CENTRO STUDI LIVATINO – Cassazione sul crocifisso in aula, cosa non va in una sentenza «creativa» e difficile da applicare

By 26 Settembre 2021Attualità

E se un dirigente scolastico se non riuscisse, per la presenza di irriducibili contrasti nella comunità scolastica, a trovare l’auspicata «soluzione di mediazione e di compromesso»?

Con l’intervento del presidente emerito di sezione della Cassazione Pietro Dubolino prosegue la riflessione sulla sentenza n. 24414/2021 delle Sezioni Unite civili sul crocifisso: una riflessione avviata il giorno stesso della pubblicazione e proseguita ieri con l’intervento dell’avv. Angelo Salvi. Nel rilevare le aporie della pronuncia e il suo tratto ancora una volta “creativo” della norma, l’Autore ne sottolinea la difficoltà di concreta applicazione, per le incertezze da essa derivanti.

  1. Sulla “vexata quaestio” della presenza o meno del crocifisso nelle aule scolastiche è recentissimamente intervenuta, come è noto, la Cassazione civile a sezioni unite decidendo, con la sentenza n. 24414/2021, sul caso di un professore di un istituto professionale di Stato che era stato sottoposto a sanzione disciplinare  per avere, tra l’altro, rimosso sistematicamente, prima dell’inizio delle sue lezioni, per poi ricollocarlo al suo posto al termine delle stesse, il crocifisso che era stato appeso ad una parete dell’aula, secondo quanto disposto dal dirigente scolastico in adesione ad una richiesta avanzata all’esito di un’assemblea tenutasi dagli studenti.

La Corte ha ritenuto che il provvedimento del dirigente scolastico fosse illegittimo ed ha conseguentemente annullato la sanzione disciplinare nella parte  riferibile all’inosservanza del medesimo.

  1. Il percorso logico posto a base di tale decisione si articola, nell’essenziale, sui seguenti passaggi:
  • deve ritenersi ancora formalmente il vigore l’art. 118 del  R.D.  30 aprile 1924 n. 965 che impone, per la parte che qui interessa, la presenza del crocifisso in ogni aula delle scuole medie statali, ivi comprese quelle superiori, ma tale norma, per renderla compatibile con i principii costituzionali e con la legislazione che ne costituisce attuazione, «non può più essere letta come implicante l’obbligo di esporre il crocifisso nelle scuole, ma va interpretata nel senso che l’aula può accoglierne la presenza allorquando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, nel rispetto e nella salvaguardia delle convinzioni di tutti, affiancando al crocifisso, in caso di richiesta, gli altri simboli delle fedi religiose presenti all’interno della stessa comunità scolastica e ricercando un ragionevole accomodamento che consenta di favorire la convivenza delle pluralità»;
  • ciò posto, «deve escludersi che la presenza del simbolo, quando derivi da una richiesta degli studenti in quello spazio pubblico peculiare nel quale essi imparano a convivere insieme e a formarsi culturalmente, qualifichi “tirannicamente” l’esercizio dell’attività che in esso si svolge», trattandosi di «un simbolo essenzialmente passivo, perché non implica da parte del potenziale destinatario del messaggio alcun atto, neppure implicito, di adesione ad esso»; ragion per cui «la libertà di insegnamento del docente – presidio di pluralismo culturale e di Stato democratico – non ne rimane affatto incisa o toccata: quel simbolo non interferisce con la possibilità di ciascun insegnante di prospettare la propria concezione del mondo, della vita e della posizione in esso occupata dall’uomo, o più in generale di manifestare le proprie convinzioni in materia religiosa nell’ambito scolastico»;
  • nella specie, tuttavia, il provvedimento con il quale il dirigente scolastico aveva recepito la richiesta di esposizione del crocifisso nelle aule doveva considerarsi illegittimo, non essendo esso conforme «al modello e al metodo di una comunità dialogante che ricerca insieme la composizione di diritti uguali e contrari» e non esprimendo «una soluzione di mediazione o di compromesso», quale invece avrebbe dovuto essere ricercata tenendo conto «della voce del docente dissenziente», al quale avrebbe dovuto essere consentito di «incidere sul quomodo della collocazione del simbolo religioso, e così di lasciare traccia di sé nella regola a tal fine elaborata, secondo un principio di proporzionalità della limitazione, conformemente alla natura chiaroscurale del bilanciamento del diritto fondamentale».
  1. Il surriportato ragionamento, benché sostenuto da un ricco apparato argomentativo, non appare tuttavia persuasivo. In primo luogo, e fondamentalmente, non sembra potersi condividere la lettura dell’art. 118 del R.D. n. 965/1924 proposta dalla Corte per rendere tale norma compatibile con l’attuale assetto ordinamentale che trova il suo fondamento nella Costituzione. Trattandosi, infatti, di una norma chiaramente ed inequivocabilmente precettiva, volta, come tale, a creare obblighi di adempimento da parte dei soggetti  cui essa è diretta, identificabili essenzialmente nei dirigenti scolastici, la sua compatibilità o meno con i principii costituzionali poteva e doveva essere verificata soltanto conservandole il suddetto carattere di norma cogente, per stabilire quindi se, entro quali limiti  ed a quali condizioni essa, come tale, potesse  ancora trovare applicazione.

La Corte ha invece ritenuto di poterla e doverla “salvare” mutandone radicalmente la natura, e cioè trasformandola da norma precettiva in norma facoltizzante, subordinatamente, peraltro, al verificarsi di condizioni rimesse alla più totale ed incontrollabile discrezionalità di terzi, quali, in particolare, gli studenti o altre componenti della comunità scolastica da cui possa provenire la richiesta di collocazione del crocifisso nelle aule. Si tratta, quindi, non di una lettura “costituzionalmente orientata” della norma in questione, ma di un suo totale e assoluto stravolgimento da ritenersi, come tale, non consentito in sede interpretativa.

La Corte, in realtà, per risolvere il caso sottoposto al suo giudizio, avrebbe dovuto limitarsi a scegliere, puramente e semplicemente, se l’art. 118 del R.D. n. 965/1924 fosse o non fosse  da considerare, così com’è, compatibile con la Costituzione e quindi applicabile, traendone le dovute conseguenze: vale a dire, nella prima ipotesi, l’automatico rigetto del ricorso, salva l’eventuale fondatezza di motivi esulanti dalla sfera di possibile rilevanza del citato articolo; nella seconda, il suo accoglimento, a prescindere dalle specifiche connotazioni del provvedimento del dirigente scolastico  di cui si addebitava al ricorrente l’inosservanza, bastando all’uopo il solo fatto che esso sarebbe risultato  privo di valida base normativa.

  1. Mette conto osservare, peraltro, a questo punto, che a sostegno  della prima delle suddette ipotesi, la Corte avrebbe potuto facilmente appoggiarsi alla decisione del Consiglio di Stato n. 556/2006, secondo la quale, per come la si riporta nella stessa sentenza in commento, sarebbe da escludere che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, disposta in applicazione della norma in questione, «sia lesiva dei contenuti delle norme fondamentali del nostro ordinamento costituzionale che danno forma e sostanza al principio di laicità che connota oggi lo Stato italiano. Ciò in quanto “il crocifisso è atto ad esprimere (…), in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana”».

Concetti, questi, che, d’altra parte, la stessa Corte non solo non ha in alcun modo confutato ma ha anzi, sostanzialmente condiviso laddove, come si è visto, ha anch’essa escluso che l’esposizione del crocifisso nelle aule, se richiesta dagli studenti, possa in alcun modo limitare o condizionare  la libertà di insegnamento e, più in generale, la libertà di espressione di  ciascun docente, trattandosi di «un simbolo essenzialmente passivo»; il che corrisponde, inoltre, a quanto già in precedenza affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza della Grande camera 18 marzo 2011 nel caso Lautsi c. Italia, anch’essa richiamata nella sentenza delle S.U. in commento per ricordare come, con tale pronuncia, sia stata esclusa  la contrarietà dell’esposizione obbligatoria del crocifisso nelle aule scolastiche tanto all’art. 9 della Convezione, che tutela la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, quanto all’art. 2 del Protocollo addizionale, che impone allo Stato l’obbligo di rispettare il diritto dei genitori a che l’educazione e l’insegnamento nelle scuole pubbliche  sia conforme alle loro convinzioni  religiose e filosofiche.

E potrebbe, a questo punto, osservarsi che, una volta dato per acquisito il carattere di «simbolo essenzialmente passivo» da attribuirsi in ogni caso al crocifisso, con le conseguenze che si sono viste, non si vede quale rilievo dovrebbe attribuirsi alla circostanza che la sua presenza sia dovuta all’osservanza di una norma statuale ovvero  all’accoglimento di una richiesta di studenti o di altra componente della comunità scolastica. Nell’uno e nell’altro caso, infatti, sarebbe comunque esclusa ogni e qualsiasi incidenza negativa di detta presenza sul pieno ed incondizionato esercizio della libertà di insegnamento e di manifestazione del pensiero, salvo che nell’ipotesi, alquanto improbabile, che qualche crocifisso, al pari di quello che, nei racconti di Guareschi parlava a don Camillo dall’altare sul quale era collocato, facesse sentire a studenti e professori, durante le ore di lezione, la sua voce ammonitrice.

  1. Ma la lettura dell’art. 118 del R.D. n. 965/1924 proposta dalla Corte, oltre ad apparire, per le ragioni precedentemente illustrate, non sostenibile  sotto il profilo strettamente giuridico, potrebbe poi dar luogo anche a conseguenze a dir poco paradossali. Si è visto, infatti, che, nella visione della Corte, la norma in questione dovrebbe essere intesa nel senso che essa non imporrebbe ma consentirebbe l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, se così  viene deciso dalla comunità scolastica, affiancando ad esso, in caso di richiesta,  simboli di altre fedi  religiose presenti all’interno della stessa comunità.

Se ne desume, se le parole hanno un senso, che presupposto necessario per l’esposizione di tali altri simboli dovrebbe essere quello che sia stata chiesta e disposta anche quella del crocifisso. Ora, supponendo la incondizionata vigenza dell’art. 118 del R.D. n. 965/1924, in base al quale è sì obbligatoria l’esposizione del crocifisso ma non può ritenersi in alcun modo vietata quella, accanto ad esso, di simboli di altre religioni, la presenza del suddetto presupposto sarebbe comunque assicurata. Accogliendo invece l’interpretazione della Corte, la sussistenza o meno del presupposto in questione verrebbe a dipendere dalla mera eventualità che ogni singola comunità scolastica, su sollecitazione di una o più delle sue componenti, decidesse, nella più assoluta ed incontrollabile discrezionalità, l’esposizione del crocifisso. Ciò significa, in pratica, che se gli studenti  musulmani o induisti o animisti desiderassero vedere esposti nell’aula scolastica  i simboli della loro fede, sarebbero costretti a  fare pressione sugli studenti  cattolici perché questi chiedano ed ottengano la previa esposizione del crocifisso; cosa che, invece, non sarebbe necessaria se il crocifisso, come dovrebbe avvenire in ossequio alla legge, fosse già esposto.

  1. Suscita, infine, notevole perplessità (per usare un eufemismo) anche l’affermazione della Corte secondo cui costituirebbe motivo di illegittimità del provvedimento adottato, nella specie, dal dirigente scolastico il fatto che lo stesso non sarebbe stato espressione di «una soluzione di mediazione e di compromesso», quale invece si sarebbe dovuta perseguire per aderire «al modello e al metodo di una comunità dialogante che ricerca insieme la composizione di diritti uguali e contrari».

In primo luogo, infatti, non si spiega, e non è dato comprendere, quale sia il fondamento normativo posto a base del ritenuto vizio di legittimità, la cui configurazione appare quindi frutto di una mera creazione giurisprudenziale. Secondariamente, non risulta fornito, dalla Corte, alcun elemento sulla base del quale possa darsi risposta all’interrogativo che pur sorge spontaneo: cosa dovrebbe fare il dirigente scolastico se, pur adoperando tutta la sua buona volontà, non riuscisse, per la presenza di irriducibili contrasti fra le varie componenti della comunità scolastica, a trovare l’auspicata «soluzione di mediazione e di compromesso»?

Escluso, presumibilmente, l’obbligo delle dimissioni o, magari, quello del suicidio, l’unica alternativa ragionevolmente possibile dovrebbe essere quella di respingere la richiesta di esposizione del crocifisso anche se, in ipotesi, sostenuta dalla maggioranza degli appartenenti alla comunità, ovvero di accoglierla, previa verifica (in qualche modo tutto da inventare) di una tale maggioranza. Nell’uno e nell’altro caso, però, è comunque evidente che qualcuno, nell’ambito della comunità, dovrebbe rassegnarsi a subire senza obiezioni la volontà degli altri.

Il che, piaccia a non piaccia, risponderebbe all’ordine naturale delle cose umane, nel quale il compito della legge e di quanti sono chiamati ad interpretarla e ad applicarla non può essere (contrariamente a quanto sembrerebbe ritenuto, nel caso in esame, dalla Cassazione), quello di vagheggiare e proporre una utopistica disponibilità di ciascuno a trovare un accordo con gli altri ma piuttosto quello di stabilire d’autorità, «ne cives ad arma veniant»,  in assenza di un tale accordo, se, a quali condizioni ed entro quali limiti la volontà di alcuni debba prevalere su quella di altri. Il che, a ben vedere, costituisce il principio cardine della stessa democrazia.

Pietro Dubolino  – 16 Settembre 2021