria del “lab leak”. Robert Garry, uno dei firmatari, virologo della Tulane Medical Schook, ritiene improbabile che a Wuhan il virus venisse coltivato “senza che in nessuno dei loro report scientifici rilasciati negli anni ne abbia mai fatto cenno”, dice al New York Times.

Ma il comportamento di Pechino rende anche difficile escludere completamente l’ipotesi dal tavolo. E al puzzle del coronavirus mancano diversi tasselli, comprese le motivazioni che spinsero il governo cinese a “sottovalutare massicciamente” per settimane l’inizio epidemia, come stabilito da un’inchiesta di Cnn di 117 pagine: dove comunque non si fa mai riferimento ai laboratori.

80mila campioni, esito negativo

Il virologo Etienne Decroly appartiene a un gruppo informale di scienziati francesi che da mesi chiede un’indagine indipendente e approfondita sull’origine del Covid. Decroly ricorda che secondo il rapporto dell’Oms, più di 80mila campioni di animali selvatici, domestici e d’allevamento sono stati testati tra Hubei e altre regioni cinesi per trovare il serbatoio iniziale. “Tutti erano negativi, e il virus genitore del Covid non è ancora stato identificato”.

Le reticenze cinesi hanno frenato anche gli sforzi di campionatura, negando l’accesso a molti luoghi. Ed è comunque una ricerca lunga che potrebbe richiedere ancora mesi, se non anni. “Ma – aggiunge Decroly – dopo aver testato un’ipotesi scientifica più di 80mila volte senza risultati convincenti, è normale esplorarne altre”.

I nuovi documenti

Qualche ora prima dell’appello su Science sono apparsi in Rete una serie di leaks su alcuni lavori mai pubblicati dell’Istituto di virologia di Wuhan. Uno in particolare, realizzato nel 2014, descrive esperimento per “amplificare” alcuni coronavirus in modo da studiare “la reattività incrociata tra i coronavirus dei pipistrelli e i coronavirus umani”.

Dopo la lettura dei documenti contenuti nei leaks, Decroly fa due osservazioni: “L’Istituto di virologia di Wuhan ha condotto esperimenti su molti più virus di quanto aveva detto in precedenza e possiede più genomi di quelli che condivide”. Esistono anche, secondo lo studioso francese, alcuni “pezzi mancanti” nelle sequenze genetiche virali già pubblicate negli ultimi mesi dall’istituto di ricerca Wuhan.

A inquietare è il fatto che i coronavirus su cui sono stati fatti gli esperimenti sono stati prelevati da pipistrelli in una miniera in Yunnan, Cina. È qui che è stato già mappato il coronavirus più vicino al Covid, il “cugino” lontano RaTg13, e dove nel 2012 si erano già ammalate alcune persone, ufficialmente senza alcun legame il virus che ha provocato la pandemia.

La banca dati sparita

La comunità scientifica preme per vedere l’archivio delle sequenze genetiche di tutti i coronavirus raccolti in questa miniera. In passato l’Istituto di Wuhan aveva una banca dati aperta, costruita anche con finanziamenti internazionali. Non è più disponibile dal quasi tre anni, secondo la versione ufficiale a causa di un attacco informatico.

Qualche giorno dopo l’appello di Science, l’Istituto di Wuhan ha comunque dato libero accesso ai genomi di otto coronavirus sconosciuti che appartengono a lignaggio intermedio tra la Sars del 2003 e la Sars-CoV-2. “È un primo passo – comme Decroly – anche se non ha permesso di arrivare a conclusioni nel processo evolutivo del virus”.

I ricercatori ammalati

A rafforzare i sospetti in America, ha contribuito un articolo del Wall Street Journal (il giornale economico proprietà del conservatore australiano Rupert Murdoch, a lungo alleato di Trump) che ha svelato al grande pubblico come nel novembre 2019 tre ricercatori dell’Istituto di virologia di Wuhan si ammalarono e finirono in ospedale con sintomi “compatibili col Covid. Ma anche con l’influenza stagionale”. Informazione contenuta in un rapporto d’intelligence a lungo “top secret”.

In un’intervista rilasciata la scorsa settimana al quotidiano di regime Global Times il direttore del laboratorio Yuan Zhiming ha definito le affermazioni del Wsj prive di fondamento: “Il laboratorio non ha alcuna notizia di ricercatori malati nell’autunno del 2019, non so neppure da dove queste informazioni siano arrivate”.

Ancora indizi top secret

A spingere Biden a chiedere ulteriori approfondimenti è stata anche la scoperta che nelle mani dell’intelligence ci sono ancora una serie di dati ancora da analizzare: prove di cui s’ignora la natura, finora classificate come top secret. Le 18 agenzie di intelligence americane, insomma, non hanno esaurito i materiali a disposizione: passatogli interamente da servizi segreti stranieri.

“Sì, perché gli americani non hanno più nessun network di spie in Cina”, dice a Repubblica Robert Baer, 69 anni, l’ex super agente della Cia che col suo libro di memorie Dormire col diavolo ispirò il personaggio interpretato da George Clooney nel film Syriana. “In due anni, tra 2010 e 2012, Pechino identificò e smantellò la nostra intera rete di spionaggio, uccidendo o imprigionando almeno venti fonti. Distruggendo, di fatto, la nostra capacità di ottenere informazioni sul campo”.

Le prove in possesso degli americani, compresa l’informazione sui tre studiosi del laboratorio di Wuhan ammalatisi a novembre, sono insomma, di seconda mano. “In un contesto delicato come questo, sapere da dove vengono quei dati – nel database ci sarebbero infatti intercettazioni di chat room e messaggi postati sul social WeChat, email e forse tracciamenti degli spostamenti di alcuni scienziati di Wuhan – è importante quasi quanto approfondire ulteriormente le informazioni. Vengono da un alleato affidabile? O da un paese vicino con interessi specifici?”, nota Baer.

Di sicuro, delle diciotto agenzie americane, solo una è convinta che il virus sia uscito – incidentalmente – dal laboratorio di Wuhan. Altre due sono convinte del contrario: propendono per l’ipotesi del salto da animale a uomo. Le altre quindici (compresa Cia e Dia) non hanno preso una posizione netta.

L’effetto Trump

L’indagine sull’origine del virus, si sa, venne iniziata un anno fa, dall’amministrazione Trump, condotta e coordinata da ufficiali del Dipartimento di Stato al servizio di Mike Pompeo. Furono loro a focalizzare l’attenzione sulle sospette attività militari del laboratorio di Wuhan, preoccupati dal tipo di ricerca che vi veniva condotto e dal rispetto degli standard di sicurezza.

Un’ipotesi cavalcata da Trump, anche per distogliere l’attenzione dalla catastrofica risposta della sua amministrazione alla pandemia. Le prove non arrivrono mai e l’ipotesi è apparsa a lungo come una delle tante teorie complottiste.

“Proprio la strumentalizzazione anti cinese da parte del suo predecessore potrebbe aver spinto ora Biden a chiedere un ulteriore revisione del materiale a disposizione. Tenendo presente che non c’è nulla d’anomalo nel non avere analizzato tutti i dati. Accade da sempre. Il materiale è troppo, i fondi pochi. Gli archivi americani sono pieni di fonti mai analizzate”, insiste Baer. “Ma se Biden ha fatto una tale scelta, vuol dire che fronteggia enormi pressioni”.

Secondo il sito The Hill polemiche interne lo accusano di aver chiesto agli 007 di interrompere l’inchiesta quando è approdato alla Casa Bianca: notizia, però, sempre smentita dalla portavoce Jen Psaki.

Secondo il New York Times, l’operazione potrebbe perfino essere mera questione d’immagine: un modo per sottrarre l’iniziativa in tal senso finora presa solo dai repubblicani. Il presidente Usa, d’altronde, fa pressioni, ma non accusa: tendendo in un certo senso la mano ai cinesi. Un messaggio calibrato: insomma: che apre la porta alla possibilità di future collaborazione con Pechino, insistendo sul fatto che l’unico vero obiettivo è evitare il ripetersi di nuove pandemie.

Le altre ipotesi di Pechino

Da quando Trump ha iniziato a parlare del “virus cinese” – cercando di trasformare l’epidemia in una colpa – Pechino ha ben chiare le implicazioni geopolitiche delle domande sull’origine del virus. Il primo obiettivo delle autorità dunque è tenere sotto controllo la narrazione: la pubblicazione di qualsiasi studio sul tema deve passare dall’approvazione del governo centrale. Il secondo è depotenziare qualunque ipotesi che colleghi Sars-Cov-2 alla Cina, quella dell’incidente di laboratorio ovviamente, ma anche quella di un’origine naturale sul territorio nazionale.

Le autorità non hanno mostrato alcuna fretta nell’approfondire le indagini epidemiologiche sulle prime persone contagiate a Wuhan e sull’eventuale ospite animale intermedio tra il pipistrello e l’uomo. Anzi, da mesi la propaganda di regime, con la sponda di numerosi scienziati, anche autorevoli, cerca di accreditare un’ipotesi differente, in teoria non impossibile ma considerata dalla comunità internazionale assai improbabile: che il virus sia arrivato a Wuhan e in Cina “importato” dall’estero, magari attraverso dei prodotti surgelati.

L’obiettivo di questa campagna è chiaro, uguale e contrario a quello degli Stati Uniti nel puntare il dito contro il laboratorio di Wuhan: sostenere che l’indagine sugli inizi della pandemia, dopo aver chiuso il suo capitolo cinese, debba ora proseguire all’estero, magari negli altri Paesi (come l’Italia) dove il virus si è diffuso precocemente. Pechino sa che difficilmente questa richiesta troverà sponde a livello internazionale, ma nel frattempo fa capire che non ammetterà una seconda missione all’interno dei suoi confini, dopo aver già ritardato in ogni modo la prima.

I supplementi di indagini

A Ginevra è in corso fino a martedì l’Assemblea mondiale dell’Oms dove Stati Uniti e Unione europea premono per chiedere un supplemento di indagine. I dirigenti dell’organizzazione stanno ancora esaminando le raccomandazioni del rapporto sulle origini del virus”. “I team tecnici prepareranno una proposta sui prossimi studi da condurre”, dice una portavoce, Fadela Chaib, senza dare un calendario preciso. Il direttore generale l’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha ribadito che “tutte le ipotesi rimangono sul tavolo”.

Avere nuove evidenze sarà difficile, se non impossibile, considerate le implicazioni del tema. E il rischio è che  questa nuova attenzione sul laboratorio, giustificata dal punto di vista della trasparenza scientifica ma cavalcata con obiettivi politici, renda ancora più difficile proseguire le indagini complessive sull’origine di Sars-Cov-2 e su quella che tutt’ora la comunità degli esperti considera l’ipotesi più probabile, cioè che – come sempre successo nelle pandemie del passato – il virus sia passato dall’animale all’uomo in natura. Un percorso che, anche restando su un piano strettamente scientifico, sarebbe difficilissimo da tracciare: solo 15 anni dopo l’epidemia di Sars del 2002 i ricercatori sono riusciti a rintracciare le sue origini tra i pipistrelli delle grotte dello Yunnan. Autori della scoperta: gli scienziati del laboratorio di virologia di Wuhan.

L’analista francese Pierre Haski, autore di un documentario sull’Oms in cui ha dettagliato i molti ritardi dell’organizzazione nell’allertare nel gennaio 2020 sull’inizio dell’epidemia in Cina, vede molti ostacoli. “È un’organizzazione multilaterale e intergovernativa e come tale viene bloccata dai veti tra Cina e Usa”. Haski spiega che una delle poche strade percorribili per convincere Pechino a collaborare potrebbe essere aprire un’indagine globale a tutto campo, che preveda accertamenti anche negli Usa e in Europa.

Dal canto americano il timore di tutti è che alla fine dei 90 giorni ne sapremo insomma quanto prima e sarà necessaria una deroga. “Non abbiamo nessuna prova conclusiva in mano”, ammette il generale Mark Milley, capo dello Stato Maggiore in una nota:  “Ma è essenziale fare lo sforzo di andare più a fondo. Abbiamo sofferto tutti troppo. Dobbiamo sapere com’è cominciata”. Tocca all’ex spia Robert Baer riassumere i timori di tutti: “Non sapremo mai la verità. A meno che la Cina non decida di dircelo, come fece Gorbaciov in Russia, imponendo la trasparenza su Chernobyl. Possibilità per ora remota”.

Anais Ginori,  Anna Lombardi,  Filippo Santelli

La Repubblica

31 Maggio 2021